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Programma della prima sezione del Seminario

Saluto ai partecipanti dal Presidente della Provincia di Lucca Stefano Baccelli.

Julio Monteiro Martins – Presentazione dell'evento di quest'anno e aggiornamento sulla realtà della Letteratura della Migrazione In Italia– 15,00

Intervento della scrittrice Francesca Caminoli – ore 15,30

Intervento della scrittrice di origine austriaca Barbara Pumhösel – 17,00





Apertura del 7° Seminario: Dott. Stefano Baccelli, il Presidente della Provincia di Lucca :

Buonasera a tutti e benvenuti a questo seminario. Questo è un progetto promosso dalla Regione Toscana attivo fin dal 2001 e rivolto al confronto interculturale. Julio Monteiro Martins, l'ideatore, ha una lunga storia, anche lucchese, dedicata alla scrittura creativa, è stato un antisignano nella provincia e nella città di Lucca di questo percorso. Mi viene un collegamento con una bella occasione che abbiamo avuto questa mattina, era qui presente a Lucca uno psicologo di fama internazionale, Jerome Bruner, in realtà forse lo si potrebbe definire un psicopedagogo, senz'altro si tratta della figura di un intellettuale vero, assai poco accademico e assai vicino alla realtà umana. Mi è venuto da pensare, per fare un collegamento con questo seminario, che in fondo viviamo, se così lo possiamo sintetizzare, un conflitto forte tra la globalizzazione e una rinnovata ricerca delle nostre identità. E allora un confronto interculturale come questo, che dà la possibilità a molti scrittori migranti di partecipare ad un seminario che parla anche della nostra bella lingua, di conoscere meglio i nostri territori e in qualche modo di “esportare” anche una parte della nostra identità, mi pare una proposta importante per trovare questo bandolo della matassa tra il conflitto, la globalizzazione, l'omogenizzazione a “culture importate” e la rinnovata ricerca della nostra identità che per un territorio come Lucca significa fare una sforzo sia politico, ma soprattutto culturale per una maggiore coesione sociale, superare i campanilismi, per superare i frazionamenti della società civile. Mi è venuto anche da ricordare un certo articolo di Angelo Guglielmi dove viene fatto un appello a non farsi troppo condizionare dallo strumento televisivo, che certo favorisce una certa omologazione culturale. Per gli scrittori oggi, ci sono grandi possibilità nuove di comunicazione, penso agli strumenti tecnologici, alle nuove tecnologie delle rete, ad internet, che sono strumenti con grandi opportunità intrinseche insieme anche a qualche rischio di omologazione. Chiudo qui, facendovi gli auguri di un buon proseguimento. Grazie.



Julio Monteiro Martins :

Volevo ringraziare il Presidente della Provincia, il dott. Baccelli per questo spazio più che bello che è il Palazzo Ducale, che racchiude in sé molta della storia europea. Io mi ricordo che in Brasile c'era sempre questa idea, che non so fino a che punto sia mitologica: gli spazi in qualche modo sono impregnati delle energie delle esperienze vissute in passato, e se questo è vero, queste sale qui hanno proprio una grande concentrazione di energia storica, e quindi spero che questo possa influire carmicamente, positivamente sul nostro seminario. Noi siamo quindi arrivati al nostro settimo anno, abbiamo tracciato un percorso e tutti gli anni, come sapete, gli interventi del seminario sono stati trascritti e sono consultabili on line sul sito della Sagarana a partire dall'inizio di Ottobre, e allora uno che legge in ordine queste sbobinature vede una mappatura dello sviluppo di questa letteratura, di questo fenomeno letterario degli ultimi anni. Uno si accorge che in pochi anni una letteratura molto frammentaria , timida, è diventata prima una corrente alternativa importante e poi per tanti versi oggi addirittura è d'avanguardia nel proporre le grandi linee presenti e future della letteratura italiana mainstream , e questo è un fatto di grande spessore. Io tutti gli anni apro il seminario facendo una sorta di bilancio personale dell'anno trascorso . Ho segnato alcuni punti. Nell'ultimo anno gli eventi più importanti sono stati: prima di tutto il fatto che molte case editrici medie e grandi hanno cominciato ad avvicinarsi a questa letteratura. Chi legge i seminari degli anni precedenti si accorgerà che questa era invece una costante preoccupazione , questo divarico tra la produzione artistica di alto livello e le reticenze delle piccole e medie case editrici nel pubblicare questi testi. Però questo fatto, questa apertura, rappresenta, come l'ideogramma della parola crisi in kanji, – la lingua giapponese non ha la parola crisi , allora scrivono pericolo , opportunità e fanno un circolo intorno alle due parole. Ecco, la pubblicazione di questa letteratura da parte delle case editrici più grandi è un' opportunità come un rischio. Dico questo perché si vede che c'è una politica editoriale ancora molto legata alla commercializzazione di questi nuovi titoli e per questo cercano di vendere un'immagine più stereotipata degli autori, creano cioè un personaggio più esotico, scelgono di solito scrittrici giovani, a volte in considerazione anche dell'aspetto fisico, in modo che possano veicolare una sorta di immagine interessante, esotica e questo è un grande limite. Alla fine invece di correggere il preconcetto comune si finisce, con questo atteggiamento, per confermarli. Dobbiamo quindi soffermarci più sui rischi che sulle opportunità. Un altro elemento importante di sensibilizzazione è il fatto che alcune riviste e periodici importanti hanno aperto spazi a questi autori, per esempio Internazionale , una rivista che pubblica quello che di meglio appare su tutta la stampa mondiale e lo traduce in italiano. Ed è curioso perché di solito questa rivista non pubblica testi originali scritti per la rivista, ma traduce e divulga testi apparsi su altri giornali, invece adesso ogni settimana ha aperto uno spazio di due pagine dove pubblica in prima mano testi in italiano di autori non italiani. Mi sembra un passo in avanti. Un altro aspetto da considerare è che nell'ultimo anno si sono moltiplicate le antologie, come nell'area della poesia, la raccolta chiamata “ Al confine del verso ” , organizzata da Mia Lecomte per la casa editrice Le Lettere, ma anche la pubblicazione degli annali, dei seminari, dei convegni organizzati all'estero. Per esempio, oggi presente tra noi c'è Anna Frabetti che è stata curatrice di una bellissima antologia di saggi sulla letteratura della migrazione raccolti durante un convegno a Nantes in Francia. Poi lei stessa ce ne parlerà più approfonditamente. E l'apertura anche all'estero, io per esempio due settimane fa sono stato a Frankfurt, invitato al primo incontro europeo degli scrittori migranti. Sono andato rappresentando l'Italia, l'evento era organizzato dall'Istituto di Cultura Italiana, e per me è stato interessante, anche da un punto di vista personale, rappresentare l'Italia in modo ufficiale. C'erano scrittori bosniaci residenti in Germania, greci residenti in Francia etc…ed è stato entusiasmante vedere questa realtà non più a livello italiano, ma a livello europeo. È curioso scoprire come in tutta Europa stia emergendo, in paesi così diversi gli uni dagli altri, questa letteratura, che non è più una letteratura post-coloniale perché non è stata scritta più da scrittori che vengono dalle aree anglofone, francofone delle ex colonie, ma da scrittori di paesi che non hanno rapporti coloniali, come i turchi in Germania, oppure gli argentini in Italia. Io credo che si avvicina il momento in cui si può pensare a uno studio comparativo di questa letteratura nei diversi paesi che li ospitano, io direi che la letteratura della migrazione in Europa è la prima letteratura europea , la prima letteratura che emerge dall'Europa unita e curiosamente non è scritta da europei e questo è un fenomeno di grande originalità. L'ultimo elemento che potrei segnalare come novità di quest'ultimo anno è l'apertura a tematiche che vanno oltre la questione della migrazione. Gli autori cominciano a superare anche nelle loro pratiche creative gli ultimi residui del trauma della migrazione e cominciano a creare liberamente e questa è una affermazione importante anche nella qualità delle opere. Su questo ultimo aspetto ho fatto un appunto che leggo: “per assecondare questa apertura alle tematiche ci vuole un'apertura mentale anche da parte dei critici, dei giornalisti e dei professori che studiano questo fenomeno culturale, è importate che nemmeno loro rimangano fissati sulle tematiche legate alla migrazione o alle radici culturali, ma si aprano ad un universo letterario più ricco e variegato”. E perché questo? Siccome c'è in tutta la letteratura nascente un legame più forte tra la critica e gli autori perché sono i loro primi lettori attenti, si creano così in modo sottile nell'inconscio degli autori una sorta di influenza sulle aspettative. Allora finisce che questa aspettativa influisca sulla creazione. Per ultimo vorrei invitare gli scrittori della migrazione ad abbinare alla tradizionale descrizione degli scenari esterni e dei rapporti sociali, un approfondimento psicologico/esistenziale, approfittando del fatto che la visione di questi scrittori che hanno dovuto superare situazioni complesse e a volte drammatiche legate alla frammentazione dell'identità, li ha resi più che preparati a presentare una visione profonda e originale dell'uomo e non solo delle circostanze momentanee ma degli impasse più essenziali e duraturi della condizione umana. È vero che questi scrittori stranieri che hanno scelto di scrivere in italiano hanno un contributo originalissimo e unico da offrire all'Europa, non sarà però il contributo che gli europei decideranno, bensì quello che decideremo noi liberamente a partire dalle pulsioni più vigorose e necessarie della nostra creatività. Noi siamo il poeta, ma anche la musa che lo ispira. Abbiamo dietro di noi il faro che illumina e guida la nostra strada. Saremo il nuovo soltanto nella misura in cui decideremo noi quale tipo di nuovo vogliamo essere, quale estetica e valori vogliamo rappresentare. Che sia chiaro a tutti che quello che ci rende originali non è la nostra condizione di migrante, né il nostro colore della pelle, né le chicche lessicali che ogni tanto affiorano dalle nostre lingue madre nella nuova lingua, bensì il modo sorprendente e originale con cui vediamo l'amore, la morte, i desideri, il destino, il potere, l'angoscia e l'utopia di un mondo diverso e migliore di questo che abbiamo trovato. Per concludere voglio ricordare il vero senso di fare letteratura di alto livello nei nostri giorni: la letteratura, forse a causa della sua autonomia economica, dei costi contenutissimi della sua creazione e paradossalmente per l'isolamento mediatico dei suoi autori, è diventata la più libera delle arti, la più critica verso il sistema egemonico, la più coraggiosa, quella che può osare di più e avventurarsi nel centro del pensiero dove le altre arti, meno indipendenti, non riescono o desiderano raggiungere. Gli scrittori che hanno meno da perdere, meno condizioni istituzionali da proteggere, possono rischiare senza esitazioni dei voli più alti e delle critiche più pungenti. Questo fa sì che la letteratura sia l'unico discorso potente ed efficace contro l'imperio dei media, della pubblicità, della propaganda e dell'indottrinamento ideologico e religioso. In questi ultimi anni c'è stata sola la letteratura a ricordare agli uomini cosa significa l'essere umano, a rivelarci chi siamo veramente al di là degli infiniti mascheramenti forzati che ci nascondono da noi stessi. Grazie.

 

Adesso è programmato l'intervento di Francesca Caminoli, ma siccome mi ha detto di non voler essere presentata, passo direttamente la parola a lei.


Francesca Caminoli
:

Potremmo anche presentarci tutti, no? Io mi chiamo Francesca Caminoli (presentazione veloce di tutti i partecipanti tra il pubblico). Io volevo, a parte che non sono una grande parlatrice, proporvi un'altra cosa, volevo leggere brevi testi di tre libri diversi e poi vedere se si capisce di dove sono questi scrittori. Ora ve li leggo.

Primo brano:

"Perché non ho più nessuno" ha risposto Ahmed" Un giorno gli iracheni hanno bombardato Halabja, la città più vicina a noi, con gas.
Sono morte migliaia di persone. Allora mio padre ha deciso dì scappare. Abbiamo camminato per giorni e giorni in mezzo alla neve. Mio padre portava in braccio me, che avevo tre anni, mia madre mia sorella Benan che aveva pochi mesi. Tante persone sono morte durante la fuga. antico proverbio curdo dice che i nostri soli amici sono le montagne.

. Ma le montagne hanno ucciso tante donne e bambini e vecchi. Faceva cosi freddo e avevamo così fame che per scappare più leggeri un po' volta abbandonavamo tutto."

Il nonno si era girato verso di noi e ascoltava anche lui.

“Siamo riusciti a scappare in Turchia, a Diyarbakir" ha continuato Ahmed, "ma mio padre non trovava lavoro. Lui era maestro elementare ma era curdo e a Diyarbakir potevano insegnare solo i turchi. Così, tre anni fa, ha deciso che dovevamo andare tutti in Germania, dove ci

sono dei nostri cugini. Siamo andati fino a Istanbul e lì ci siamo im barcati su una nave piena di curdi come noi, ma c'erano anche indiani, tunisini, cinesi. Siamo stati tanti giorni su quella barca, ci tenevano sempre sotto, solo qualche volta hanno fatto uscire mia mamma e Berian e me e le altre mamme con bambini, per prendere un po' d'aria. C'era una puzza tremenda e gente che si lamentava e gente che stava male per il mare, ma io ero contento perché mio padre era contento e diceva che presto saremmo arrivati in Italia e che l'Italia era un paese bellissimo e che lui aveva sempre sognato di vedere l'Italia e Roma e il Colosseo e Venezia con tutti i suoi canali e Firenze con le statue di Michelangelo e che poi saremmo andati in Germania e che lì io avrei potuto studiare e che sarei stato così bravo che sarei diventato un professore all'università e non un semplice maestro elementare come lui e che poi sarei tornato nel nostro paese che sarebbe diventato libero e avrei potuto inse­gnare tutto quello che avevo imparato ai ragazzi del nostro paese. E un giorno la mamma era andata di sopra con Berian, poi era tornata giù di corsa e aveva detto l'Italia, si vede l'Italia, ma a un certo punto sì è sen­tito un gran rumore, come se la nave avesse picchiato su un'onda gran­dissima, ma era strano perché c'era il sole e il mare era calmo e io non so cosa sia successo, ma qualcuno ha urlato tutti fuori tutti fuori e siamo scappati tutti fuori e mio padre mi ha preso in braccio perché mi avevano fatto cadere per terra e quasi mi schiacciavano e quando siamo saliti fuori anche io ho visto l'Italia, ma poi non ho visto più niente, per-ché la nave si è tutta piegata su un fianco e sono caduto in acqua.

Mi sono risvegliato su una barca dei carabinieri. Mamma, papà e Be­rian non c'erano. Dost, mi ha detto un carabiniere. lo ero spaventato, non sapevo che era un carabiniere e nemmeno che era italiano, per me poteva essere un poliziotto turco non so, non capivo niente. Dost, mi ha detto ancora lui e mi ha dato una tazza di tè caldo e allora ho capito che non era cattivo, perché dost vuol dire amico in curdo. Mi hanno portato in un ospedale, ma io non mi ero fatto niente, volevo solo trovare i miei genitori e mia sorella. Un giorno è venuto un signore e con un in­terprete mi ha chiesto come mi chiamavo e chi c'era nella mia famiglia. Io gli ho detto che mi chiamavo Ahmed Perwer, come Sivan Perwer il cantante, ma lui non è mio parente, e che io ero con mio padre, mia madre e mia sorella.

Allora i due si sono allontanati un po' e si sono bisbigliati qualcosa e io ho capito tutto. I corpi di mia madre e mia sorella non li hanno nemmeno trovati. Mi hanno messo in una famiglia, in una città tutta bianca che si chiama Ostuni. Era bella, così bianca che, quando c'era il sole, la luce era talmente forte che dovevi chiudiere gli occhi, e allora io chiudevo gli occhi e facevo finta che tutto quel bianco fosse la neve, ma mi veniva da piangere perché sapevo che non cera vero, gli odori erano tutti diversi. Un giorno sono scappato dalla famiglia, perché loro erano anche gentili, ma mi portavano in chiesa e mi volevano insegnare delle preghiere vostre e io non volevo, glielo dicevo, ma loro dicevano che lo facevano per il mio bene, che così Dio mi avrebbe protetto, ma io pensavo che già non mi aveva protetto il mio, di Dio, figurati se a quello degli

altri gliene fregava qualcosa di me. Poi mi ha preso la polizia, quella famiglia non mi voleva più perché dicevano che non sapevano come fare con me e così mi hanno messo all'istituto e la storia è finita.”

 


E adesso il secondo brano:

Capitolo nove Nouadhibou du monde

Tra una settimana parto. Ho tutto pronto. Poca roba. Niente documenti. Mi hanno detto che se arrivi senza documenti non ti possono rimpatriare. L' ho letto anche in internet. Tanto io i documenti non ce li ho proprio. Se poi sei minorenne, come me, e senza documenti, è quasi sicuro che ti andrà bene. Quando arrivi ti affidano a una di quelle organizzazioni umanitarie che si occupano di quelli come me e loro in qualche modo ti sistemano. Ma io non voglio essere sistemato, a me basta arrivare in Spagna, dopo mi arrangio.

Già mi sono arrangiato da solo, finora. All'aeroporto ho un amico che lavora alle pulizie. Lui mi passa i quotidiani stranieri che sono rimasti negli aerei, io li sistemo e poi vado a venderli ai turisti negli alberghi. Ho aiutato mio cugino a vendere cd per strada. E ho fatto un po' di prestiti. Ho messo insieme 600 euro. Non molti. Ma sufficienti.

Il prezzo del viaggio dipende da con chi vai e come vai. Per un viaggio Senegal-Canarie se ne possono pagare anche di più, però ti danno la cerata per non bagnarti e il salvagente. Un lusso che non si possono permettere in molti.

Adesso vanno forte i viaggi che partono dal sud del Senegal, dalla Casamance. Il viaggio da lì è più lungo, ma ha i suoi vantaggi: si possono ammirare tanti posti del nostro paese che altrimenti non potremmo mai vedere. La Casamance però va talmente forte, che ti fermano ancora prima di arrivarci. Due miei amici che hanno tentato quella strada sono stati arrestati all'entrata di Ziguinchor. Erano in 15. Li hanno presi tutti. Sospettati di immigrazione clandestina. Ma come immigrazione, dico io? Da Senegal a Senegal? Qualche giorno dopo li hanno liberati e rimandati a casa.

"Quei bastardi ci hanno tirato giù dall'autobus," mi ha raccontato Kader, uno dei due miei amici, "con i fucili puntati, come fossimo delinquenti. Io gli ho detto che andavo a trovare mia nonna."

"Ma tua nonna non vive con te a Pikine?" gli ho chiesto.

"Stupido e che gli dicevo che ero lì per andare in Spagna?" ha riso lui. "E Moustapha?", gli ho chiesto.

"Lui ha giurato su sua madre che andava a comprare della roba da vendere poi a Dakar. Nessuno ha detto che andavamo in Spagna, come lo sapevano?"

Dicono che a volte sono gli stessi passeur che ti denunciano. Prendono l'anticipo da noi e i soldi dalla polizia. I passeur sono quasi tutti pescatori che si sono riciclati. Non vanno più a pescare tonni e aragoste, ma ragazzi come me e i miei amici. Loro però mica li arrestano.

Comunque, io andrò per la vecchia strada. Da Saint Louis. Ho avuto un contatto con uno qui a Dakar. Gli ho già dato un anticipo. Andrò da solo con l'autobus fino a Saint Louis. Lì mi devo mettere in contatto con il suo socio. Uno che sta a N'guet Dar. Sono tutti pescatori a N'guet Dar. Non so però se il mio passeur sia un pescatore. A me che cosa sia non me ne frega niente, basta che non faccia strane storie, che non chiami la polizia, che mi metta su una piroga e mi porti fino alle Canarie. Inch Allah.

Sono sull'autobus. Dakar-Saint Louis sono 265 chilometri , ma chissà quanto tempo ci metteremo con questo traffico. Sono un po' curioso. Sono nato e cresciuto alla Medina, non sono mai uscito dalla città. Solo una volta per andare a Gorée e una volta a Mbour a trovare dei cugini. Siamo sempre fermi, bloccati in mezzo a automobili, animali, carri, carretti, camion, autobus, uomini, donne, bambini.

Sono più triste che curioso. Penso a mia madre. Ci siamo abbracciati tanto prima che salissi sull'autobus. Alla fine anche lei ha dovuto cedere alle necessità della famiglia. Povera mamma, era molto spaventata per il mio viaggio, ma poi, quando sono partito, mi ha fatto un gran sorriso e mi ha dato la sua benedizione. Di benedizioni ne ho avute tante. Di mio

padre, delle zie, del marabout. Lui mi ha anche dato dei gris gris per proteggermi nel viaggio e nella nuova vita, là.

Il viaggio è stato lungo. All'inizio guardavo fuori dal finestrino, ma non vedevo. Avevo troppi pensieri in testa. Pensieri che andavano avanti e indietro, avanti e indietro. Pensavo a mia madre, ai miei fratelli, alla mia sorellina Madeleine che non mi voleva far partire e quando sono salito sull'autobus mi si è attaccata ai pantaloni. Pensavo al passeur che dovevo incontrare, alla barca, al mare, all'ignoto che avevo davanti. Pensavo al nonno. Anche lui era arrivato in Europa con una barca, con una grande nave militare. Anche lui era partito dalla coste atlantiche, dal Marocco. Anche lui non sapeva come sarebbe andata. Lui, all'isola d'Elba, era stato accolto da una spiaggia minata e dagli spari nemici. Io, pensavo, come sarò accolto? Dalle navi del Frontex? Dalla polizia? Spareranno anche a me? Lui era partito per la seconda guerra mondiale. Per quale guerra stavo partendo io? Io volevo partire per la vita.

"Spostati," mi ha detto a un certo punto una donnona buttandosi nel posto libero di fianco a me e invadendo con il suo culone buona parte del mio sedile. L' ho guardata infastidito, ma poi le sono stato grato. Perché il suo peso calato all'improvviso sui miei pensieri ha avuto il potere di allontanarli. Così ho cominciato a guardare fuori davvero.

Ho visto chilometri di frigoriferi usati, chilometri di pezzi di ricambio per auto, chilometri di agnelli, chilometri di bancarelle di frutta.

Ho visto tanti talibè stracciati che chiedevano elemosina a tutte le auto ferme nel traffico.

Quando siamo usciti da Rufisque, il traffico ha cominciato a scorrere un po' di più. L'oceano era vicinissimo, alla mia destra, piatto. Il vento che soffiava da terra schiacciava le onde e tutto quello che incontrava, agnelli, asini o persone. Sulla spiaggia non c'era nessuno. Solo ogni tanto compariva una figura sferzata dal vento, che camminava non si sa verso dove. Un po' come me.

 


Per finire il terzo:

Quando risalì sul pullman i figli le sorrisero.

"Mamma, come è bello qui", disse Emina.

Ripartirono. Arrivarono a Spalato. Cambiarono pullman. Sarajevo c'era scritto su quello su cui erano saliti. Sarajevo. C'è scritto. C'è.

L'autobus salì su per le colline carsiche, poi girò per Imotski. Era a casa, era davvero a casa. Una dogana, ancora, ancora dogane, maledette dogane. Non eri a casa, stupida, Sebenico, Spalato. non eri ancora a casa. E nemmeno qui, cosa è questa Herceg-Bosnia? Non ti ricordavi che ne sta terra brulla non è Bosnia, è Herzegovina, a casa d'estate mica si arriva ­a quaranta gradi come tra queste pietre.

Una casa distrutta. La prima. Due case distrutte. Molte case distrutte Si scende. Laggiù, in mezzo alla conca, Mostar. Mostar ovest. Palazzi nuovi. Tanta gente per le strade. Bar, giovani, soldati stranieri ai bar.

Ma e la guerra? Si, qualche segno di granata, i vetri rotti. Ma la guerra, quella vera?

Eccola. Emina e Mehmet le si stringono addosso. Mostar non c'è più. Lungo il fiume non c'è più. Le case sono sgretolate come fossero state stelli di sabbia che il vento ha soffiato via, lasciando solo, qua e là, un portone, due metri di una parete, una facciata con dietro il vuoto. L'autobus. passa su un ponte di emergenza. Soldati francesi. Dov'è Emir il ponte dei nostri baci? Spappolato. Quanti milioni di baci avrà portato via con sé?

Di là del ponte. Mostar est. Giù. Tutto giù.

"Bambini, guardate, adesso siamo a casa".

"Mamma, ho paura", piagnucolò Mehmet.

Emina le strinse una mano.

"Non dovete avere paura, perché adesso siamo davvero a casa".

Soldati italiani appoggiati per una foto ricordo al cartello stradale MOSTAR. E avanti. Vrapcici. Potoci. Non erano qui questi paesi? Non c'e­rano più. Le case distrutte una per una, con metodo, con precisione, come in una battaglia navale vera dove al posto delle navi della marina ci sono le case delle persone. A8 niente. C12 niente. P21 colpita. P22 col-pita. P23 colpita e affondata. Una famiglia di musulmani in meno. Avan­ti, i1 gioco continua.

Avanti. Jablanica.

"Mamma, come è bello questo lago".

"Mamma, come sono verdi queste montagne".

"Siamo a casa, bambini, vi avevo detto che a casa era bello". Avanti. Konic. Tarcin.

"Tra un po' bambini usciamo da queste montagne e arriviamo nella piana di Sarajevo''.

Ecco Ilidza.

"Bambini, siamo arrivati, siamo a Sarajevo, siamo a casa".

Povera città mia. Dove sono le tue fabbriche? Dov'è il bell'edificio di Oslobodjenie? Dove i pali e i fili del tram? Dove sei città mia? Non ti vedo.

"Mamma, è brutto", disse Emina.

"Aspetta, aspetta figlia mia".

Dove sei Sarajevo? Un momento. Cosa c'è scritto su quel muro?

"Questa è Serbia". Noooo. Noooo. Ma cosa c'è scritto sotto, rallenta autobus, rallenta, fammi leggere. "Scemo, questa è la casa di mia nonna".

Tanja rise, rise, rise.

"Mamma, che cos'hai?" chiese Emina.

"Siamo a Sarajevo, bambini, siamo davvero a casa, guardate, guardate questa gente per le strade, sono loro, bambini, che fanno Sarajevo".

I bambini la guardarono. Forse la mamma era diventata pazza. Ma era da così tanto tempo che non la vedevano sorridere, che sorrisero anche loro.


Adesso, il gioco, chiamiamolo così, sta di cercare di capire di dove sono gli scrittori che hanno scritto queste tre storie. Si capisce?


Alberto Chicayban
:

Il primo è del Kurdistan, il secondo è del Senegal e il terzo una persona bosniaca. Sono tre prospettive di letteratura comunque molto simile, di letteratura ingenua e di prospettiva memorialistica. Noi abbiamo avuto nel mondo latino americano una letteratura molto simile, anche se povera dal punto di vista intellettuale, molto importante dal punto di vista storico.

 

Francesca Caminoli :

Allora, sveliamo il trucco, li ho scritti tutti io, il primo si intitola “ La neve di Ahmed ” ed è la storia di una fuga di quattro ragazzi da un istituto di Milano, sono: uno curdo, uno bosniaco, uno siciliano e uno di una valle della montagna e sarà lui stesso che porterà i suoi amici in questa fuga verso le montagne perché il bambino curdo aveva nostalgia della neve. Il secondo è un diciottenne senegalese di un libro non ancora pubblicato, che vuole venire in Italia per lavorare, ma anche per andare sulla spiaggia dell'isola d'Elba che suo nonno ha liberato nella seconda guerra mondiale. Il terzo “ I giorni di Bajram ”, Bajram è la festa di fine Ramadan in Bosnia , e si narra il ritorno di vari profughi a Sarajevo dopo la fine della guerra. Allora questo stupido giochetto l'ho fatto innanzitutto per farmi parlare un po' meno e poi perché io sono stupita, è la seconda volta che Julio mi ha invitato al seminario degli scrittori migranti, e questo forse perché, anche se in modo completamente diverso, io quando scrivo migro. Non mi viene mai l'idea di scrivere su cose che probabilmente conosco anche meglio, può darsi che un giorno lo faccia, però per ora sono questi tre che io ho scritto, più un diario che verrà pubblicato l'anno prossimo e questa è una cosa molto personale, molto intima e non ne voglio parlare qua, questa è l'unica cosa totalmente autobiografica, gli altri sono libri, storie di mondi che io non conosco se non di striscio, ma siccome proprio perché non li conosco quello che mi piace più di tutto, quasi più che scrivere, è studiare, documentarmi, conoscere e andare sui posti. La situazione bosniaca forse la conoscevo di più, la sentivo di più, anche perché la mia famiglia di origine, anche se molto lontana, è slava, la storia dei ragazzini è forse perché alla lontana, io da molti anni lavoro in Nicaragua, quindi in un paese completamente diverso, con ragazzi profughi di città. Quella del Senegal è stato molto casuale, perché una mattina mi è arrivata una email della Regione Toscana che diceva “sessant'anni dell'altra liberazione” quindi le truppe algerine, marocchine, brasiliane e anche senegalesi. Allora, per curiosità, ho fatto delle ricerche e ho scoperto che la liberazione dell'isola d'Elba è merito dei senegalesi, proprio di quella fascia di spiaggia, quella di Marina di Campo, dove io vado da quando ho cinque anni. Quindi il posto esatto dove io ho sempre trascorso le mie vacanze e dove giocavo con i miei fratelli, e poi ragazza e poi con i miei nipoti. Questa cosa mi ha colpito tanto da spingermi in Senegal, lì ho trovato un vecchio di ottantacinque anni che aveva partecipato alla liberazione….Non so perché ho detto tutto questo, ma a me questa dizione degli scrittori migranti non è mai piaciuta perché un migrante è una persona che continua a muoversi, se guardiamo l'italiano corretto e questi scrittori stranieri che scrivono in italiano sono persone che stanno qui, che padroneggiano la lingua, che sono italiani e emigrati, caso mai. Ma alla fine credo che sia stato necessario un momento di separatismo, come c'è stato nel femminismo, per esempio, il separatismo è addirittura necessario perché uno capisca i suoi desideri, le sue necessità, i propri problemi confrontandosi tra simili. Adesso forse questa fase comincia a essere superata, che poi non sono una grande esperta di letteratura migrante, adesso forse è arrivato il momento in cui questo separatismo comincia ad aprirsi, con i rischi e le opportunità, come diceva Julio, che questo offre, perché ho visto anch'io che quello che hanno pubblicato finora le case editrici più grosse sono cose un po' stereotipate. Io penso anche che per uno scrittore o una scrittrice, al di là delle classificazioni, il piacere sia quello di raccontare una storia, neanche di scrivere in maniera eccelsa o con autocompiacimento, a me piacciono i testi dove senti la storia, dove senti che chi sta scrivendo lo fa con il piacere di raccontarti una storia. È chiaro che uno che viene dal Sudamerica o dall'Africa ha tutta una storia dentro che vuole esprimere ed infatti le prime cose che scrive uno scrittore migrante sono le proprie esperienze traumatiche, però poi se uno è uno scrittore o una scrittrice, l'emigrante non ha più nessuna valenza. Ho concluso.

 

Julio Monteiro Martins :

Adesso, vorrei dire due parole su Francesca Caminoli, visto che non me lo ha permesso prima. La prima volta che Francesca è stata invitata al seminario, circa quattro anni fa, è venuta accompagnando una scrittrice di Belgrado, Jasmina Tešanovic che ha tradotto “ I giorni di Bajram ”, tra l'altro. Non c'era stato un intervento diretto di Francesca, ma solo una partecipazione al dibattito. È da allora che ho sempre pensato che un anno avrei voluto invitarla tra i conferenzieri. Infatti tutti gli anni, oltre agli scrittori migranti, della migrazione, se volete, invito uno scrittore di madrelingua italiana, è venuto Dario Voltolini, è venuta Pia Pera l'anno scorso e quest'anno volevo Francesca perché tra gli scrittori italiani con cui ho contatti è quella con più empatia col mondo fuori dall'Italia, è una delle scrittrici meno provinciali che abbia mai conosciuto e non solo nella sua scrittura, ma nella vita stessa. Per esempio un mese dopo la guerra in Bosnia lei è andata là e ha portato qui delle persone che erano in pericolo, poi già da qualche anno fa un lavoro bellissimo con i bambini di strada nel Nicaragua. Prima ha creato un giornalino, dal momento che lei è stata anche una giornalista, e poi ha creato una sorta di piccola scuola d'arte scoprendo i talenti di ognuno e orientandoli di conseguenza. Francesca ha questa visione direi sartriana dello scrittore, cioè dell'impegno dello scrittore che non si limita alla scrittura, ma include anche la vita, è un impegno che non riconosce il confine tra scrittura e vita e quindi ho pensato che questo fosse il posto più adeguato dove Francesca Caminoli potesse farci partecipi di questa sua esperienza umana e letteraria.

 

Francesca Caminoli :

Volevo solo aggiungere una cosa, la cosa strana è che io non scrivo mai delle cose che vivo e che faccio, forse anni dopo quando saranno finite, ma nel momento in cui le faccio non le scrivo, probabilmente perché tra scrivere queste vite e viverle nei posti dove mi capita di viverle, ancora adesso preferisco viverle. Antepongo il vivere allo scrivere. Scrivere mi piace, ma devo essere sincera non è come per tante persone che devono scrivere. Se mi viene in mente una storia da raccontare la racconto, sennò gioco con i miei nipoti, faccio la mia vita, vado in Nicaragua.

 

Julio Monteiro Martins :

Un'altra cosa che mi è venuta in mente ed è interessante, è ricordare che anche il passato è un paese straniero, e proprio Francesca ha vissuto in modo molto intenso la storia italiana degli anni '60 e '70. E' stata una leader femminista in quell'epoca e anche questo è un viaggio straordinario. Oggi ci sono tanti libri che cercano di ricostruire quel periodo, non sempre in modo felice letterariamente parlando. Recentemente ho letto il libro dell'Annunziata “ 1977 ” , però ho trovato un eccesso di informazione e di dati e un lettore non riesce ad immedesimarsi, insomma è stato scritto un po' per chi ha vissuto quegli anni, e siccome io non li ho vissuti non sono riuscito a “farmi il film”. Questo è anche un invito a Francesca di non visitare solo i Balcani, il Senegal, ma anche il passato italiano, perché intuisco che gli anni '70 italiani siano stati una grande avventura dello spirito, e anche del corpo, in verità.

 

Hamid Barole Abdu :

Sicuramente ci hai ingannato, io ci sono cascato proprio come c'è cascato Alberto Chicayban. Però una volta che hai svelato il mistero del tuo giochetto, non mi sono meravigliato tanto perché, “a mò te spiego”, come dicono i napoletani. Secondo me una persona che ha la capacità di narrare significa che ha la capacità di immedesimarsi nell'altro. Tu hai veramente l'abilità della scrittrice di entrare nella pelle degli altri, sei una delle poche elette di un qualche dio di madre natura che hanno la capacità di entrare nei panni degli altri, alla fine dei tuoi racconti sei riuscita a commuovermi, mentre leggevi ero commosso perché riuscivo a farmi i film, l'immagine mentale di queste persone che corrono, annegano. Complimenti, complimenti veramente.

 

Alberto Chicayban :

Infatti sembra una letteratura realista, io mi ricordo di quello che ho vissuto e lo racconto come farebbe qualcuno al quale è stato chiesto di dare una testimonianza di un avvenimento della loro vita. Infatti è sorprendente questo tipo di operazione, che in qualche modo propone la costruzione di una memoria tramite certi trucchi, per esempio spogliando il discorso di artifizi letterari e presentandolo invece come se fosse appunto una testimonianza vera di vita vissuta.

 

Francesca Caminoli :

Per tanti anni, o meglio in verità ho smesso presto di fare la giornalista, ho smesso a 34 anni quando da Milano mi sono trasferita a Lucca, ho scritto per giornali. Ma poi mi sono accorta che non avrei avuto più una serie di condizioni per poter svolgere il mio lavoro come io l'ho sempre inteso, perché già 25 anni fa si capiva cosa stava diventando il giornalismo. Quando sono venuta a Lucca ho cominciato a scrivere anche per una sorta di fastidio verso quello che dicevano i giornali. Per esempio il giorno di Bajram io ero a Sarajevo ed era il primo Bajram dopo la fine della guerra, soprattutto i più anziani volevano prendere i pullman e uscire dalla città per andare ai cimiteri vicini che non visitavano da cinque anni. Le forze internazionali non li hanno fermati, li hanno lasciati andare in zone serbe, ci sono state delle sparatorie e ci sono stati 20-25 morti. Quando io sono tornata in Italia, il giorno dopo, ad Ancona, col traghetto, ho comprato i quotidiani per vedere cosa dicevano, per inciso la guerra era finita da due mesi non da venti anni, c'era un trafiletto di cinque righe in settima. Ho deciso allora di scrivere un racconto. Ma credo che il fatto di essere stata una giornalista, di aver voluto fare informazione in un certo modo mi ha portato a dedicarmi alla scrittura, che è poi il mio modo maturo, diciamo, di informare.

 

Julio Monteiro Martins :

Infatti mi ricordo in un'intervista un commento di Salman Rushdie sul rapporto giornalismo/ letteratura oggi, lui diceva che in un mondo dove quelli il cui compito è raccontare la verità inventano delle bugie, forse è arrivato il momento per quelli il cui compito è raccontare bugie di dire la verità.

 

Francesca Caminoli :

Volevo un attimo rispondere ad Hamid, che raccontare è entrare dentro un'altra persona, quindi vivere come vivesse un ragazzino di tredici anni, una vecchietta di ottanta…è questo quello che mi piace e mi diverte, sennò non lo farei, è faticoso a volte, è come una specie di schizofrenia innocua, non è pericolosa. Ho concluso.

 

Julio Monteiro Martins :

Allora adesso vorrei invitare Barbara Pumhösel qui accanto a me. Alcune informazioni su Barbara. Lei è nata in Austria e dopo vari spostamenti e lavori si è laureata in lingue e letteratura straniera all'Università di Vienna. Dal 1988 vive a Bagni a Ripoli, vicino a Firenze, dove è impegnata in un progetto per la promozione della lettura nelle scuole dell'obbligo e nella redazione della sezioni narrativa per ragazzi di una casa editrice fiorentina. Collabora a vari periodici, ha pubblicato racconti e testi poetici in Italia e all'estero, sulle riviste: Sagarana, Semicerchio, l'Area di Broca, Das Gedicht in Germania e Podium in Austria. Nel 2003 le è stato assegnato il premio “Alpi Apuane”, nel 2004 una sua silloge è apparsa nell'antologia poetica Pulvis . Lei scrive anche deliziosi libri per ragazzi, mi ricordo di uno che si intitola “ Pericoli e pecore ” e di un altro che ho letto con mio figlio che si chiamava “ Amore e pidocchi ” . Barbara è già venuta come partecipante ai nostri seminari, mi ricordo che l'anno scorso ha fatto un intervento interessantissimo discutendo con Pia Pera sulla questione della seconda lingua. È una poetessa di grande sensibilità, che ha questa visione molto drammatica, quasi tragica della vita quotidiana, una poesia dura, ma è anche una persona che ha delle riflessioni molto importanti e profonde sulla questione della scrittura in una lingua che non è la lingua madre. Quindi questa volta ho voluto invitare Barbara a fare un intervento suo, e è un piacere averla qui con noi.

 


Barbara Pumhösel
:

Grazie a Julio per l'invito e grazie a voi che mi ascolterete. Dopo questa presentazione, quasi mi vergogno un po'. Ho preparato un piccolo intervento, che alternerò a delle riflessioni che mi verranno man mano. Io sono mancina, non lo dico per farvi ridere, quindi può darsi che io non riesca a leggere il mio intervento. Ho della difficoltà a leggere e parlare, si dice che chi scrive con la sinistra ha la parte destra più sviluppata. Io adesso ho cambiato e ogni tanto sento questo disequilibrio, allora faccio una cosa un po' mista.

Julio ha nominato un libro “ Amore e pidocchi ” che ho scritto a quattro mani con Anna Sarfatti, un'altra scrittrice per ragazzi che ha presentato la Costituzione italiana in filastrocche.

La storia è questa: c'è un'epidemia di pidocchi e a quei bambini le cui madri sono fissate con l'igiene e sono molto severe, creano dei problemi. L'idea di cosa fare in una di queste normalissime circostanze che si ripetono tutti gli anni nelle scuole elementari, mi è venuta quando quindici anni fa sono stata in Baviera e sono rimasta folgorata da un quadro di S.Giovanni che s'intitolava allora “ Venere in atto di pettinare amore ”, oggi, dopo il restauro si chiama “ Venere pettina amore ”. C'è questa Venere che sembra una madonna laica, con un bambino che tiene come quando si vuole tenere fermo qualcuno. Il bambino ha il sedere nudo rivolto allo spettatore, al centro del quadro, e la Venere con infinita delicatezza lo sta spidocchiando, questo a ricordarci che l'amore ogni tanto è anche pidocchioso! Nella storia, la maestra per sdrammatizzare, per combattere i pidocchi in un altro modo porta i bambini al museo come risposta a questa circolare antipidocchi.

Ecco ora continuo leggendo le riflessioni che ho chiamato “ Riflessioni mancine e sguardi obliqui sulla cosiddetta letteratura della migrazione”. È già stato discusso molto sulla cosiddetta letteratura della migrazione, e anche su questo termine degli scrittori migranti. Non mi ci voglio soffermare troppo, tenterò soltanto di offuscare un po' i contorni, di muovere le acque, di piazzare contrappesi: non si può fare a meno di pensarci – il termine letteratura della migrazione richiama comunque un'altra parola, una parola specchio, un qualcosa da contrapporre: se mettiamo su una bilancia da una parte la letteratura migrante (o se la bilancia non ci piace: prendiamo quel gioco con un perno come base, sopra viene montato un asse – un tronco snello e lungo, per esempio, e diventa una specie di altalena per due: i “pesi” vivi devono stare alle due estremità dell'asse), dall'altra ci vuole un contrappeso: scommetto che ci viene in mente la letteratura nazionale, e già a pronunciare crea un sapore un po' amaro in bocca: perché la parola nazionale evoca confini, dogane, frontiere e per conseguenza esclusioni e infine guerre. Ora chiediamoci, quale letteratura italiana ci mettiamo: quella ufficiale, consolidata, riconosciuta dai critici, convalidata dalle antologie scolastiche? Ha bisogno della parola “nazionale” la letteratura italiana? Questa non vuole essere una domanda provocatoria, e non voglio spostare nessun scrittore da un “insieme matematico” all'altro - vorrei soltanto riflettere sulla denominazione: si tratta comunque di una parola eufemista, una parola costretta a mentire, o a contenere tacendo migrazioni passate, contaminazioni (a qualcuno non piace nemmeno questa parola), influenze e sentieri di scrittura incrociati. Dicono (i nutrizionisti) che siamo quello che mangiamo, dicono altri, non mi ricordo chi (ma tra cui metto anche me stessa) che siamo ciò che leggiamo. Molti autori italiani affermano di essere stati ispirati da grandi opere non italiani, parlano del loro debito, del loro amore, verso i grandi scrittori russi, altri menzionano i grandi romanzieri francesi dell'ottocento, o degli scrittori americani dell'900. Il grande poeta ebreo russo Mandel'štam (nato a Varsavia nel 1891, morto, nel '38, in un campo di transito vicino a Vladivostok) ha letto Dante in originale, e non ha visto – per ragioni politiche - quasi niente di pubblicato durante la sua vita breve, viene arrestato e condannato due volte (prima al confino , poi al gulag, la seconda volta deve fare più di 5000 km per arrivare alla destinazione: il luogo dell'esilio, sempre all'interno dello stesso paese) dove scontare i cinque anni per attività controrivoluzionaria - cioè per aver scritto versi contro Stalin - ma muore a 47 anni, dopo un anno di detenzione…

Una sua poesia inizia con il seguente verso Ho imparato la scienza degli addii mentre quella che leggerò è una poesia mia che ho scritta dopo un periodo vissuto in compagnia dei versi di Mandel'štam:

 

(tastare nel vuoto)

ci sono versi spartiacque

separano mondi separano Mandel'štam

che parla di pietre

di maschere di neve

separano declivi divergono

dalla cresta di una metafora che fu

di Majakovskij separano

spazi strofe il destro

dalla sinistra l'interno della croce

dalla spina dorsale che canta

il versante è il viso esterno

della poesia la faccia che vede

il lettore distratto il volto

della superficie

è la coltre di neve ma chi la toglie

deve sostenere altri occhi

che invitano a levare ancora

uno strato

uno strato di terra

per i poeti allora si scavavano buchi

profondi

anche quando il suolo era congelato


Come Mandel'štam anche Anna Achmatova ha letto Dante in originale e inoltre si è occupato di Shakespeare per tutta la vita. A questo punto si potrebbe dire che le influenze non sono una cosa matematicamente dimostrabile, la nascita, lo scrivere, la morte in un unico paese invece sì: come eccezione viene spesso nominato Ungaretti (è stato menzionato anche in uno dei seminari passati), nato in Egitto da genitori lucchesi, che cresce alla periferia di Alessandria, ai confini con il deserto, che ricorda la balia sudanese e i racconti della tata croata, che direttamente dal Egitto va in Francia a studiare e arriva in Italia da maggiorenne. Certo, scriveva in italiano, ma lo fanno anche i cosiddetti scrittori migranti. Parla spesso della sua natura girovaga, le parole “nomade” e “deracinè” ricorrono più volte in Vita di un uomo . Viaggi e lezioni.”

E Foscolo, nato su un isola greca, di madre greca, passato da un esilio all'altro e morto in Inghilterra scrive in una lettera: “…io, finché sarò memore di me stesso, non oblierò mai che nacqui da madre greca, che fui allattato da greca nutrice e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zazinto, risonante ancora de' versi con che Omero e Teocrito la celebrarono.”

Dante Alighieri, padre della letteratura italiana, è costretto a scrivere la sua opera maggiore in esilio. Va bene, potrà dire qualcuno: la parola nazionale oggi ci sta stretto, parliamo di letteratura europea.

E qui cominciamo a muoverci sul ghiaccio, la letteratura occidentale non si fa del tutto catalogare, nonostante l'eurocentrismo diffuso, che crea termini come “terzo mondo” e eufemismi come “paesi in via di sviluppo”, dobbiamo ammettere che persino il grande Puschkin, uno dei padri della letteratura europea, aveva avi africani.

Elias Canetti, Paul Celan, Rose Ausländer (nata nella stessa città di Celan, Cernovitz) che porta un cognome che vuol dire letteralmente “straniero”, Henry Troyat, russo, di origini armene che ha cambiato nome due volte, sono scrittori che si possono attribuire a una letteratura, ma non a un paese soltanto.

Le classificazioni danno sicurezza, certezze, a patto che non si approfondisca troppo, che non si cominci a scavare.

Sarebbe interessante sbirciare in altri campi, dove ci si esprime con altri linguaggi, come la musica, la pittura o la fotografia,dove sembra che il linguaggio rimanga lo stesso anche se si cambia paese e lingua e invece nascono opere del tutto nuove come testimoniano George Gershwin il cui nome all' anagrafe era Jacob Gershowitz e il grande fotografo Man Ray, che è nato a Philadelphia, U.S. come Emmanuel Radnitzky (ma ho trovato anche Rabinovitch e Rudnitzky), da genitori ebrei russi, e ha vissuto e lavorato a Parigi.

Sono state create tante scacchiere di tante letterature nazionali con confini lineari e netti, ma mai le grandi storie, i grandi narratori, hanno osservato il loro diktat. Si potrebbe dire che le grandi storie sono come certi animali – e le loro incarnazioni metaforiche – che non rispettano confini politici, sto pensando ai lupi, alle volpi, agli orsi, agli uccelli migratori: se è stato creato una frontiera, se un certo tipo di politica ha marcato il terreno – scusate la metafora – questi animali fanno semplicemente la pipì sopra e vanno avanti. Gli uccelli poi non vedono nemmeno le frontiere che sorvolano, la distanza fa vedere soltanto l'essenziale, ciò che è necessario al volo.

Ma ho fatto questa introduzione per arrivare da un'altra parte, a un mondo contrapposto, altrove, quello delle storie cancellate, forse immaginate a metà, ma non scritte, non memorizzate, le storie di chi è partito senza mai arrivare, le storie di potenziali narratori di cui sono spariti anche i compagni di viaggio (e ogni tanto succede che affiora uno – nel vero senso della parola). Di morti di cui non ci sono testimoni. Di altri che non hanno potuto nemmeno partire, che sono stati fatti tacere con la forza, mentre parte regolarmente la merce fabbricato dalle loro mani (leggo: Non è colpa delle rose che è nata anche dall'ossessione che ho da sempre per quelle metafore che sono diventate stereotipi a forza di riproporle in modo sempre uguale, in questo caso la rosa):

 

non è colpa delle rose

se devono crescere in serre

dove l'aria è pregna di pesticidi e fertilizzanti

non è colpa delle rose

se le fioraie partoriscono

bambini deformi e muoiono senza assistenza

non è colpa delle rose

se devono viaggiare in aerei veloci

per arrivare fresche nei paesi di San Valentino

se in alto devono sorvolare

gommoni con cui si approda

morti - sempre nei paesi di San Valentino

non è colpa delle rose

se vengono offerte di sera nei ristoranti

da bambine e bambini diffidenti

a clienti che palpeggiano prodotto

e venditori senza comprare

non è colpa delle rose

se appassiscono sole in case

da Architectural Digest senza aver visto

un prato un giardino un cespuglio


Leggo un'altra poesia, per soffermarmi ancora un attimo sull'immagine della rosa:

 

si sa che una rosa è una rosa è una

un'altra ancora e già sono troppe

e stanche di poesia, ma questa

è di plastica

e a giudicare dal suo stato

e dal luogo

sta lì da almeno tre anni

appoggiata a un rametto

verde, anch'esso di plastica

tutt'e due con il gambo

in un vetro da sottaceti

la neve è sporca

acquosa e in attesa

di fiocchi freschi fa freddo

vado avanti sulla ghiaia

una delle prossime

sulla sinistra è di mia nonna

adottiva e il nome sulla pietra

è anche il mio

 

Da: Pulvis, coperta materna , Antologia poetica,Gazebo Edizioni, Firenze, 2004


 

Mi piacerebbe parlare anche – in questo contesto - di tanti italiani di un passato abbastanza vicino (e di italiane, ma anche di altri europei e europee), che forse avrebbero avuto delle storie da raccontare, di potenziali poeti che avevano conservati i propri versi nella memoria, ma erano vittime di un'altra esclusione, non facevano parte delle classi sociali che avevano accesso alla scrittura, non hanno potevano frequentare le scuole. Leggo Per una poetessa analfabeta:


Ora nella vecchiaia

la tensione dei versi

rinchiusi tra le pareti delle ossa

aumenta. Il foglio bianco

è una calamita. È viva l'immagine

delle lettere tracciate una vita fa.

Ma il lapis si spezza

nella stretta delle dita gonfie.

Non obbediscono.

Altri erano i compiti

delle figlie dei contadini

e la scrittura per secoli

un privilegio di pochi.

È nitida la poesia

nello steccato della memoria.

Ci rimarrà ancora per un poco

poi se ne andrà insieme a lei.

 

Da: Scrivere x scriversi. femminile, trasversale (a cura di Caterina Bigazzi) , Signa (FI), Il Masso delle Fate, 2006


 

Volevo parlare delle storie e delle persone di cui non sono rimaste tracce. E spesso nemmeno il nome. Sappiamo che la scrittura ha molto a che fare con la memoria. Purtroppo a tanti potenziali scrittori non è stato tolto soltanto la vita e la possibilità di narrare, ma anche quella di essere ricordata con il proprio nome.

 

(in memoria di)

non racconterà né la sua né altre

storie non diventerà grande

è morto il 27 giugno 2003

a Monrovia in uno spiazzo

sterrato disseminato di bossoli

bossoli e terra anche nello squarcio

sopra le costole una riuscita foto

di guerra per riviste patinate

con la data e l'agenzia di lato

come nelle foto di moda

manca il nome del soggetto

non diamo la colpa al fotografo

il nome gli è stato tolto tempo fa

era un bambino soldato

usato da vivo per interessi adulti

e come immagine da morto

esempio uno dei tanti non persona

ma che cosa può testimoniare un

corpo senza nome ci vuole un nome

per ricordarlo per ricordare

che ha vissuto per poter dire

in memoria di


 

Finisco con una poesia che potrebbe sostituire una breve nota autobiografica, è un scatto istantaneo sulla mia condizione di poeta e lettrice “migrante”, tra le righe c'è il mio paese d'origine, c'è l'Italia, e letture che rimandano altrove…

 

Necrologio per una zanzara

 

L'ho ammazzata io.

Era tanto che mi tormentava.

Aveva preso di mira

le mie caviglie ed io

ero un facile bersaglio

finché - sbaglio fatale -

non si è posata sulla “Sera

d'Inverno” di Puškin

che tenevo aperta

per rinfrescare un poco

con turbini di neve e bufera

la notte afosa di questo

spietato agosto fiorentino.

E' morta tra l'originale

e la traduzione a fronte.

Una bella fine -

che altro si può dire?

 

Da: Pulvis, coperta materna , Antologia poetica,Gazebo Edizioni, Firenze, 2004


 

Julio Monteiro Martins :

Vorrei fare un primo commento. Ripensando alla poesia scritta dai poeti cosiddetti migranti si può notare che ci sono due correnti grosso modo più importanti, una che è quella meno presente è una corrente molto “formalista” che cerca di riallacciarsi a uno stile letterario occidentale anche da un punto di vista estetico e l'altra è quella presente nella poesia di Barbara, come nella mia, ma anche in un poeta che mi piace molto, Bozidar Stanisic', ed è una poesia che estrae la sua forza poetica dal quotidiano e che ha uno sguardo più rivolto alla vita che alla poesia stessa come tradizione formale. Questa direi che sia la corrente principale della poesia della migrazione in Italia, è una visione allo stesso tempo malinconica e umoristica delle tematiche che affronta, cioè una visione ironica, ma allo stesso tempo amara. È come se si presentasse una sorta di rassegnazione sarcastica e autoironica sullo stato delle cose e questo l'ho visto in modo molto forte nelle poesie lette da Barbara oggi.

 

Francesca Caminoli :

Si, due cose: Barbara prima diceva che lei ha una vera e propria ossessione per gli stereotipi, io invece ho una fissa o meglio una passione, se così la possiamo chiamare, per la neve, tanto che anche nell'ultimo libro che è ambientato in Senegal e all'isola d'Elba sono riuscita a mettere pure lì la neve! E l'altra cosa a proposito delle persone cancellate, scrivere a volte è anche dare parola a chi non l'ha avuta, a chi non la può avere. Per esempio quando adesso ho fatto le ultime ricerche ho visto sul El Pais spagnolo, molto più attento dei nostri giornali a queste migrazioni verso le Canarie, che ogni giorno ci sono 10- 20 dispersi, 30-40 morti. Una notizia in particolare mi ha scosso, di una barca trovata ai Caraibi, alle Barbados con dentro 11 persone delle 47 partite mummificate. Il fatto che uno possa diventare una mummia mi ha scioccato. Questi sono gli eroi di oggi, le persone che però non hanno voce.

 

Julio Monteiro Martins :

La consapevolezza che dobbiamo avere, e a volte non ce l'abbiamo totalmente, è che noi siamo contemporanei di una catastrofe, che in questi ultimi anni abbiamo assistito a un fenomeno, se posso usare un'espressione ardita, biblicamente tragico, che sono queste persone che si buttano in mare sapendo in anticipo che pochissimi arriveranno. Si buttano con una percentuale di rischio consapevole altissima, si gettano nelle braccia della morte per avere una minima possibilità di rinascere altrove con una nuova vita, e il Mediterraneo è il palcoscenico di questa grande tragedia.

Un'altra considerazione che mi è venuta in mente quando Barbara parlava delle persone cancellate nella letteratura della migrazione, ma c'è già una grande persona cancellata in ognuno di questi scrittori che è sé stesso. Uno migra per poter ricostruire altrove, in un'altra lingua, una letteratura, tra persone che non li conoscono, in un posto in cui la sua storia inizia già nella maturità, cosa che è strana, se uno pensa, cioè tutte le persone affondano la propri storia nell'infanzia e nella gioventù, invece il migrante comincia la sua storia già maturo, nasce vecchio. Il personaggio che il migrante si è lasciato indietro è come la pelle secca del serpente. Ecco, quelle persone che sono rimaste nel mondo delle memorie, che si diluiscono nel tempo e si deformano, sono persone cancellate. È un io sottratto dal trauma della migrazione.

 

Barbara Pumhösel :

Il tragico è che ci sono anche delle vittime con le loro storie senza nome, muoiono 30- 40 persone e noi non sentiamo un solo nome. Questo succede solo quando c'è un ostaggio e diventa un caso televisivo, altrimenti c'è il silenzio più totale sui nomi delle persone che muoiono. Abbiamo anche orecchie abituate a memorizzare i nomi di tutte queste stars che circolano, perché non ci dicono questi nomi invece e così poter associare a un numero una sensazione uditiva, una immaginazione possibile? Magari tra tanti qualcuno ce ne rimarrebbe in mente.

 

Julio Monteiro Martins :

Mi sono ricordato di un brano, forse il più profondo e sconvolgente di Primo Levi nel suo libro “ I sommersi e i salvati ”, quando parla della vittima. Dice che la vittima purtroppo è profondamente identificata con il suo carnefice, cioè è identificata con la situazione in cui il carnefice la mette in modo che la sua storia finisce per essere la storia della sua tragedia, questo crea tra la vittima e la tragedia una strana forma di complicità e di colpa. È curioso questo, cioè è una tragedia che si aggiunge a quell'altra tragedia, è una tragedia simbolica che si aggiunge alla tragedia materiale e queste persone senza nome che scompaiono sotto i bombardamenti della NATO e cioè sotto i nostri bombardamenti (che cos'è la NATO ? Stati Uniti, Olanda, Germania,… e Italia!) sono presentate attraverso questa complicità con una circostanza storica tragica. Esistono solo come complici di un momento drammatico della storia.

 

Hamid Barole Abdu :

L'intervento di Barbara mi ha colpito, soprattutto quando ha parlato delle rose e del loro viaggio fino ad arrivare alle mani della bambinetta che le vende nei ristoranti. In queste sue poesie, come nei racconti di Francesca, il minimo comun denominatore, la cosa che le accomuna entrambe è la loro sensibilità, cioè l'essere in contatto con il mondo cinestetico, interiore e grazie a questo contatto riuscire a concepire i vissuti delle persone vicine. E questa loro sensibilità emigra,appunto, Francesca va in Senegal, Barbara va in Kenia. Anch'io come loro scrivo per chi non ha voce, chi non ha spazi e credo che tutti noi abbiamo dei compiti non facili.

 

Julio Monteiro Martins :

Sono d'accordo con Hamid quando dice che certe rappresentazioni del mondo drammatico di oggi solo gli scrittori della migrazione sono in grado di esprimerle. Io credo anche che questi scrittori portano nella loro stessa condizione una metafora che cammina, perché la condizione di migrante è una condizione intrinseca all'uomo contemporaneo, anche di quelli che non hanno migrato. Anche se uno cerca di mantenersi nel suo villaggio natale assolutamente immobile, fermo, intoccabile, senza permettere che niente lo raggiunga, migra lo stesso, ma migra a ritroso perché il mondo cambia, avanza, va in mille direzioni, quindi la condizione del migrante è oggi quello che è stato preannunciato da Albert Camus quando ha scritto “ Lo straniero ” e ha chiamato stranieri non quelli che venivano da altri paesi, ma l'uomo nel mondo. La condizione dello straniero è una condizione intrinseca all'uomo. Ecco, la condizione del migrante lo è altrettanto e quindi il migrante che migra da un paese all'altro è una materializzazione di un epifenomeno di questa condizione astratta generale. Per questo credo che la letteratura della migrazione abbia un grande potenziale di comunicazione con il lettore contemporaneo.

 

Anna Lacriola :

A proposito della rosa mi viene in mente un libro di Mohsen Melliti, “ I bambini delle rose ”, che da una parte riprende appunto la metafora di cui prima Barbara parlava, la rosa che diventa simbolo di sfruttamento nella vita dei due bambini che sono i protagonisti del libro e allo stesso tempo riprende l'esperimento che prima faceva Francesca giocando con noi, perché Melliti è uno scrittore tunisino è anche un regista che però parla di due persone che non conosce, di due realtà che non conosce, quella di un bambino bosniaco e quella di una bambina cinese. La scrittura diviene la possibilità di descrivere, di partecipare ad una vita possibile, simbolo di tutte quelle vite possibili che si ha la volontà di immaginare e di compartecipare. C'è Milan Kundera che nell' Insostenibile leggerezza dell'essere parlava di con-passione che significa vivere la passione dell'altro e allora la scrittura è anche un esperimento all'interno del quale poter vivere questa dimensione dell'umano in tutta la sua profondità. Dunque tanto di cappello per coloro che hanno la capacità e la forza e la volontà di comunicare attraverso la scrittura questa profondità dell'essere.




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