Giovedì 15 luglio ore 10,30 – 3° giorno

Julio Monteiro Martins:
Questo è il nostro ultimo incontro e abbiamo con noi lo scrittore Bozidar Stanisic’, che è uno scrittore che io accompagno da tanti anni e pubblico sulla Sagarana da almeno due o tre anni, anche sul numero che è uscito ieri c’è una sua poesia che si intitola “Telegramma”, quindi è proprio un piacere grande averlo qui con noi. Vi do un po’ di notizie biografiche: è nato a Visoko (Bosnia) nel 1956. Già professore di lettere a Maglaj, località a nord di Sarajevo, dal 1992 vive con la sua famiglia a Rugliano, in Friuli. Oltre ad offrire il suo attivo contributo letterario, pubblicistico ed educativo a diverse iniziative di pace e non violenza per i diritti civili dei rifugiati e degli stranieri, Stanisic’ ha sempre collaborato alle iniziative culturali dell’Associazione - Centro di accoglienza “E.Balducci”, con cui ha pubblicato le raccolte poetiche Primavera a Rugliano (1994), Non-poesie (1995), e Metamorfosi di finestre (1998). Diverse di queste liriche sono state incluse nel Quaderno Balcanico I della collana Cittadini della poesia, diretta da Mia Lecomte (Loggia de’Lanzi ed. 1998) e in Conflitti - Poesie delle molte guerre, a cura di Idolina Landolfi (Avagliano ed 2001). In prosa, oltre a numerosi contributi letterari e saggistici in riviste e quotidiani, ha pubblicato le raccolte di racconti I buchi neri di Sarajevo (Trieste 1993), uno dei quali è stato inserito nel Dizionario di un paese che scompare, a cura di Nicole Janigro (Roma, 1994), Tre racconti (Associazione - Centro di accoglienza “E.Balducci” ed 2002) e Bon voyage (Nuova dimensione ed 2003); ed è presente con un racconto in Provincia pagana, Storie dell’Estremo Nord-Est – un’antologia di fine millennio, a cura di Gianni Spizzo (Trieste 1999). Alcuni dei suoi lavori sono tradotti in sloveno, francese e albanese.
Poi abbiamo anche Gabriella Ghermandi, un’amica, non solo una brava scrittrice ma anche una persona molto attiva, forte che crea iniziative ed è in testa a questa rivista on line straordinaria, El Ghibli. È veramente una persona preziosa! Italo-etiope, è nata ad Addis Abeba nel 1965, e si è trasferita in Italia nel 1979. da parecchi anni vive a Bologna, città originaria del padre. Nel 1999 ha vinto il I premio del concorso per scrittori migranti dell’associazione Eks&Tra, promosso da Fara Editore, e nel 2001 il III premio. Ha pubblicato racconti in raccolte antologiche e riviste. È la coordinatrice e promotrice del progetto El Ghibli.
Allora, cominciamo da Bozidar. Lui mi aveva chiesto di leggere o di trovare attori che potessero fare la lettura drammatica di un suo brano tratto dalla sua nuova pièce teatrale. Invece di trovare degli attori ho deciso di farla io stesso insieme a Sara, abbiamo fatto alcune prove… sono le prime due pagine di una pièce molto lunga, giusto per assaggiare un po’ l’atmosfera…

IL SOGNO DEL MIO AMICO ORLANDO
Bozidar Stanisic’
Scena aperta, non illuminata. “Imagine”, la canzone di
Lennon; all’inizio a bassa voce, poi più forte.
A metà canzone il cerchio di luce illumina lentamente
il centro della scena dov’è seduto su una valigia un uomo in matura
età. E’ vestito con un mantello scuro, con uno scialle rosso; tiene in
mano un berretto francese, girandolo ogni tanto.
Finita la canzone di Lennon, una voce dall’off recita gli ultimi versi, in italiano.
Tu puoi dire che sono un sognatore
ma non sono l’unico
io spero che un giorno ti unirai a noi
e che il mondo sarà unito.
Arriva una donna delle pulizie, con l’apposito carretto. Pulisce il
pavimento non dimostrando nessun interesse per l’uomo; a momenti si
ferma, si pulisce il naso e gratta i cappelli. Andata donna delle pulizie, si avvicina all’uomo una vecchia prostituta; è vestita in modo stravagante: una pelliccia mini, stivali alti, calze arancioni, parrucca di color argenteo; fuma, girando lentamente attorno l’uomo seduto.
Prostituta: Sei solo?
Orlando: (come non sentisse, ripete l’ultimo verso) ...e che il
mondo sarà unito... (con un sorriso amaro e ironico)
Prostituta: Ma quale mondo!?
Orlando: (come non la vedesse) Sognare, sognare, sognare...
Prostituta: Sognare? Che cosa sognare?
Orlando: (non risponde)
Prostituta: (per sè) Insomma, chi se ne frega dei sogni...
(a Orlando) Ehi, sordocieco! Ti chiedo un altra cosa,
più importante... Sei solo?
Orlando: (come fosse appena svegliato) Solo?
Prostituta: Per amor del cielo, rispondi!
Orlando: (come fosse assente)Io?
Prostituta: Tu, caro... Tu!
Orlando: Devo rispondere?
Prostituta: Beh! (gli spira una nuvoletta di fumo sopra la testa)
Devi? Devi cosa? Oh, caro, non si deve niente, un bel
niente-niente! (pausa) Sei solo, caro?
Orlando: Sì, sono solo...
Prostituta: Ottimo! E che cosa stai facendo, caro?
Orlando: (come non sentisse)
Prostituta: (ad alta voce) Che cosa stai facendo, caro?
Orlando: (come fosse risvegliato) Lo stai chiedendo a me?
Prostituta: Che disgrazia, che vita! Oh, Dio, Dio! Perché questo
capita a me? (per sè, con rassegnazione) Forse sarà
anche giusto che ciò capiti a chi va in caccia con
dei fucili arrugginiti...(pausa) Chiedo a te, caro!
E poiché a te certe cose importanti pare che non siano,
chiare, ti avverto: alla stazione siamo soli...
Ora, caro, guarda e ricorda bene! (prende la valigia di
Orlando per un lato e la gira insieme a lui seduto
per trecentosessanta gradi) Hai visto?
Orlando: Che cosa dovevo vedere?
Prostituta: Che l’intero mondo si è ridotto a noi due...
Orlando: Pensi che ciò che vedi sia l’intero mondo?
Prostituta: Sei impossibile! Mi costringi a pensare, a quest’ora!
(pausa) Senti caro, se tu non sei d’accordo che l’intero
mondo è sempre quello che possiamo toccare, mordere,
prendere o comprare – è un problema tuo... (con
la rabbia, butta la cicca e la spegne con il tacco) Un
grosso, grossissimo, maledettissimo problema... (osserva
Orlando che sembra di non ascoltare le sue parole; lei
si tranquillizza improvvisamente e accende un’altra
sigaretta) Non mi ascolti? (pausa) Hai ragione... Forse
non so neanche di che cosa parlo... (pausa) Allora, come
siamo?
Orlando: Siamo soli...
Prostituta: Quindi? (si raddrizza) Quindi, caro?
Orlando: (come fossero eco delle parole sentite) Quindi?
(pausa) Tu... (osserva la prostituta come la appena
vedesse) Chi sei?
Prostituta: Che tizio! (schiaccia con il tacco della scarpa la sigaretta
appena buttata per terra) Non capisci niente! Un uomo
alla stazione, appena passata la mezzanotte; una donna che
vende amore, alla stazione, appena passata la mezzanotte...
Allora, caro?
Orlando: Perché, perché... (pausa) Perché...
Prostituta: Perché? Perché cosa?
Orlando: Perché vendi l’amore?
Prostituta: Guarda, guarda! (a bassa voce) Pensi che l’amore non
è una cosa da vendere?
Orlando: Proprio così...
Prostituta: Che stronzo! (alzando la voce) Ma tu... (pausa) Tu...
(batte con il piede la valigia) Tu, in questa stramaledetta
valigia, non porti niente da vendere?
Orlando: Dentro non c’è niente da vendere...
Prostituta: (con curiosità) Forse soldi? E soldi servono per comprare
qualcosa...
Orlando: Sì, ci sono anche i soldi...
Prostituta: Sii ragionevole: tu hai soldi per comprare qualcosa, io
ho qualcosa da vendere... E non chiedo molto...
Orlando: Questi soldi serviranno agli altri...
Prostituta: Quali altri? Mio caro scemino... (gli accarezza i
cappelli) Il denaro serve per i nostri bisogni...
Quali altri!
Orlando: Poi...
Prostituta: Poi? (con allegria) Hai cambiato opinione?
Orlando: Poi... Parla come ti pare, ma io penso che l’amore non
sia da vendere...
Prostituta: (cambia umore)Tu che mi stai criticando, sei sicuro di
non esserti venduto... Mai? (pausa)Pensi che ci vendiamo
soltanto noi, donne venditrici d’amore? (pausa) Ti inganni,
caro... Ti inganni... In questo mondo tutti vendono
qualcosa e, vendendo qualcosa, vendono se stessi e poi...
(accende un’altra sigaretta) E poi... (come fosse
deconcentrata, tocca con l’indice la propria fronte) E poi
a molti diventa più facile a dire: ecco, guardate le
prostitute! Condanniamole, ok.! Sono loro il peggio
del mondo, ecc. ecc.
Orlando: (come fosse assente)Può darsi che tu abbia ragione, ma io
ancora voglio credere che esista un mondo dove si lotta
per non essere venduti e per non vendere le cose, ma
scambiarne con il cuore, dove si sogna la pace nonostante
la morte violenta, ospite quotidianamente presente, lì...
Prostituta: (impazientemente, fra due boccate della sigaretta) Lì?
Dove, caro? Dove può esistere ciò che mi stavi
raccontando?
Orlando: Lì, per dove voglio andare...
Prostituta: E dov’è, caro, quel tuo lì?
Orlando: Lì... (estende una mano)
Prostituta: Lì? E lì, se non sbaglio, è il cesso di questa
stazione...
Orlando: Lì... Sulle Ande...
Prostituta: Sulle Ande? Così lontano? Ma pensi sul serio, caro?
Partire a quest’ora, da questo deserto di mezzanotte
della stazione di Pordenone, alle Ande? Non sai che il
primo treno passa fra... (guarda all’orologio) Hm,
quando? Penso - circa fra tre ore e mezza...
(applausi del pubblico)

Bozidar Stanisic’:

Vi saluto e vi ringrazio della vostra cortese pazienza per aver ascoltato questo dialogo così come ringrazio Sara e Julio per mettere in piedi almeno per la prima volta una cosa che avevo scritto in un’altra lingua, che non dico che non è mia, ma dove ho sperimentato qualcosa di cui forse parlerò dopo. Poiché Julio mi ha risparmiato molto, poiché non è facile parlare di sé, poi ho sempre in mente quel brano del Giovane Holden che dice “mica vi racconterò ora la mia maledetta biografia”! E poi Julio non mi ha fatto quella domanda “Di’ a tutti chi sei” perché la domanda è proprio difficile; molti anni fa Mark Twain alla stessa domanda doveva rispondere “Ma neanch’io so chi sono, perché quando io e mio fratello Bill avevamo quindici giorni uno di noi due è annegato in una vasca perciò non so mai chi sono, se io o mio fratello”. Per cui questa piccola battuta mi servirà per partire verso qualcosa per, non dico spiegare, ma per dare almeno alcune descrizioni utili su ciò che scrivo. Dal ’92 vivo a Zugliano, Zugliano è interessante perché è ai piedi di Udine, e le finestre orientali della mia casa guardano verso la Slovenia e quando c’è bel tempo si vedono le cime del Tricorno che una volta era la montagna più alta della ex-Jugoslavia. Se guardo ad occidente vedo Piancavallo, sotto cui c’è la base U.S.A. di Aviano. E poi, molto più vicino, a 50 metri, c’è un centro di accoglienza per immigrati, profughi, intitolato ad Ernesto Balducci, toscano di Santa Fiora, per cui quando un uomo osserva il mondo vede le cose e tutto si inserisce nella nostra mente. Io non faccio discorsi sulla scrittura rappresentando un autore che è sopra gli altri, ma intendo parlare di uno tra gli altri che ha un piccolo dono di saper esprimere ciò che pensa, ciò che vede. Perciò, per spiegare il perché di questo passo dopo un genere che non è che l’ho inventato io – hanno detto così - , io le chiamo non-poesie, un flusso di parole che non trovano la rima tra loro, ma sono gli oggetti, le situazioni e i volti umani che trovano la rima, quella interna, invisibile, non formale. E poi anche dopo i racconti brevi, le storie, dopo la saggistica, sono tornato a questo genere che avevo provato come autore di radiodrammi nel mio paese: è un genere si può dire – essendo io anche modesto – molto apprezzato nella Mitteleuropa, anche in Germania. Il radiodramma si ascolta perché non pesa con le immagini, l’unico peso è la voce, e questo toglie già la metà di ciò che pensiamo di percepire come difficoltà di comunicazione. Volevo fare un qualcosa, ma non eliminando tutto ciò che ci circonda, perché penso che i temi grandi esistono davvero, come ad esempio centocinquant’anni fa diceva un autore francese che i temi importanti erano il parassitismo sociale, i problemi di produzione, la distribuzione dei beni e della ricchezza. È come se oggi ascoltassimo padre Zanottelli, è lo stesso, così diceva Hugo centocinquant’anni fa. Io penso che, non volendo di nuovo scoprire l’acqua tiepida, si può davvero comunicare con il mondo anche attraverso il teatro, perché mi viene spesso in mente l’immagine del giovane Lorca quando andava con la baracca per i paesi più sperduti dell’Andalusia dicendo che lui credeva nella rivoluzione e nella riforma del teatro, e che il teatro è per tutti e non per le élite, perché comunica. Le cose che durano di più sono quelle che si collegano ai temi eterni, ai temi bollenti, ed io volendo scrivere questo testo, sono partito da un racconto che avevo scritto in italiano, ma in un italiano di basso livello, con il contesto forte del dramma di un pacifista. Sono partito dalle delusioni di uno che non ha visto i frutti del suo impegno di decenni, e poiché ho avuto molti incontri con dei pacifisti e con il mondo del volontariato, poiché scambio opinioni con persone del genere, ho pensato “ perché, a partire dalle delusioni, non rappresentare il destino di un uomo che voleva vedere il mondo cambiato?”. Ciò inoltre aveva a che fare con la vicenda che si incrocia di due profughi entrambi delle mie parti, miei amici che poi sono diventati ex amici, uno che vive dalle mie parti e l’altro in Canada. Poi spero di trovare una compagnia che possa interessarsi, anche se a dire il vero non sono molto ottimista, perché nel paese che mi ospita tre quarti di tutti i mezzi culturali sono dedicati alla lirica e solo un quarto alla prosa, perciò dovrò ricorrere a qualche gruppo alternativo, cioè partire sempre come apprendista, che è meglio piuttosto che un artigiano compiuto. Ho anche un altro testo a cui mancano solo poche correzioni, perché devo affinare un po’ il linguaggio; questo tratta di un altro dramma invisibile, il dramma del benessere. È ambientato in Veneto, in una provincia profonda, e il Veneto è molto interessante per me perché c’è quel mito del Nord-Est italiano che si è creato per la ricchezza, in cui tutto è in funzione del lavoro, ma ci sono anche molti drammi, soprattutto i drammi della non-memoria perché pochi ricordano i veneti che andavano con le valigie di carta verso altri paesi. Ho poi creato uno scontro tra generazioni all’interno di una famiglia, il figlio è un no-global, mentre il padre è uno dei cosiddetti uomini nuovi che si è arricchito con un matrimonio con una donna ricca. Ecco, volevo scrivere qualcosa con un’impronta personale ma rivolgendomi anche molto agli altri perché penso che il teatro possa essere anche una cura contro il monologo che coltiviamo dentro, aprendoci al dialogo, agli altri. Il teatro non voglio vederlo come un mezzo sociale, ma penso che i tempi primitivi, quelli prima dell’Egitto, fossero tempi lirici perché si cantava più che scrivere. E poi i tempi primitivi erano tempi epici mentre i tempi moderni sono drammatici…può sembrare che io abbia fatto una lezione, ho sempre paura di fare le lezioni e non voglio più rubare tempo a Gabriella…

Julio Monteiro Martins:

Io volevo solo fare un’osservazione che mi è venuta in mente al momento, quando lui parlava delle delusioni dei pacifisti. Ricordo Alex Langer, pacifista ed ecologista italiano che è andato a Sarajevo, lui era un uomo di una consapevolezza straordinaria, per esempio gli aggettivi degli antichi Greci “più in alto, più veloce” lui li ha trasformati in “più in basso, più piano”, cioè lui ha rovesciato l’ideale dell’uomo contemporaneo. È andato a Sarajevo e tornando si è suicidato perché non sopportava quello che aveva visto. Era anche un parlamentare del partito verde…
Faccio una domanda a Bozidar di cui posso già intuire la risposta, a proposito del suo processo creativo nella lingua italiana, perché mi sembra che ci siano delle tappe, cioè in alcuni casi tu lavori con un collaboratore… com’è scrivere in lingua italiana?

Bozidar Stanisic’:

Io posso dire che la lingua italiana riesco ad usarla bene quando scrivo articoli e saggi brevi, con piccole correzioni. E poi ho fatto una serie di reportages per una rivista di Verona, sulla ex Jugoslavia, poi alcuni racconti per dei concorsi che prima di essere pubblicati venivano redatti dagli stessi organizzatori dei concorsi ma anche dalla mia amica che traduce le cose che scrivo in serbo-croato. Poi c’è questo mio esperimento che ho fatto, molto lungo, perché entrambi i miei lavori teatrali sono più lunghi di centocinquanta pagine, per mia scelta. Però posso dire - potrebbe essere un’osservazione interessante – quando si lavora in una lingua straniera si deve pensare soprattutto al contenuto e non alla bravura linguistica, quindi tutte le cose accorciate, sintetizzate, cominciano a sembrarmi giuste. Mi spiego, non è il linguaggio che deve portarmi, e lo avete visto con il testo letto adesso che dice le cose essenziali. Mi chiedo sempre perché Beckett ha scritto Aspettando Godot in francese, perché in inglese sarebbe stato molto più lungo, meno sintetico, per esempio; poi il giovane Jonesco che sapeva il francese ma non da scrivere così bene quando ha scritto La cantante calva appena arrivato a Parigi. Se uno mi chiede come uno può scrivere in modo migliore, io rispondo sempre nella lingua madre perché in essa si colgono tutte le sfumature in modo palpabile, ma se si vogliono fare le cose essenziali preferisco un’altra lingua, un’altra scelta linguistica.

Julio Monteiro Martins:

Mi ricordo una frase di Ortega y Gasset che dice “l’uomo è l’uomo e le sue circostanze”. Io nella narrativa di Bozidar, anche nella sua poesia, spesso trovo questo protagonista, spesso anche narrato in prima persona, molto angosciato, molto torturato, anche nell’ultimo racconto di Bon Voyage, pubblicato su Sagarana che vi invito a leggere, Il giardino di Sir Virgin O’Brien che è la storia di un uomo che ovunque si trova vorrebbe essere altrove. Allora la domanda è: ci parli un po’ di te stesso riguardo agli eventi storici avvenuti negli ultimi due decenni, cioè quanto della storia del tuo paese ha modellato il tuo essere scrittore?

Bozidar Stanisic’:

Penso che abbia modellato non solo la mia, ma la vita di tutti e ventiquattro milioni di persone che facevano parte di quel mondo, e poi soprattutto quei cinque milioni di persone che tra il ’92 e il ’99 hanno cambiato luogo… sono cifre di proporzioni bibliche, perché ad esempio un sociologo americano aveva scritto, dopo una lunga ricerca, di essere convinto che oltre il 90% delle persone in tutto il mondo non ha una predisposizione a cambiare ambiente per vivere. Questo potrebbe avere anche un valore antropologico, e credo che la maggior parte della gente ritenga di avere una vita su una linea abbastanza retta. Ma pensando che la storia è sempre in movimento, sempre, un movimento che causa cambiamento, si hanno delle reazioni di difesa, e così l’uomo diventa tale che la fuga che ho fatto io sia una fuga falsa, nonostante sia reale. Voglio dire che credo che la fuga sia impossibile, perché sia l’inconscio che la coscienza sono così forti che non possiamo essere giudici a se stessi, con se stessi, senza gli altri. Perciò la letteratura per me ha lo scopo di dire la verità e mi piace quando è provocatoria, e per la letteratura ispanica Unamuno è un ottimo esempio. Ti ricorderai sicuramente quando nel parlamento spagnolo al grido di “Viva la muerte” Unamuno rispose con quella mezza pagina storica in cui dice “Viva la vita”. Noi scrivendo, annotando le morti e le violenze, esprimiamo una fiducia nella possibilità che il cammino possa essere più umanizzato. L’evoluzione è un fenomeno e questi cinquemila anni ad esempio potrebbero essere messi sotto esame…ad esempio io conosco della gente bravissima, laboriosa, sia italiani che stranieri, non importa, ma quando si parla della guerra, uno ha detto una cosa tanto simpatica quanto terribile: “La guerra quando arriva arriva” come se parlasse della pioggia. Però questo mi fa pensare, perché se guardiamo alle fondamenta di ciò che Popper chiama “la vita migliore” pensando alla cultura occidentale riferendosi al De rerum natura di Lucrezio, lui si riferisce a uno che guardava la natura delle cose e dopo duemila anni un erede di quella cultura ti viene a dire che la guerra quando arriva arriva. Allora non conosciamo la natura delle cose! Non dico che la conosco io, però conoscere i meccanismi…e a me ha insegnato molto Checov che ai circoli letterari preferiva i circoli di scienziati, non a caso, perché gli piaceva di più l’esattezza della scienza piuttosto che l’improvvisazione della letteratura soprattutto quella falsa. Dunque parlando del lavoro teatrale penso che la cosa migliore sia non fuggire dalla realtà. Si può fuggire da un paese ma non dalla realtà che ci circonda. Non è un consiglio, né una cosa programmatica…

Gabriella Ghermandi:

Però mi viene da fare un’osservazione: un mondo più umanizzato dicevi…ma…e se l’uomo fosse questo? Perché noi diamo sempre per scontato che un mondo più umanizzato sia un mondo migliore, ma forse un mondo umanizzato è già questo, nel senso che purtroppo questo è l’uomo, con le sue contraddizioni, con il suo desiderio di pace ma purtroppo anche con il suo desiderio di guerra!

Bozidar Stanisic’:

Mah Gabriella… ad esempio se entrate nei laboratori di biologia delle scuole, ci sono spesso quei grafici con l’uomo di Neanderthal o Cro-Magnon e poi l’uomo sapiens… ecco, io non voglio sociologizzare, però se diciamo quali sono le nostre dimensioni rispondo che sono tre, una biologica, cioè che siamo uomini, una sociologica, cioè che tutti viviamo nella società, e la terza dovrebbe essere etica, ma non lo è. Una volta il mio amico Armando Gnisci ma parlava della famiglia De Beers che sfrutta i diamanti della Sierra Leone in cui ci sono bambini addestrati a combattere, e si fa una guerra civile allo scopo che le miniere di diamanti rimangano in possesso di certe famiglie che sono europee e americane…cioè il lavaggio delle mani non lava la coscienza… senza etica le altre due dimensioni si cancellano…ti dico questo, una volta ho parlato alla radio a Udine, su una cosa simile, e uno dei presenti, un professore, ha detto che gli sembrava una predica e che io ero un predicatore. Quando si sente in letteratura non la tendenza – la tendenza fa la morte della letteratura – ma tantissimi dettagli sembrano convincerci di tutto ciò che ci circonda, credo che sia un’altra cosa. È fuori tendenza dei partiti, delle tendenze artistiche…non vorrei sembrare polemico con il mio brutto italiano…

Gabriella Ghermandi:

No no, la mia è una provocazione, perché comunque viene delle volte da pensare che l’uomo deve evolvere ma in questo momento è così. Cioè, quando parliamo dell’uomo umanizzato parliamo dell’ideale di umanizzazione perché umanizzato in questo momento è stra-umanizzato nel contesto…anch’io sono d’accordo con te…

Bozidar Stanisic’:

Prendiamo per esempio quel monumento della letteratura che è Guerra e pace di Tolstoj. Secondo un lettore povero e modesto come me, quale dei due o tre personaggi possono essere più umani? C’è il pacifista, Pjer Bezuhov, che non riesce a capire la guerra ed è la trasfigurazione dello stesso Tolstoj, poi c’è il contadino Platonov, nome di origine greca – e sappiamo che Platone si chiamava così perché esercitava nel ginnasio e aveva le spalle larghe – che diceva “sono io che porto tutto quando mi chiamano in guerra”, poi c’è il barone L’evin che crede che l’uomo di famiglia a lavorare la terra diventa più autentico. Gli altri sono come omini che camminano tra noi, uomini del suo tempo…perché noi siamo figli del nostro tempo, però quali figli e quale tempo?chi l’ha creato? Siamo noi a creare questo tempo! E poi c’è il fattore della complicità che viene sostenuta dalle componenti religiose, politiche e sociali, ma mai culturali!

Julio Monteiro Martins:

Beh, io capisco benissimo quello che dice Gabriella perché io credo che tutti i pacifisti dovrebbero leggere i testi di Freud sulla pulsione di morte per capire questo istinto di desiderio di morte che ci costituisce. Bisogna lottare per un mondo diverso, ma senza illusioni, senza perbenismi né infantilismi, consapevoli della natura dell’uomo e della sua struttura psichica.

Gabriella Ghermandi:

Sì e io credo che la possibilità del progredire debba avvenire a partire dal reale e non dall’utopico, cioè in che tempi siamo e chi siamo, siamo figli dei nostri tempi e allora partiamo veramente da chi siamo, guardando la pietra e chiamandola pietra.

Julio Monteiro Martins:

Ma lui, Bozidar, sa più di noi, ha visto l’uomo nel suo peggio e nel suo meglio…

Bozidar Stanisic’:

No, mi vergogno a dire di sì, perché – se posso fare una battuta – mio figlio ha ventuno anni e ha un po’ le idee diverse che sono da tollerare, per carità, però dice che se uno crea o costruisce la capacità, riesce a comunicare con tutti. E io dico che grazie a questo ho arricchito il mio registro delle esperienze, parlando con quello che vende il latte, con sconosciuti in treno – grazie ai quali ho scritto Bon Voyage. Posso dire che se uno riesce a comunicare con uno sconosciuto in treno è già qualcosa.
(Lettura ed interpretazione dei brani di Gabriella Ghermandi)

all'ombra dei rami sfacciati, carichi di fiori rosso vermiglio
gabriella ghermandi

Siamo storie
di storie nella storia
Angoli o centri
di trama e ordito
del tessuto del mondo.
Nicchie ricavate in
intrecci di eventi.
Noi siamo nella storia

Infine aveva ragione nonna Berechtì, nonna Benedetta.
La guardo nella foto appesa in sala, mi sorride, ancora pronta a dirmi "ascolta me, le mie esperienza, ho già vissuto tanto mondo, per te e per tutti quelli che verranno dopo di te, se saprai tramandare le mie esperienze e poi le mie assieme alle tue... !"
" Niente ti dico, niente di ciò che accade, degli eventi belli o catastrofici si tiene interamente o si butta completamente. E negli eventi brutti c'è sempre un pezzo della tela, di nicchie di intrecci, che vogliamo tenere".
Diceva questo quando io, noi, tutti piangevamo e complottavamo contro il regime.
E ancora "Le cose dell'uomo non sono fatte per stare in bilico in eterno prima o poi si sistemano trovando un loro equilibrio!".
Oggi mi capita di ripensare spesso a quelle frasi, e trovo un pezzo di tela, una nicchia ricavata, di quegli anni, che trattengo in un sorriso lieto.
Qualcosa, di quel periodo catastrofico, che non butto via: la bicicletta.
E si!
Ho imparato a pedalare, gironzolando in sterrati, stradine, viottoli del mercato, tra banchetti e verdure accatastate per terra, sfruttando la tenacia dell'infanzia che si accanisce per imparare non facendosi intimorire da cadute, sbucciature, bernoccoli... .
Ho imparato a pedalare negli anni del regime, grazie al regime.
Ma forse è meglio che vi racconti ogni cosa partendo dall'inizio.
Eravamo in settembre, il lieto settembre in cui finiscono le grandi piogge.
Un giorno uno sciopero, il primo della storia d'Etiopia. Taxisti e camionisti sfilavano con i mezzi nella città, per protestare contro il rincaro della benzina.
Quello dopo, in un improvviso, inaspettato, galleggiavamo malamente nelle acque sconosciute di un nuovo governo.
Ancora prima di imparare a sentirne la parola in bocca, ancora prima di riuscire a farla rotolare correttamente sulla lingua, il golpe ci colpiva mettendo a gambe all'aria ciò che fino a quel momento era stato il nostro conosciuto.
I primi giorni, io e la mia famiglia, li passammo nascosti in casa, a sentire i colpi delle mitragliatrici ed a spiare dalla veranda i blindati che scorrazzavano sulle nostre strade, nel nostro rione.
Mio padre e nonna Berechtì erano gli unici a non avere paura di quella guerriglia, subito oltre il cancello. Loro avevano passato la guerra!
Mentre fuori sparavano nonna Berechtì passava e ripassava per il salone, normalmente affaccendata e ad ogni mitragliata ripeteva "Wai! Ghena ai dechmoun iziatom?" "Insomma non sono ancora stanchi questi?".
La strana routine della dittatura, che durò 17 anni, si insediò in poche settimane.
Quando una specie di normalità prese forma e la gente si abituò alle facce dei nuovi governanti, riprendemmo la via per la quotidianità.
Ed ecco un giovedì sera, mio padre, si alzò da tavola per muoversi in un gesto che apparteneva alla consuetudine.
Andò ad accendere la tv.
Prima del "trambusto", ogni giovedì sera la mia grande famiglia, tutti tranne mia nonna, che non nutriva un grosso interesse per la scatola, come la chiamava lei, si riuniva sui divani a guardare il telefilm Il fuggitivo, o meglio, "the fugitive", era in inglese.
Quella sera mio padre girò la manopola e la tivù prese vita, ma al posto delle immagini il monitor si illuminò di strisce bianche e nere e un fastidioso rumore prese a spargersi per la stanza.
Mio padre girò attorno alla tv, provò e riprovò a premere i pulsanti, mosse il filo dell'antenna... , niente, “kisch kischschsch”, il televisore continuava ad emettere quel suono che grattava come una lima nelle orecchie.
Era già scattato il coprifuoco e quindi non potevamo andare sul tetto a cercare di sistemare l'antenna, e neppure da Atò Iemane, l'unico oltre noi ad avere la tv nella zona.
“Beh! Oggi niente tv! – disse mio padre - Domani! Domani aggiustiamo l'antenna e guardiamo i Fratelli Bonanza. Sicuramente è l'antenna”, e mia nonna, con le mani sulla vita ed il tono di sfida “Speriamo che si sia rotta per sempre. Con tutte le storie che ci potremmo raccontare, passare il tempo con gli occhi vuoti a fissare la scatola..., a farsi rintontire, mah! Mi sembra una cosa dell'altro mondo”, “Ma nonna – disse Daniel, mio cugino, in difesa della televisione - raccontano delle belle storie, con tante immagini” “Anche io se vuoi te ne racconto, di belle storie! Ne so quante ne vuoi e poi, pensa, mi puoi fare anche delle domande se non capisci ed io ti risponderei, mica come la scatola!”
“Dai nonna, la tv è un'altra cosa, è più bella”,
E lei andandosene in un’altra stanza “Eh! Il passato resta indietro ed il futuro avanza, carico di guai! Guardare una scatola anzichè parlare tra noi!”
Comunque, la tv non andò più, e non per l'antenna.
Era la politica del nuovo governo: niente più telefilm americani.
E, sempre per la politica del nuovo governo, in poco tempo scomparvero i beni di lusso, le macchine di importazione, le case private, le proprietà private, i proprietari terrieri... e per la tristezza di noi bambini scomparvero tutti i beni che potevano inquinare le menti dei giovani. Niente più giocattoli, biscottini, caramelle, cioccolate... .
Negli interstizi liberati da tutto ciò che venne progressivamente cancellato, persino nel semplice mondo delle banali conversazioni, si infilarono nuove parole.
“Imperialista e capitalista” : ciò che doveva essere eliminato definitivamente dal paese, in ogni sua forma.
“Bene del popolo” : ciò che andava creato o rinforzato.
“Ideologia”: una parola grossa, che odorava di pensieri, ragionamenti, squadrature e linee dure.
“La tutela dell'ideologia”: militari ad ogni angolo della città, centri di controllo del quartiere, posti di blocco e coprifuoco, dalle sette di sera alle sei di mattina.
E quando le parole presero vita tra noi trasformandosi in modi e usi della vita di tutti i giorni, arrivarono gli “Alleati dell'Ideologia” : Russi, Bulgari e Cubani multicolori riempirono il nostro paese.
Infine, per ultimo, arrivarono i “beni degli alleati”.
Il bassopiano etiope venne riempito di biciclette da uomo che provenivano dalla Cina di Mao.
"Ma le cose dell'uomo non sono fatte per stare in bilico in eterno, prima o poi si sistemano trovando un loro equilibrio!" diceva nonna Berechtì. Le maglie troppo strette che mettevano in bilico il nuovo governo ben presto si allentarono, nonostante la Tutela dell'Ideologia, e ognuno trovò la propria nicchia. I fili per tessere a proprio piacere un pezzo di tela, di trama e ordito.
Mio padre mal sopportava il clima claustrofobico della città soffocata dal coprifuoco, dai continui controlli dei militari, dai rastrellamenti notturni , allora mia nonna lanciò una richiesta di aiuto ai membri di tutta la sua famiglia. Un giorno Gebremeskel, un cugino di mia madre, si presentò a casa nostra sventolando un foglio con la faccia soddisfatta. C'era scritto "Il governo militare provvisorio della repubblica popolare socialista concede al signor ....., alla sua unica macchina e tutti i famigliari che riescono a stare nella macchina, di oltrepassare il primo posto di blocco, e proseguire fino al secondo dove ...". In pratica potevamo andare a Nazareth, piccola cittadina cento km a sud di Addis Abeba, a rilassarci e disintossicarci dal clima di repressione della captiale.
Nazareth, o Adama, come l'aveva ribattezzata il regime, faceva parte del bassopiano, e data la piattezza del suo territorio, per mia gioia, era stata invasa dalle famose biciclette della Cina di Mao. Ogni suo angolo di strade ne era pieno. Biciclette e affituari, incaricati dal governo, placidamente piazzati all'ombra di un albero, in attesa di clienti.
Ribadisco, per mia gioia!
Ah! La bicicletta!
Da tempo immemorabile era stata una mia grande passione. Una di quelle passioni che galoppano nel sangue offuscando il senso del pericolo.
Un tempo nella nostra casa ne era circolata una , di mio fratello. Non avevo mai imparato ad andarci, nonostante ci avessi ostinatamente provato.
Ogni giorno costringevo il nostro guardiano a trattenermi in bilico sulla bicicletta, e quando mi ero ben assestata sul sellino gli ordinavo "mollami", e mi lanciavo giù per la ripida discesa che iniziava dopo la nostra strada.
Lui da dietro urlava "Mi raccomando quando arrivi in fondo alla discesa, questa volta, frena, se no tuo padre stasera mi ammazza".
Ma non era la frenata lo scopo. Tutta quella galoppata era una rincorsa per affrontare, uscendone vittoriosa, l'altrettanto ripida salita.
Ogni volta il risultato non era quello desiderato e la mia corsa terminava alla fine della discesa, nel negozio di Alem, "la parrucchiera", a gambe all'aria in mezzo a barattoli e sedie, con mani e ginocchia sanguinanti e la bici fuori dalla porta. Infine, una notte di marzo, senti dei rumori. Quel misto di feste etiopi ed italiane mi confondevano le idee, non sapevo mai quando era una o l’altra, e pensai che fosse la befana e relativa sorpresa, e stetti zitta. Invece erano i ladri e si portarono via le coperte delle mie cugine, stese all'aria, e la bicicletta.
Qualche magligno, nel quartiere, vociferava che in realtà i ladri erano amici della parrucchiera, stanca della mia quotidiana visita, e il furto delle coperte serviva per mascherare il reale motivo dell'intrusione: salvare l'andamento florido dell'attività di Alem.
Comunque, quale che fosse il motivo, restai senza bicicletta fino a quel sabato quando oltrepassato il blocco militare la piccola città del bassopiano si aprì dinanzia a noi facendomi increspare il sangue per la sorpresa.
Nazareth, o Adama, come l'aveva ribattezzata il nuovo governo, era un crocicchio di tre strade asfaltate e un mare di polvere mosso e rimosso dai Gari, i taxi calessi, e, dietro alle tre strade viottoli, mercatini, negozietti di frullati di frutta traboccanti di papaie verdi e profumate, l'albergo franco, un tempo di un italiano, capitalista, ed ora nazionalizzato dal governo e l'albergo Warush, la nostra residenza: un corpo centrale attorniato da una fila di stanze sepolte sotto buganvillee multicolori e due imponenti acacie cariche di fiori rosso vermiglio, con rami sfacciati che oltrepassavano il muro di cinta .
E Ghrma, il biciclettaio, con una aureola spettinata di capelli, un pettine di legno piantato nell'aureola spettinata e un sorriso di denti bianchi e brillanti, stava lì, lì sotto, all'ombra dei rami sfacciati carichi di fiori rosso vermiglio.
E oltre, sotto al sole, con i sellini di pelle nera, incandescente, le biciclette.
Tutte rigorosamente verdi e nere e tutte rigorosamente da uomo.
Di fronte, delimitato da una fila di alberi del pepe, un ampio spiazzo, il mio camposcuola.
A convincere i miei ad affittarmi la bicicletta per un'ora tutti i giorni non fu difficile.
Misi in pratica un trucchetto che avevo compreso funzionare bene: insistere.
Si stancavano quasi sempre prima di me.
Con Ghrma il problema non si pose. Mi addottò in un baleno e sotto il sole cocente del bassopiano etiope mi insegnò ad andare in bicicletta sostenendomi per il sellino e correndo per l'intera ora del noleggio.
La lezione di bicicletta aveva degli spettatori: i camerieri dell'albergo.
Comodamente seduti all'ombre nella postazione di Ghrma urlavano consigli e rallentavano le sporadiche macchine di passaggio "Piano, c'è una bambina che sta imparando ad andare in bicicletta".
Attorno alla mia lezione era tutto un movimento. Ogni passante, a piedi, a cavallo o in macchina si sentiva in dovere di lasciare un commento "Eh! Ma si deve vedere una bambina fare cose da maschi!"
"Guarda che progresso, grazie al nuovo governo anche le femmine vanno come i maschi!"
La maratona veloce di Ghrma appresso alla mia bicicletta diede frutti positivi e nel giro di neppure un mese imparai a rimanere in equilibrio pedalando velocemente nello spiazzo, sotto lo sguardo vigile di Ghrma e dei camerieri di Warush.
Mi sarei potuta anche lanciare nella perlustrazione degli angoli e delle stradine di Nazareth, ma restava un problema. La bicicletta era troppo alta. A malapena arrivavo in fondo alla pedalata con la canna della bici piantata nell'inguine e la punta del piede sul pedale. Se mi fossi dovuta fermare all'improvviso o scendere non ne sarei stata capace.
Per un po' questo pensiero mi trattenne e rimasi nello spiazzo a contarne i sassi, ma con il crescere della confidenza con l'equilibrio e la velocità una irresistibile curiosità per la perlustrazione iniziò a molestarmi, come una mosca che non ti lascia dormire, e la voce del pensiero che mi tratteneva perse consistenza.
Ghrma da bravo maestro, seguiva ogni mio impulso interiore e quanto mi ritenne pronta mi svelò un segreto: "Qui attorno puoi gironzolare! Questo è il vecchio quartiere italiano ed ogni casa ha dei muretti di cinta bassi. Potresti sfruttarli per fermarti" e così dicendo quasi mi spinse oltre il protetto perimetro dello spiazzo.
La prima pedalada mi aggredì con un brivido lungo la schiena. Girai a destra per costeggiare il muro di cinta di Warush.
Il brivido lungo la schiena si fece più pungente.
Pedalai ancora… .
La strada era uno sterrato sconnesso pieno di buche e calessi che correvano all'impazzata.
Continuai ad avanzare, come mi aveva insegnato il mio maestro.
Feci il giro del muro che racchiudeva l'albergo e spuntai dall'altra parte dello spiazzo. Sudata!
Lui mi attendeva "Allora!"
"Ho avuto paura"
"Dove c'è la paura c'è anche il coraggio! Domani andrai più lontana!"
Ogni giorno aggiunsi un pezzetto di strada, scoprendo muretti e punti di appoggio utili a fermate improvvise, ma lo sguardo restava sempre concentrato sulla strada e i muscoli rigidamente tesi nel controllo di ogni movimento. Non riuscivo ad abbassare la guardia e il mio sguardo era sempre rivolto verso me, la bicicletta ed il suo controllo.
Il passaggio dall'altra parte, quello che mi permetteva di volgere lo sguardo, finalmente, verso l'esterno, per quella parte di me abituata a controllare, avvenne all'improvviso.
Una buganvillea svettava oltre il muro di cinta dell'albergo. Sui fiori arancioni, eretti verso il sole, nuvole di farfalle bianche fremevano. Alcune scendevano come una scia, verso di me.
Allungai la mano per toccarle, senza pensarci, e continuai a pedalare.
Quando mi accorsi del movimento una scossa di eccitazione mi attraversò da capo a piedi. Continuai a pedalare con una mano sola guardando incredula quella staccata dal manubrio, raggiunsi lo spiazzo e ancora con una mano solletava mi misi a uralre "Ghrma! Ghrma! Vado con una mano sola! Guarda! Ho imparato! Guarda ho imparato!" e mi fermai buttandomi con tutta la bicicletta tra le sue braccia. La sua aureola spettinata ondeggiò “Brava! Brava!” esultava lui e mi baciava, “Brava! Brava” continuava a baciarmi sulle guance, e la sua aureola continuava ad ondeggiare e il pettine si sfilò e cadde a terra. “Brava! Brava” mi dicevano i camerieri e abbracciavano i nostri corpi come fosse uno solo.
Poi Johnson, il cameriere più vecchio, spinse tra il groviglio di corpi, e si fece spazio. Tra le braccia degli altri, prima vidi comparire la sua fronte, sette solchi rugosi nella pelle bruna e poi i capelli, brizzolati e impomatati, domati all’indietro in piccole onde spinte fino alla base del collo, e, ancora, gli occhi dolci, in cerca del mio sguardo, infine la parola: “Ti ho tenuto il burro, sapevo che questo era il giorno giusto, se vieni ci sono le fette di pane caldo e la marmellata di fragola…”
“Il burro!” esclamai, “Si! Si, ti ho tenuto un po’ di burro!”.
Non so per quale arcano motivo, dall'arrivo dell'ideologia e tutto il suo seguito alcuni alimenti largamenti prodotti in Etiopia, tra cui lo zucchero, la farina di grano ed il burro, erano quasi scomparsi.
Gli sorrisi per l'inaspettato regalo e facendomi largo lo segui nel corpo centrale.
Nell’ampia sala con le mattonelle del pavimento multicolore, in un angolo, su un tavolo con la tovaglia candida, mi attendevano un piattino ricolmo di marmellata ed un pezzo di burro .
“Ora ti porto il pane caldo, e il te, con le spezie, come piace a te!”, mi disse quell’uomo che portava i capelli alla moda di altri tempi, i bei tempi.
Dopo colazione Mekonnen, uno dei camerieri giovani, mi venne a chiamare : “Ti vuole Ghrma”.
Fuori, sotto all’ombra dei rami sfacciati mi attendevano tutti i camerieri.
Ghrma staccò un piccolo stelo di fiori rosso vermiglio e lo infilò tra i miei capelli "E adesso devi restituire il favore, a tutti noi, noi ti abbiamo insegnato ed ora tu… tu sarai la nostra telalaki" cioè il garzone.
Senti il cuore allargarsi in un sorriso che mi fiorì fin sulle labbra.
Telalaki, telalaki!
Avrei fatto le loro commissioni in bicicletta, tutta la giornata senza pagare il noleggio.
“Siamo d’accordo?”
Telalaki! Telalaki”!
Feci si con la testa, lo stelo cadde per terra, lui lo raccolse, soffiò via la polvere dai fiori rossi e lo rimise tra i miei capelli.
Il mio commissionario maggiore era il cuoco. Ogni giorno mi mandava a rovistare tra banchetti di kerefa, kosserath, betsobilia e kororima.
Al ritorno mollavo la bicicletta sotto all’ombra dei rami sfacciati e correvo, attraversavo il corpo centrale, e, per non soffermare lo sguardo su carogne di pecore appese a gocciolare i resti della macellazione, con un balzo saltavo un piccolo spazio con il pavimento di pietra, ed entravo in cucina.
Lì, sul piano di alluminio dove il cuoco lavorava, lanciavo l’acquisto. Poi prendevo l'ordine successivo e, sempre correndo, uscivo.
Il cuoco ogni giorno mi mandava in un mercatino più lontano e in una delle tante spedizioni per la sua cuicina una mattina, al mercato dei fiori, girandomi all'improvviso dopo un acquisto di gigli bianchi, mi trovai davanti ad un cartello giallo che penzolava di sbieco sopra alla vetrina impolverata di un quasi invisibile negozietto.
Sul cartello, con pennellate di vernice nera, sbaffata qua e là, qualcuno aveva scritto "Tutto ciò che è rimasto del puntini puntini". I puntini puntini stavano per capitalismo, imperialismo.
Il cartello mi incuriosì ed entrai.
Mi ritrovai in un budello stretto, infinitamente lungo e buio che subito sollecitò il mio olfatto. Roba dolce, c'era odore di roba dolce, di... odore di ... biscotti , e … e caramelle e… e mentre cercavo di riconoscere altri odori la mia vista si abituò all’oscurità.
Il "Tutto ciò che è rismasto del puntini puntini" era un budello lungo e stretto pieno di ogni ben di Dio: biscottini, caramelle, cioccolate, confettini... . Rimasi senza fiato per la sorpresa.
Tornai fuori, presi la bicicletta e volai verso il Warush, mollai la bicicletta a Ghrma e corsi da mio padre "Papà nonmicrederaimaihotrovatounnegoziopienodibiscotticaramelleecioccolata" e allungai la mano. Ogni molecola del mio viso urlava a squarciagola "E' tornato il paradiso in terra", lui mi sorrise intenerito e mi mollo qualche dollaro.
Tornai di corsa al negozio. Persi una mezz'ora a rovistare per scegliere, infine scelsi una confezione di deliziosi biscottini inglesi all'avena, e mentre uscivo soddisfatta, già con le dita impegnate nell'aprire la confezione mi trovai davanti ad un'altra meraviglia: il cinema.
Un cinema aperto che funzionava ancora, e proiettava.
E sapete cosa proiettava? Un film western in Italiano "Per un pugno di dollari".
Ripresi la bicicletta e volai nuovamente verso il Warush, mollai la bicicletta a Ghrma e corsi nuovamente da mio padre.
"E questa volta cosa hai trovato?"
Il sovraccarico di sorprese era tale che quasi balbettai: "Un cinema, un cinema vero, proiettano un film western in italiano - per un pugno di dollari" lui sbiancò "E' un film di Sergio Leone" lo fissai con lo sguardo interrogativo "E' un grande regista" rifeci lo sguardo interrogativo "E' lo stesso. Di alla mamma che stasera andiamo al cinema".
L'ideologia socialista, antimperialista e antiamericanista era stata come un liquido versato in un sol getto. Aveva fortemente impregnato una piccola zona di suolo su cui era caduta e poi si era sparso non uniformemente nel suolo circostante, perdendo potere e lasciando le maglie larghe, man mano si allontanva dal centro impregnato.
E Nazareth con il negozietto "Tutto ciò che è rimasto puntini puntini" ed il cinema ne era l'evidenza.
E, a proposito, il cinema Nazareth?
Sul cinema di Nazareth ci sarebbe molto da raccontare. I film che proiettavano erano sempre gli stessi. Una decina di western con la pellicola ormai bucata qua e là, ma con una cornice al film sempre diversa. Era quello il vero divertimento, la vita che si muoveva nella sala come una seconda proiezione. C'era chi la riempiva con la partecipazione attiva alla vita e le vicessitudini del protagonista: scrosci di applausi e urla di incitamento, consigli sulle vicende amorose... ; chi chiacchierava d'altro perchè quel pezzo di film lo aveva già visto mille volte, però, nonostante le mille volte, per istinto, ogni volte che nello schermo apparive una canna di pistola in sua direzione si abbassava e restava con la testa bassa a finire di raccontare, fino a che non udiva lo sparo; chi veniva per occupare i posti migliori da vendere all'ultimo minuto agli spettatori più facoltosi; c'erano ragazzini che venivano a sbirciare le giovani con le gambe lunghe e lo sguardo sfuggente e chi già amoreggiava dietro alle tende di velluto bordeaux; poi liti e scazzottamenti per questioni di vario genere, anche su questioni legate al film, che costringevano l'operatore, dato che le urla e gli strepiti sovrastavano l'audio, ad interrompere la proiezione e scendere in sala, e poi un continuo via vai di persone che venivano a cercare qualcuno... che entravano ed uscivano accompagnati dalla maschera e sventolavano le tende scoprendo le coppiette nascoste... e, ancora, racconti..., e racconti.
Quando mio padre si stancò di vedere sempre i soliti film, cominciai ad andare al cinema con nonna Berechtì, incuriosita dai miei racconti e dal naso storto di mio padre: "fanno una tale confusione che anche se hai visto un film 20 volte non capisci mai cosa succede e come va a finire!"
E con lei il divertimento aumentò.
Il cinema di Nazareth prevedeva quattro tempi con biglietti di prezzo decrescente. Tra un tempo e l'altro c'era una lunga pausa in cui gli spettatori appena entrati si facevano raccontare da quelli in sala ciò che era successo fino a quel momento, e nonna Berechtì che si divertiva a raccontare storie, cercava ogni volta di convincere qualcuno che, nonostante fosse il film del mese prima, questa volta la storia aveva preso un'altra piega, perchè l'operatore aveva aggiunto qualcosa. Un pezzo tagliato alla proiezione precedente.
E si inventava storie senza fine che venivano bruscamente interrotte dalle urla dell'operatore attraverso il foro per la proiezione:
"Itiè Berechtì basta, voglio andare a letto prima che sorga il sole"
E per concludere?
Dopo aver visto e rivisto gli stessi western a Nazareth, un giorno ad Addis Abeba il figlio del signor Iemane arrivò trafelato, mandato dal padre.
"E' tornata la tv!" urlava.
Era giovedì "Forse stasera trasmettono The Fugitive" disse mio padre.
Quella sera, come qualche tempo addietro, mio padre si alzò da tavola e si avvicino alla tv.
Girò la manopola, mentre tutti noi aspettavamo con trepidazione.
Davanti ai nostri occhi sgranati per la sorpresa, il monitor si accese, senza strisce e senza rumore.
A quel punto eravamo convinti di veder comparire, da un momento all'altro, le immagini di "the fugitive" e potete immaginare la spiacevole sorpresa quando al posto del telefilm americano ci trovammo a guardare le piroette di una ginnasta russa impegnata in una gara di ginnastica artistica.
Purtroppo per noi, quella era la nuova tv, la tv del governo del popolo. Solo saggi di ginnastica artistica, concerti di pianoforte , parate militari e propaganda politica.
Mia nonna, quando tutti brontolammo per l'inganno, ci disse soddisfatta "Eh! La tv! E' solo roba del regime, pensata e fatta per rintontirvi! Come ve lo devo dire, voi ancora non mi credete ma è così. Prima solo programmi americani, ora solo russe. Eh! Solo roba del regime"
"Però a Nazareth al cinema ci vai"
"Si ma quello è un'altra cosa, lì c'è il film e anche la vita. Date retta a me ragazzi, lasciate perdere quella scatola, meglio stare tra noi e raccontare storie".

Gabriella Ghermandi:

Grazie a tutti.
Devo dire una cosa ed è una cosa che io avverto sempre da quando sono in Italia. È come se la gente viaggiasse su un binario e la storia su un altro, e questi binari non si incontrano mai; ho la sensazione che le persone vivano non avendo la consapevolezza di essere nella storia e di poter muovere la storia o di essere nella storia.

Julio Monteiro Martins:

Avete dei suggerimenti per il prossimo anno, per il Quinto Seminario, se vi è piaciuto, cosa si potrebbe migliorare per il prossimo anno? Oppure avete delle domande per gli autori?

Cristiana Sassetti:

Dall’intervento di Sandra Ponzanesi, cha ha detto di voler estendere la sua ricerca sulla letteratura della migrazione a tutti i paesi europei, a me è venuto in mente che sarebbe interessante un confronto con altri autori migranti che vivono in altri paesi europei, però ci vorrebbe un finanziamento sostanzioso!

Julio Monteiro Martins:

Per esempio Carmine Chiellino, che ha scritto la prefazione del mio ultimo libro, vive in Germania ed è uno studioso della letteratura della migrazione in Germania, soprattutto quella di autori di origine italiana che scrivono le proprie opere in tedesco. Potrei parlare con lui per avere qualche suggerimento…
Io vorrei ringraziare tutti voi, perché ognuno di voi ha dato molto, soprattutto per creare questo ambiente che è peculiare del nostro seminario in cui si crea un rapporto personale e questo fa sì che tutte le riflessioni che vengono fatte possono essere approfondite. C’è spazio anche per impregnare il pensiero di certe emozioni, cosa difficile in situazioni più formali. Le persone si sentono più serene e ciò consente di far emergere una serie di emozioni che forse rivelano certe cose sulla loro personalità. Secondo me la scrittura, la narrativa, la poesia, così vicini alla vita stessa, contribuiscono tantissimo ad un’umanizzazione più radicale. Spero di riuscire a mantenere questo evento negli anni a venire. Nei prossimi due mesi sarà fatto il lavoro per il sito internet – e io mi ritengo molto fortunato ad avere amici come Enzo Cei, un bravissimo fotografo, che è venuto a fotografare e che fa per noi queste foto di scrittori, del pubblico e lo fa per amicizia, ed è incredibile come lui riesca a catturare qualcosa di profondo dell’anima della persona che fotografa. Io ho visto altri siti di questo genere, anche stranieri, che fanno una sintesi oppure lasciano i brani più importanti…io invece lascio tutto: tocca al lettore scegliere ma io lascio tutto. Io voglio che chi legge si senta coinvolto, come se fosse qui con noi. Per me è importante che questa convivenza e queste riflessioni rimangano registrate, il più vicino possibile, parole e immagini, a quello che davvero è successo. Quindi vi invito a visitare il sito verso la fine di settembre, anche per rivivere un po’ certe discussioni perché curiosamente uno a volte scopre che quello che uno ha detto è molto diverso da quello che si aveva capito sul momento! Vale la pena, è un viaggio letterario e umano…

Cristiana Sassetti:

Avrei una curiosità per quanto riguarda la poetica di Bozidar Stanisic’. Quando parlavi del guardare l’oggetto reale e nominarlo con il suo nome, hai suggerito dei testi di biologia e mi hai suggerito un paragone con Calvino. Vorrei sapere se l’hai mai letto e se ti sei masi ispirato a lui.

Bozidar Stanisic’:

Prima vorrei dire una cosa sul testo di Gabriella Ghermandi. Secondo me non dovrebbe essere solo una semplice lettura. Si potrebbe fare con un attore vero e proprio con tutti gli effetti che lei ha già suggerito come ad esempio la musica, non solo per capire il soggetto del suo testo ma anche per l’espressione ricca di colori e di voci e di suoni – non solo della terra che chiamiamo Etiopia ma come un suggerimento che ogni terra in tutto il mondo anche se sembra avere un colore solo, nella letteratura si trasforma. La letteratura italiana mi ha sempre accompagnato in tutta la mia vita, perché a scuola nel mio paese si studiavano inevitabilmente autori italiani dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma anche del Seicento. Goldoni poi era un autore di casa, e anche autori moderni come Pavese o Vittorini, ma non per l’orientamento politico o sociale ma per la qualità, la Morante, Moravia e anche Calvino sebbene abbia letto poco di lui e mi è piaciuto molto Palomar. Le influenze sono sempre varie, ma ora mi avvicino a cinquant’anni e biblioteca si riduce, le scelte sono più severe e oltre a quello che porta all’espressione artistica, mi interessa soprattutto una sostanza radicale e provocatoria. Un’opera diventa una provocazione positiva e emana varie luci e varie sfumature. Mi viene in mente la brillante idea della biblioteca di Borges che sembra un labirinto ma in cui noi cerchiamo quel corridoio che è più vicino a ciò che pensiamo e che viviamo. Solo questo. Mi scuso ufficialmente se ho parlato più di tutti gli altri!

Julio Monteiro Martins:

Bene, se non ci sono altre domande io ringrazio di nuovo tutti. A presto!
(Applausi de pubblico)