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Programma della prima sezione del Seminario

Saluto ai partecipanti dal Vice Presidente della Provincia di Lucca Dott. Patrizio Petrucci.            

Julio Monteiro Martins – Presentazione dell’evento di quest’anno e aggiornamento sui temi degli incontri di quest’anno – 15,00

Lettura dell’intervento inviato dalla Professoressa Anna Frabetti – ore 15,30

Intervento della Dottoressa Silvia Bernardi sulla realtà degli italiani nel mondo nel primo Novecento – 16,00

Intervento dello scrittore di origine rumena Mihai Mircea Butcovan – 17,00





1° giorno - Martedì 08 luglio 2008 ore 15,00 Sala Maria Luisa



Apertura dell’8° Seminario: Dott. Patrizio Petrucci, il Vice Presidente della Provincia di Lucca:


Dott. Patrizio Petrucci: Buon giorno, io sono il Vice Presidente della Provincia di Lucca, sono qui in sostituzione improvvisa del Presidente . Vi volevo solo augurare una buona sessione lavorativa e portare i saluti della nostra Provincia.


Julio Monteiro Martins: Intanto ringrazio il vice presidente della sua gentile presenza. La professoressa Frabetti che sarebbe dovuta essere qui con noi e che insieme a me è la organizzatrice di questo evento, non è potuta venire perché la madre, ormai anziana, ha avuto dei problemi di salute. Dunque in questo momento si trova a Bologna, ma mi ha inviato ugualmente un intervento da leggervi ed è proprio con questo che vorrei iniziare la sessione di oggi. Innanzitutto però due parole sul titolo del seminario di quest’anno. Fino all’anno scorso si chiamava “Il seminario degli scrittori e delle scrittrici migranti”, questo ottavo seminario invece si chiama: “Seminario della Sagarana, realtà e prospettive della letteratura contemporanea in lingua italiana”, perché? Perché questo nuovo nome può abbracciare un universo più ampio di autori e mettere insieme, questa è la nostra intenzione, gli autori migranti con quelli stanziali. Sono due universi letterari contemporanei che producono nella stessa lingua, ma che fino ad oggi sono rimasti separati, che non si conoscono o fanno finta di non conoscersi a vicenda. La mia idea e quella della Professoressa Frabetti era proprio questa di cominciare a creare un universo letterario condiviso e per questo quest’anno, oltre agli scrittori di origine straniera, come me, come Mihai Mircea Butcovan come Jarmila Očkayová, ci saranno scrittori italiani come Enrico Palandri e Giuseppe Lupo. Per la prima volta cercheremo di avviare questo dialogo. Un’ultima cosa che volevo dirvi è questa: noi tutti sappiamo che stiamo vivendo un momento storico italiano, ma anche europeo, molto difficile e delicato. Mi ricordo che Primo Levi in un’intervista rispondendo a una domanda sul nostro tempo ha detto: “ci sono energie spaventose che dormono un sonno leggero”. Molte di queste energie dimostrano di volersi risvegliare in questo periodo e quindi più che mai la nostra letteratura è indispensabile perché è la voce che si afferma, la voce di milioni di scrittori non europei che hanno fatto questa scelta di vita e di futuro e di destino di venire a vivere in Europa e di avere l’Italia o la Francia o la Germania come le loro patrie di adozione e di produrre arte in questi paesi e che sono sempre insicuri e sotto pressione per questa incognita che è la storia europea di oggi. Io mi auguro che nel nostro piccolissimo, riusciremo, qua a Lucca, a diffondere la voce degli scrittori non italiani che scrivono però in italiano e anche degli scrittori italiani doc che si sentono in comunione e sintonia con la nostra voce. Ora vi leggo l’intervento della Professoressa Frabetti.


Anna Frabetti: Buongiorno a tutti. Mi dispiace molto di non poter essere presente di persona, anche quest’anno, a Lucca, in un’occasione di dibattito importante come quella a cui vi apprestate. Proprio per questo, ci tengo a partecipare anche da lontano con qualche riflessione, per così dire, preliminare al dibattito che si svolgerà. Perciò voglio prima di tutto ringraziare Julio Monteiro Martins, per il dialogo incessante e ricco che si è svolto, senza soluzione di continuità, tra il seminario dell’anno scorso e quello di quest’anno.


In effetti, proprio in occasione dell’incontro del 2007 ha cominciato a delinearsi l’esigenza, espressa da molti dei partecipanti, di andare oltre le etichette – volute o più spesso subite – di aprire, di spalancare, le porte del nostro dibattito. Porte che non sono mai state chiuse volontariamente, ma che lo sono state di fatto e che lo sono (forse) ancora. Perché?


Vorrei partire proprio da questa domanda per cercare di realizzare una mia piccola “dichiarazione d’intenti” per i lavori di quest’anno. Cosa rappresenta la letteratura della migrazione in Italia, a quasi 20 anni dalla sua prima apparizione? Se consideriamo che tutti, tutti, i fenomeni letterari vanno letti e valutati sulla lunga durata, questa domanda potrebbe non avere nemmeno senso. È sicuramente prematuro rispondervi. Ma la mia domanda ha evidentemente un’altra finalità, che è quella di riflettere su un discorso in fieri, di scandagliare quali sono le modalità della risposta che riceve, di tentare di prefigurare in qualche modo il suo avvenire. E quindi di intervenire su tali modalità.


Come abbiamo sottolineato in tanti, la letteratura della migrazione italiana è l’ultimogenita fra le letterature migranti e proprio per questo abbiamo l’opportunità di valerci della riflessione critica di chi ci ha preceduti, tenendo conto delle debite differenze e della specificità del panorama italiano, così come si sta delineando, plurale e plurivoco come nessun altro, grazie all’estrema diversità degli apporti linguistici e culturali degli autori che ne fanno parte.

A questo proposito, vorrei riprendere e fare mio/nostro un concetto introdotto da due studiosi francesi, Michel Le Bris e Jean Rouaud in un volume uscito nel 2007, dal titolo “Per una letteratura-mondo”1. L’idea di letteratura-mondo viene pensata da Le Bris nel 1992, in occasione di un Festival da lui organizzato, “Etonnants voyageurs”, che porta come sottotitolo, ancora oggi, “Quando gli scrittori riscoprono il mondo” per esprimere l’esigenza “di una letteratura avventurosa, viaggiatrice, aperta sul mondo, desiderosa di esprimerlo”2. Le Bris guardava innanzitutto, dalla Francia, all’esperienza della letteratura della società multiculturale inglese, quella di Kureishi, di Rushdie, di Ondaatje fra gli altri, per costruire un approccio critico alla realtà della francofonia, all’atteggiamento di certa letteratura e critica francese troppo “francocentrica”, per così dire, per comprendere la portata delle potenzialità delle nuove letterature francofone, appunto. Cito ancora Le Bris:


“Il miglior modo per non capire niente, mi sembrava, era di ridurre questa effervescenza [dei nuovi autori] a un “genere”, una categoria esotica, se non a una variante delle letterature “regionali” o “etniche” – un po’ di pittoresco, insomma, qualche spezia per risvegliare un attimo i nostri palati stanchi. Del resto, è proprio questo timore di una visione riduttiva a spiegare la reticenza degli autori a ritrovarsi arruolati sotto una stessa bandiera”3.


Il timore di un ghetto, da un lato; dall’altro, il rifiuto di essere letti e giudicati – come sosteneva Rushdie – per la sola espressione di una specifica nazionalità: per il fatto di essere autori di romanzi “tipicamente” o “autenticamente” antilliani, indiani, e via dicendo. Continua Le Bris:


“Fuggiaschi, immigrati, nomadi, nati in una cultura che le circostanze della storia o la volontà personale gli avevano fatto abbandonare per vivere in un’altra, divisi tra del loro comunità, in equilibrio instabile tra le tradizioni da cui si erano separati e le libertà individuali che la nostra civiltà prometteva, gli autori che scrivono in una lingua diversa dalla madrelingua, ‘uomini tradotti’, per riprendere l’espressione di Rushdie, ‘bastardi internazionali nati in un luogo e che decidono di vivere in un altro, che trascorrono tutta la vita a battersi per ritrovare la loro patria o per farla’, secondo Ondaatje, tutti si affermavano, ad un tempo, come creatori e prodotti di un nuovo ordine internazionale”.4


Quello di letteratura-mondo è dunque un concetto che nasce dall’idea di eliminare centri e periferie: in questo senso Le Bris lo formula per contrapporlo alla francofonia, che considera come l’ultimo bastione del colonialismo, intellettuale e linguistico. In questo senso, anche l’idea di una letteratura nuova, che venga a vivificare una letteratura preesistente, a me sembra pericolosa, almeno potenzialmente pericolosa. Pericolosa per chi la fa, per gli autori che rischiano di vedersi ristretti in una cornice inautentica (più vicina a ciò che il mercato delle lettere chiede loro che non ad un vero bisogno espressivo); pericolosa per chi la legge, spesso attraverso una lente di preconcetti velocemente digeriti, a volte senza nessuna intenzione malevola (ma può essere giustificabile?). In Italia poi, il discorso culturale non può essere ancora distanziato dal discorso politico-sociale, dalla situazione di emergenza in cui versa ancora il paese da questo punto di vista. E vorrei, non per citarmi ma per citarla, riprendere un breve passaggio di Occhio a Pinocchio di Jarmila Očkayová, a cui avevo fatto riferimento anche l’anno scorso e sul quale mi piace ritornare. Scrive:


Si valuta spesso il grado di inserimento di un immigrato, usando vari criteri: la padronanza della lingua, l’occupazione, il possesso di una casa, la relazionalità aperta e mista o la chiusura nei nuovi ghetti per così dire etnici… Io vorrei rovesciare il concetto stesso dell’inserimento: domandarmi non quanto un immigrato sia inserito nel nuovo contesto sociale, ma quanto quel contesto sia inserito in lui – come la mano che s’infila nella veste del burattino e lo anima. […] E ancora, la stessa domanda posso applicarla alla lingua […] reinventare l’italiano sì, ma non nel senso della lingua, bensì in senso antropologico. Reinventare, nel confronto con lo straniero, l’italiano persona, prima o assieme all’italiano lingua.


Mi sembra che le parole della scrittrice dicano ancora una volta che, per la letteratura, per la parola scritta così come per l’essere umano, si tratti ancora di avvicinarsi all’Altro, tenendo conto che, come scriveva in una delle sue ultime interviste Ryszard Kapuscinski, ognuno di noi è l’Altro. E Kapuscinski cita in tal senso la riflessione di Emmanuel Levinas (e di altri filosofi del dialogo, come Buber e Gabriel Marcel) che definisce « avvenimento » l’incontro con l’Altro, l’« avvenimento fondamentale », l’esperienza più importante, quella che apre gli orizzonti più ampi.5

Perché la letteratura diventi “mondo”, occorre forse cambiare sguardo, prospettiva. Rifiutare a priori gli stereotipi, le catalogazioni, la gerarchizzazione – a livello critico, a livello editoriale (il che non significa che non occorra snobisticamente fare i conti con il mercato) – che finisce spesso per coincidere con una nuova forma di colonizzazione: un autore africano deve corrispondere a ciò che noi consideriamo “africanità”? Un autore del sud del mondo deve – per essere pubblicato – raccontare ciò che attendiamo da lui, vale a dire qualcosa al confine tra il lacrimevole, l’esotico, qualcosa da “bon nègre”? O dobbiamo ancora stupirci soltanto di quanto utilizzi bene il congiuntivo? Gli esempi potrebbero sprecarsi, dando un’occhiata al mercato editoriale, ma credo che sia evidente per tutti noi ciò di cui sto parlando, certe dinamiche pubblicitarie e mediatiche.


Il discorso mi sembra tanto più significativo in Italia, dove per ragioni storiche l’attenzione alle letterature straniere, alle letterature che potremmo definire minori o marginali (e il termine va letto in senso paradossale, evidentemente) ha tardato a diffondersi; dove, del resto, fattori come la quasi assenza di una letteratura postcoloniale e l’approdo di autori provenienti da ogni parte del mondo hanno reso il panorama attuale particolarmente originale ed unico in Europa. Un panorama così multiplo da rendere ancora più complesso l’approccio del critico e del lettore, costretto a fare i conti con apporti estremamente lontani dalla sua griglia di lettura abituale. In questo senso, il ruolo della critica può essere importante, proprio attraverso una rete di strumenti, che non saranno più soltanto quelli storico-filologici ma essenzialmente quelli del comparatista o dello storico della cultura. In questo senso, il nostro incontro di quest’anno può costituire un vero punto di svolta, poiché per la prima volta autori italiani e non, critici di diversa formazione, autori-critici (come Enrico Palandri, ad esempio, che è un autore italiano migrante e un critico autorevole), migranti e non, si trovano di fronte e danno vita ad un laboratorio, ad una tavola rotonda che non potrà non essere produttiva e proficua. Non mi resta che augurarci che questa occasione di dialogo sia solo la prima tappa di un percorso che si arricchirà di anno in anno.

Grazie.


Julio Monteiro Martins: Adesso vorrei introdurre il prossimo intervento, quello della Dott.ssa Silvia Bernardi. Tutti noi seguiamo le vicende che hanno colpito i rumeni negli ultimi periodi in Italia, una sorta di paranoia collettiva stimolata dai media con precisi intenti politici, ecco questa situazione spiacevole, che è culminata nel tentativo addirittura di schedare i bambini rom, è una situazione che ha dei chiari parallelismi con ciò che gli italiani hanno vissuto nelle loro migrazioni. C’è un libro molto interessante di Gian Antonio Stella intitolato L’orda, quando gli albanesi eravamo noi che racconta degli episodi molto drammatici vissuti dagli italiani. È per questo che prima di dare la parola a Butcovan ho invitato la Dott.ssa Bernardi della Fondazione Paolo Cresci per parlarci un po’ della storia degli immigrati italiani.



Silvia Bernardi: Innanzitutto buona sera a tutti, mi chiamo Silvia Bernardi e collaboro con la Fondazione sulla storia della migrazione italiana Paolo Cresci, una Fondazione, un archivio, un centro di studi più che altro sui flussi migratori passati, ma sempre con uno sguardo anche all’attualità. Sono molto contenta di essere qua e ringrazio Julio per avermi invitato a partecipare. Devo dirvi che mi sono interrogata all’inizio sulla pertinenza della storia della migrazione italiana con il seminario della Sagarana e mentre riflettevo mi sono venute in mente le parole di un caro amico, uno studioso di storia, in particolare della storia dell’Africa, che un giorno mi confidò di non piacergli particolarmente viaggiare. Questa sua considerazione mi lasciò abbastanza stupefatta perché uno studioso di storia dell’arte, che per anni aveva vissuto in Egitto e conosceva molto bene la storia dei paesi del nord Africa che si affacciano sul Mediterraneo, non capivo come non avesse interesse per il viaggio, poi mi ha spiegato che si può viaggiare nello spazio, ma anche nel tempo, possiamo spostarci fisicamente da un luogo a quell’altro, ma possiamo anche spostarci lungo una linea del tempo, andare indietro e conoscere culture altre, popoli altri, popoli migranti perché no? attraverso lo studio del passato. Allora pensando a questo mi sono detta, oggi più che mai questo sguardo al passato può esserci d’aiuto anche per un confronto col presente. Quando parliamo di fenomeni migratori del passato e di migrazione del presente dobbiamo sempre pensare a un cambiamento psicologico, emotivo e culturale che inevitabilmente avviene per le persone che compiono la migrazione e per le persone che si trovano ad incontrare i migranti. Ho pensato, per non fare un intervento accademico e non annoiarvi con dati e statistiche, di analizzare insieme a voi i documenti prodotti dai migranti, che ci inducono sicuramente a una riflessione più profonda e pertinente. Partirei dal tema del viaggio. Innanzitutto, quando si parla di storia della migrazione italiana, i nostri migranti si sono spostati lungo un secolo, dagli anni ‘70 dell’800 agli anni ’70 del 900, anche se è vero che nel 1970 il boom economico ha allentato i flussi migratori, non si sentiva più l’esigenza di partire, perché si cominciava a stare bene anche in Italia. L’incontro con le prime persone straniere avveniva già sulle navi con cui si viaggiava. Il primo documento che analizzeremo è un esempio di broccolino, ovvero una sorta di lingua italo-inglese di Brooklyn che si è andata formando proprio sulle navi perché i marinai, i cuochi inglesi etc.. insegnavano proprio in questo contesto le prime parole agli italiani. Per esempio c’è la parola “abblaccato” che viene da black, nero, annerito e si usava spesso per indicare un fuoco, un incendio che durante il viaggio non era raro. Non so se vi fa sorridere, ma a me si, la parola “alluccà”, guardare da to look. Ancora “giobba” da job lavoro, o “sciumecco” da schoemaker, calzolaio e che poi è divenuto chi pulisce le scarpe oppure alcune espressioni come “Oraite tenchu veri macci”, grazie molte. Questo è diventato un vero e proprio dialetto che si è continuato a parlare fino ai primi decenni del XX secolo e mi è sembrato interessante proporvelo proprio perché rappresenta il primo incontro della lingua italiana con l’inglese. Una volta arrivati a destinazione, gli italiani dovevano affrontare una serie di prove e da questo punto di vista forse è stata l’Australia il paese più severo e restrittivo nell’ammissione degli stranieri, ma anche gli Stati Uniti in certi periodi. Una congiuntivite per esempio poteva essere motivo sufficiente per rispedire la persone in Italia. Nei documenti che vi ho fotocopiato ci sono alcuni dei quiz e delle prove che venivano fatti al migrante per capire se era sufficientemente intelligente per restare o se doveva essere rimbarcato.

In 14 secondi per esempio una persona doveva riconoscere tutte la facce che guardavano a sinistra sul foglio. Ma molti di questi test erano assolutamente soggettivi, si trattava di prove che sarebbero state difficili da superare anche per noi, che siamo sicuramente più alfabetizzati delle persone che partivano allora. Nel sito di Ellis Island, il promontorio dove venivano fatti sbarcare gli stranieri e dove avveniva la selezione, oggi museo e archivio storico, si può ravvisare anche il razzismo strisciante di chi faceva i controlli. Ad esempio se Mario Rossi proveniva da Bergamo, ma aveva i tratti somatici meridionali (pelle scura e capelli scuri) nella propria scheda veniva scritto sotto la dicitura etnia : southern Italy, che era come dargli del mafioso o del sospetto mafioso e questo poteva essere un motivo sufficiente per essere rispedito in Italia. Questo era il tipo di considerazione, assolutamente arbitraria e discriminatoria.

Sulle navi non c’è neanche la ginestra da aggrapparsi volevo leggervi le prime frasi.


“ Non trovo parole adeguate per descriverle per l’intiero lo sconvolgimento del Piroscafo, i pianti, i rosari e le bestemmie di coloro che hanno intrapreso il viaggio involontariamente, in tempo di burrasca. Non le descriverò gli spasimi, i vomiti e le contorsioni dei poveri passeggeri non assuefatti a così tali complimenti”.


Questa è una lettera del 1889, ma come questa ce ne sono a migliaia in numerosi archivi di storia della migrazione. Mi colpisce perché queste onde, queste morti, non possono non ricondurci alle attuali peripezie di migliaia di migranti che non sono mai diventati immigrati, purtroppo. Andando avanti Vedrai che bell’uomo, almeno se hai gusto! Questo Osvaldo di Maracaibo, in Venezuela, scrive:


“Carissima

(…) Io penso che se mi vanno bene le cose fra un paio d’anni vengo in Italia. (…) verrò vestito da americano, come vo vestito ora. Vestito Palm beach, cappello di paglia e cannelli come di pastasciutta (qui in Maracaibo non c’è pastasciutta), scarpe Broadway a 5 dollari comperate in Curaçao dove non c’è dogana da pagare, pantaloni baloon…e forse un vestito da golf. (…) Perdio se c’è chi mi resista”


Qualcuno leggendo questo brano mi ha chiesto ma com’erano i canoni allora di bellezza per quanto riguarda gli uomini, ma anche le donne? Più avanti c’è una lettera che parla a questo proposito delle balie.


Sia la nutrice sana, non rossa, accostumata e d’alito dolce


Sia la nutrice (…) di mediocre grassezza, abitualmente sana e vigorosa senza deformità apparenti, piuttosto bruna, che bionda, non mai di capelli rossi: le donne di rossa capigliatura hanno d’ordinario una traspirazione cutania assai fetida. Abbia bianchi ed interi denti, le gengive sode, le labbra vermiglie, l’alito dolce, non abbia la pelle scabra, sudicia, coperta di eruzione (…) Sia la voce soave e bene articolata (…) Sia accostumata, onesta, sobria (…)”.


Insomma si chiedeva molto alle donne allora come oggi! Finalmente riuniti, ma oddio:è questo mio marito?. Questa è la lettera di una donna che ha dovuto separarsi dal marito e dopo anni lo rincontra.


“La Plata, 26 Gennaio 1952

Miei cari mamma, papà e tutti, (…)

La nave arrivò alla banchina di Buenos Aires alle 16 ma fra le poche persone che vi erano non c’era Rainaldo. (…) Andai, con i rappresentanti dell’Italia, con un senso terribile di nausea e dietro la cancellata sentii chiamare la voce di Rainaldo: “Paola”. I rappresentanti fecero così entrare sulla banchina un uomo sugli 80 chilogrammi grasso, sporco, sudato, con la faccia proprio gonfia e grossa simile al maiale: era Rainaldo! Fu la chiusura degna di tutto. Rimasi zitta con una espressione di disgusto visibilissima sul viso, abbracciò le piccole ed andammo tutti in cerca delle valigie. Non potei dargli neanche la mano, non potevo, non gli chiesi niente né lui chiese niente a me né si avvicinò, come se le nostre persone non esistessero, con la massima indifferenza parlavamo delle valigie ed io rispondevo come tra un bigliettaio e un passeggero qualsiasi. (…) dopo due anni e mezzo neanche la mano! (…) Non vi dico tutti i mie pensieri e i miei sentimenti. Dicevo a me stessa: “ No, non è possibile, non è possibile…” (…) Il giorno dopo, la sera andammo a La Plata: ancora non ci si era dati né la mano né altro (…)”

Ecco, gli incontri, come trapela dal testo non erano sempre positivi, capitava che le persone non si vedessero anche per decenni e nel momento del rincontro non si riconoscessero né fisicamente né in altri sensi. Ora vedrei un altro testo Affittasi figlio lire 13 al mese, obbligo fedeltà al padrone. Questo è un documento che rappresenta un contratto del 1857 dove i famigliari di un ragazzino si impegnavano a concedere i servigi del loro figlio ad un signore in cambio di 13 lire al mese.


“ Nella presente benché privata scrittura da valere come atto rogato da pubblico notaro i sottoscritti ossia crocesenati Cassinelli Gio Batta di Giuseppe del luogo di Graveglia Comune predetto, e Brusco Girolamo fu Pasquale del luogo del Fullo Comune indicato hanno convenuto quanto in appresso. Il predetto Gerolamo Brusco concede a titolo di garzone il di lui figlio Antonio d’anni sedici circa all’indicato Gio Batta Cassinelli per condursi in Londra ad esercirvi il mestiere di suonatore ambulante per mesi trenta, ed un mese di più per impiegarsi nel viaggio onde colò trasferirsi. Per detto tempo di mesi trenta il Cassinelli si obbliga a corrispondere al padre del garzone Gerolamo Brusco lire abusive di Genova tredici per cudun mese cioè lire centoventicinque dopo diciotto mesi dall’incominciato servizio, ed il saldo alla fine dei trenta mesi, escluso il salario di un mese, per impiegarsi nel viaggio.

Il garzone da parte sua sarà obbligato a prestare fedelmente il suo servizio in ubbidienza, e rispetto al padrone (..)”.


Questo era un tipo di contratto molto in voga nella seconda metà dell’ottocento. C’è poi un documento intitolato Tempi moderni: 22 ore di fila in fabbrica


“ Il tempo massimo per la pelatura di una mela è di 5 secondi. Nella mettitura in scatole i fagioli sono bollenti: le scatole di latta tagliano le dita, l’acido dei pomodori infiamma i tagli. (…) Paga: 6 soldi l’ora o poco più. Nella stagione dei piselli le donne sono tenute alle tavole di scelta da 18 a 22 ore di seguito, lavorando anche fino a 1.30 ant., e le ragazze stanno in piedi a riempir scatole 6 ore senza interruzione. (…) Dopo due ore, in piedi alle correggie mobili, il lavoro è insopportabile; ma ci sono donne italiane che ritornano a questo sforzo tre giorni dopo la nascita di un bambino”.


Questo ci interessa perché parla ancora di donne (il tempo massimo per…) Ecco, questo testo documenta la durezza del lavoro a cui erano sottoposte le donne, anche incinte o appena partorienti. Concluderei la lettura di questi testi con uno sguardo su alcune vignette che fanno riflettere perché queste raffigurazioni comparivano sulla stampa e sui giornali di tiratura nazionale. Dunque le testate nazionali, quelle che per noi oggi sono il Corriere della Sera o Repubblica, per esempio, presentavano la prima pagina in questo modo: Italiani d’Australia, e vedete gli italiani rappresentati come mostri, c’è la caricatura di un italiano dai tratti quasi scimmieschi.

E poi c’è questa rappresentazione di due italiani vestiti da mafiosi a un funerale e la battuta che dice: “Come mai ai funerali italiani portano la bara solamente in due?” “Perché i bidoni della spazzatura hanno soltanto due maniglie!”.

C’è quest’altra vignetta che rappresenta una festa italiana, c’è questa donna intenta a cuocere un pollo con una mano e con l’altra pulisce un bambino, c’è anche un signore anziano al suo lato che fa la stessa cosa e poi una figura che sembra quasi un pagliaccio con un naso rosso che fa intendere che gli italiani bevevano, si ubriacavano.

Per terminare vorrei leggervi la poesia di una migrante italiana che dopo anni vivendo negli Stati Uniti ha sentito l’esigenza di riappropriarsi della lingua italiana, questa testimonianza vuole anche scacciare il preconcetto che i migranti siano tutte persone semianalfabete e ignoranti. E invece c’è tutta una cultura italo-americana che sicuramente ha segnato la cultura italiana all’estero, ma anche la cultura americana. La poesia è del 1954 e l’autrice è Severina Magni di Lucca ed è un caso interessante perché l’autrice è partita dall’Italia da analfabeta, ha frequentato le scuole bilingue negli Stati Uniti e pian piano ha recuperato la lingua italiana scrivendo a livelli davvero alti.


Nostalgia


Potessi riveder le verdi sponde

del mio fiume natio

ed il limpido ciel che specchian l’onde

con fresco mormorio.

Cercar fra i bianchi ciottoli del greto

la pietra fortunata,

ritrovare il vocio ridente e lieto

dell’infanzia beata,

e riveder nell’acqua di smeraldo

il mio volto d’allora,

trasfigurato dal riflesso caldo

di quel riso d’aurora.


Io concluderei proprio su questa poesia e mi auguro che il seminario degli scrittori migranti possa essere un viaggio attraverso il passato, il presente e le culture altre, perché l’incontro con l’altro è la vera ricchezza che ci portiamo dentro. Ringrazio voi per l’attenzione e soprattutto Julio per l’occasione offertami.


Julio Monteiro Martins: Ringrazio Silvia per la testimonianza preziosa. Ci ha mostrato in modo così bello la fragilità dell’essere umano e ci ha fatto capire che l’oppresso di ieri può essere l’oppressore di oggi e viceversa. Mi ricordo, per esempio, certe situazioni di difficoltà che ha vissuto il popolo statunitense subito dopo la crisi del 1929. C’è a riguardo un bellissimo romanzo di Horace McCoy, che poi è stato adattato per il cinema ed è diventato il film diretto da Sydney Pollack Non si uccidono così anche i cavalli?, che racconta proprio del periodo senza prospettive che stavano attraversando gli americani in quegli anni. La dottoressa Bernardi ci ha ricordato anche la tragedia muta che sono queste persone che muoiono durante le traversate su dei gommoni improvvisati. Questa è la grande tragedia europea di oggi, come c’è stato lo sterminio degli ebrei e degli armeni, oggi viviamo in silenzio questo nuovo sterminio che sono sicuro, in futuro, sarà pensato come una tragedia europea, ma che nel presente, mentre lo viviamo, passa quasi come una sorta di effetto collaterale della globalizzazione. Ed effetto collaterale non è, è proprio il centro del dramma e del tragico. Bisogna essere consapevoli di questo mentre ciò accade, non solo in una visione storica retrospettiva. Ora vorrei invitare Mihai Mircea Butcovan nato a Oradea in Transilvania, ma da molti anni qui in Italia, lavora in Lombardia come mediatore culturale e fa proprio da tramite tra l’Italia e i suoi concittadini rumeni. Ma è soprattutto uno scrittore ed ha già scritto due libri considerati importanti nell’area della letteratura della migrazione, uno s’intitola Allunnaggio di un immigrato innamorato e l’altro sempre del 2006 s’intitola Borgo Farfalla ed ha vinto il premio Exs&Tra. Ho selezionato un brano molto breve e molto significativo da Allunnaggio di un immigrato innamorato , così potrete avere un assaggio dello stile di Butcovan e subito dopo gli passo la parola.


Bucarest, quasi Giubileo

Cara Daisy,

ho ricevuto soltanto ieri la tua lettera ed eccomi qua, af­frettato come non mai, a tentare una, spero breve, risposta.

Piacere, masochistico piacere!

Ho cercato per una cola­zione intera stamattina una definizione di ciò che provai leggendo le tue mnemoniche accuse.

Come sei bella in­cazzata e come ti amerei ancora se tu non fossi proprio così!

A dire il vero ho impiegato non poco tempo per convin­cermi che il destinatario di tanto veleno – iniettato con altrettanta veemenza nel gambo di una innocente sequenza di carta da lettere, busta da lettere, soprascritta, francobollo padano, odiato destino, buca delle lettere, ufficio postale lumaca, fru­strato postino, ignaromenottambulo recapito sottoscritto – che il destinatario di tutto questo fossi io. Tiriamo il fiato in­sieme.

Ma davvero è così facile buttare via diciotto mesi e venti­cinque anni (è questo l’esatto computo del nostro stare in­sieme!) d’amore vero e sincero?

Perché io ho cominciato ad amarti un quarto di secolo prima di in­contrarti ed ho smesso poco prima che ci lasciassimo come tu ben sai o meglio fraintendi.

Facciamo pace? Sì, ma almeno litighiamo come si deve. Ormai una cena insieme a te cambierebbe il menù delle nostre vite?

Anch’io vorrei un tetto, un divano, una colonna sonora ma non troppo e birra per macchiarsi la camicia, togliersela ed aspettare che s’asciughi nel tuo letto.

Per mesi e mesi ho sognato «insieme al cinema, sfiorarsi al buio e pensare che pensi lo stesso».

Vuoi sposarti? Fai molto bene, pensaci su, io stasera sono impegnato.

(…)

Bene Butcovan, ben arrivato!



Mihai Mircea Butcovan: Grazie a Julio per l’invito a partecipare a questa iniziativa che seguivo da anni e sono contento quest’anno di essere presente tra voi. Avevo preparato qualcosa da leggere e iniziava proprio così: “Una volta mi hanno chiesto se preferisco leggere i miei testi o parlare dei miei testi, allora ho pensato di scrivere un testo da leggere che parla dei miei testi…” Così cominciava l’intervento, ma poi ho deciso di non seguire più la traccia e come si suole dire andrò di palo in frasca. Venendo al seminario ho notato i cartelli improvvisati che indicavano con frecce la sala dove si sarebbe tenuto l’incontro e mi sono chiesto cos’è che i partecipanti esterni si aspettano da questo seminario degli scrittori migranti? Bucovski diceva: “ti aspetti di trovare poesia in una rivista di poesia?..Beh, non è così semplice”. Sicuramente nel programma è previsto che ci siano scrittori stranieri che scrivono in italiano, ma anche scrittori cosiddetti “italiani”. Un incontro sulla letteratura, di letteratura, con scrittori e se tra qualche anno tutti gli incontri di letteratura avranno questa dicitura “ scrittori migranti” allora il pubblico si aspetterà naturalmente di trovare scrittori di tutti il mondo che magari scrivono in varie lingue e il messaggio della Sagarana sarà passato. So che in precedenza hanno partecipato a questo seminario scrittori italiani e non, molto più blasonati e esperti di letteratura di me, dirò subito che il mio contributo sarà più semplice, certamente non accademico perché io sono….Beh, cosa sono? Vi dico cosa sono. Ogni tanto mi chiamano intellettuale, ogni volta che mi sento chiamare così penso a quello che diceva Prévert sulla differenza tra un operaio e un intellettuale e cioè che l’operaio è quello che si lava le mani prima di pisciare e l’intellettuale lo fa dopo. Io mi ritengo un operaio della scrittura in tutti i sensi, non certo uno studioso, ma uno a cui è capitato di scrivere e anche in una lingua che non era la sua madre lingua e a cui è capitato di pubblicare queste cose. Mio padre Gheorghe mi diceva, ed eravamo nella Romania degli anni ’70, “Mihai se non puoi dire ciò che pensi almeno evita di pensare cazzate!”. Qualcuno dice che con Allunnaggio di un immigrato innamorato finalmente sono riuscito a non dire cazzate! Potrei prenderlo come un complimento, ma mi viene anche da pensare che forse ci sono riuscito un po’ tardi…Comunque sia le parole di mio padre mi sono servite durante l’esperienza migratoria. Mi chiamano scrittore, poeta, ma prima di essere questo sono un educatore, mi occupo di tossicodipendenze e intercultura, lavoro quotidianamente con il disagio e la sofferenza delle persone ed è per questo che penso che alla sofferenza non bisognerebbe chiedere il passaporto. Ma sono anche e soprattutto un lettore. Qualcuno diceva che la lettura è il viaggio di chi non può prendere treni ed io nei primi 20 anni della mia vita non ho potuto prendere nessun treno, e quando poco più che ventenne ho preso il treno per l’Italia non sapevo che sarebbe stato un viaggio di sola andata. Dall’incontro con l’Italia e attraverso le possibilità che mi ha offerto, di studiare e di continuare a leggere anche autori e titoli che non erano stati pubblicati in Romania, sono cresciuto. I miei connazionali mi chiedono se le miei radici sono in Romania, quasi ne dubitassero. Certo, le mie radici inestinguibili rimangono lì, in Romania, ma non posso prescindere da una realtà, quella odierna, che mi vede in Italia ed è da qui che guardo al passato e al futuro. La scrittura per me ha sempre rappresentato una cura, ho sperimentato così la valenza terapeutica dell’autobiografia, dello scrivere per tenermi insieme laddove sarebbe stato molto facile perdersi, le lusinghe di questa società, che a un certo punto ho chiamato e individuato come consumistica arrivando dal comunismo, erano molto forti, sarebbe stato facile rimanerne in qualche modo vittima. Dal comunismo al consumismo è poi anche il titolo che ho dato alla prima raccolta di poesie. Testi scritti tra l’86 e il ’99, alcuni in Romania, ma poi riscritti in Italia, ci tengo a precisarlo perché non li ho tradotti, ma ho cercato di riscriverli direttamente in italiano provando a rivivere e simulare le situazioni che mi avevano stimolato e suggerito quei pensieri allora. Infatti compongono il capitolo dedicato al passato Repubblica Socialista Romania, proprio così s’intitola il punto d’inizio. Poi ci sarà l’incontro con l’Italia, l’approdo in quello che poi avrei chiamato il “pianeta diverso” dove mi sarei sentito in qualche modo “allunato”. Passano tra queste due antitesi del comunismo e del consumismo anche altri capitoli i miei “studi”, le “riflessione”, mi ero autodefinito l’ “osservatore romeno”, giocando con la vocale e….Comunque come dicevo, la scrittura per me è stata terapeutica, un autore rumeno diceva: “ci si cura come si può” e la scrittura era tra l’altro la cosa meno dispendiosa. Avevo anche una grande voglia di comunicare, di fare sapere ai miei amici, nelle serate un po’ morettine in cui ci si ritrovava a parlare di cinema, filosofia…che non venivo dal nulla, ma ero portatore anch’io di un bagaglio culturale e questo qualche volta addirittura stupiva perché spesso paesi sconosciuti vengono identificati come inferiori rispetto a quella che si ritiene la cultura maggioritaria o maggiore, Mircea Eliade, autore rumeno emigrato in occidente, diceva che “una cultura piccola come la nostra, ma non necessariamente minore aveva il dovere e il diritto di abbeverarsi ad altre fonti”, motivo per cui i suoi passi lo hanno portato in India, ma anche in Italia, aveva deciso di dubitare delle interpretazioni e di andare direttamente alle fonti. Il mio rapporto con la scrittura è continuato, ed ho recuperato quel piacere di giocare con le parole che avevo anche in Romania, forse allora scimmiottando un po’gli autori più famosi, ma come diceva Galileo, “non si impara a suonare l’organo da chi lo ha fabbricato, ma da chi lo suona”, ed io sono debitore a parecchi autori, come sono debitore, e mi piace ricordarlo visto che domani sarà tra noi, a Mia Lecomte, perché Allunnaggio di un immigrato innamorato era un manoscritto che potrebbe essere ancora in un cassetto, l’ho inviato ad un concorso letterario su consiglio di amici, mi è capitato di vincere la sessione di narrativa il premio previsto era di 1000 euro e la pubblicazione dell’opera, non ho mai visto né l’uno né l’altra…Avrei preferito i 1000 euro, detto sinceramente, e dopo qualche anno mi ha contattato Mia per sapere se il libro era stato pubblicato, e se avessi intenzione di farlo pubblicare che lei lo avrebbe presentato a delle case editrici. Le ho detto che, purché non dovessi pagare, per me andava bene, così sono approdato alla Besa Editrice e da allora mi chiamano scrittore e poeta. Avendoci preso gusto, ho partecipato a un altro concorso letterario, ho vinto la sessione poesia e mi è stato pubblicato in questo modo l’altro libro Borgo farfalla, che è un libro sulla migrazione odierna in questo sempre più grande, ma sempre più ristretto villaggio globale. Ho parlato dei premi vinti, non certo per esibizione di me, ma perché dovevo parlare in qualche modo del mio percorso letterario e delle mie pubblicazioni, da questo punto di vista condivido l’idea di un autore rumeno, Norman Manea, il quale a proposito dei concorsi letterari diceva che “a differenza delle gare sportive, dove le performance si misurano spesso col metro e col cronometro, nei concorsi artistici la valutazione è più difficile, raramente è perfetta”, sarà capitato anche per questo il fatto di vincere qualche concorso letterario. Aggiungerei soltanto qualche commento rispetto a quello che è stato detto prima del mio intervento; Julio ha parlato di “energie assopite” e mi veniva in mente la necessità di una sana inquietudine oggi più che mai da parte degli intellettuali, degli operai e di tutti coloro che hanno a cuore in qualche modo le relazioni sociali, quelle che oggi tanto ci preoccupano. A quanto pare la Dottoressa Bernardi ce lo ha illustrato molto bene la storia si ripete e purtroppo non è neanche così tanto conosciuta dalle nuove generazioni e se non è conosciuta certi orrori si ripeteranno. Sono contento che Sagarana abbia scelto la strada del dialogo, del fare “con” e non più “per” gli scrittori migranti, del coinvolgere in uno stesso spazio scrittori italiani e non e vi posso assicurare che Julio preparava questa idea già da tempi non sospetti. In Italia sono ormai 20 anni che si parla in seminari e convegni di migrazione senza che ci sia alcun immigrato e spesso gli immigrati si trovano a parlare di italiani senza che ci sia un solo italiano presente. La strada del costruire “con” può evitare davvero dei tristi malintesi e fraintendimenti. Un aneddoto interessante sul nostro stato di immigrati. Un giorno uscendo dall’ospedale con in mano il referto clinico di una visita che avevo fatto, mi cade l’occhio in basso dove vedo che era stato annotato “da 15 anni in Italia”. Forse lo hanno scritto perché esigevo, da contribuente iscritto al servizio sanitario nazionale, certe prestazioni mediche pubbliche senza dover ricorrere ai servizi privati. Ma la cosa mi colpì a tal punto che scrissi un articolo per la stampa e per gli operatori sanitari chiedendo di aiutarmi a capire se essere in Italia da 15 anni era una grave malattia pregressa oppure un certificato di buona salute… Si è parlato del partire, perché partire? Beh, io posso dirvi perché sono partito io. L’ho fatto perché avevo soprattutto voglia di conoscere, di approfondire gli studi che economicamente la mia famiglia non avrebbe potuto sostenere e di libertà. Ma penso che del nostro migrare dovremmo fare sempre una narrazione onesta, spesso si ritorna in patria e si da una versione edulcorata rispetto a quella che è la realtà dell’Italia e questo crea, insieme alle immagini della televisione, facili illusioni e conseguenti drammatiche delusioni in molti che si apprestano a partire. Prima Livia Bazu, qui tra noi, mi diceva “scriviamola una guida per il migrante romeno!” e io le ho risposto che ce n’erano già abbastanza di guide, per gli affari, per districarsi nel mondo della burocrazia, anche in versione bilingue, ma probabilmente lei intendeva in una prospettiva più veritiera cercare di raccontare quello che non viene raccontato in queste narrazioni disoneste, cercare di presentare l’Italia per quello che è e non per quello che si vorrebbe fosse. Questo richiama al senso di onestà che lo scrittore deve avere anche quando fa un esercizio stilistico, estetico di pura fantasia. Avrei voluto dire molte altre più cose, ma a questo punto concluderei con una mia poesia


La libertà della poesia


Ti ho pensata

E forse un giorno

Ti scriverò


Perché ho tenuto aperti

I confini del mio pensare


Perché hai tenuto aperti

I confini del tuo pensare


Perché abbiamo tenuto aperti

I confini del nostro pensare



Julio Monteiro Martins: Vorrei qui sottolineare come sia importante il contributo della cultura rumena nell’universo europeo. Mihai ha citato Mircea Eliade e Norman Manea, io ricorderei anche, il grandissimo Ionesco, perché mi diverte molto e Cioran, il filosofo del terribile e che da un certo punto è servito da contrappunto a tanto stucchevole buonismo della mia generazione. Sono davvero fondamentali i contributi che ci hanno dato Ionesco e Cioran per la nostra formazione intellettuale di scrittori. Ma mi vengono in mente anche due film attuali bellissimi che vi consiglio caldamente, il primo è il film vincitore della Palma d’Oro nel 2007 di Cristian Mungiu 4 mesi, 2 settimane e 3 giorni che tratta del tema dell’aborto in una maniera forte e coraggiosa denunciando la situazione di crudele illegalità in cui sono costrette le donne in Romania, e l’altro è l’adattamento al cinema di un romanzo di Mircea Eliade fatto da Francis Ford Coppola, Un’altra giovinezza. È un’opera bellissima, la più esistenziale, filosofica e profonda di Coppola, crepuscolare e quasi drammatica a volte.

Apro i dibattiti e faccio io una prima domanda a Mihai. Ho notato, anche dal brano che vi ho letto inizialmente, che la sua opera è impregnata del tema dell’amore e del rapporto uomo/donna, e siccome il mio ultimo libro s’intitola proprio L’amore scritto, mi incuriosiva sapere da lui il perché di questa presenza così forte nella sua opera poetica.


Mihai Mircea Butcovan: Si, anche dal titolo stesso Allunnaggio di un immigrato innamorato si intuisce che l’amore è il tema onnipresente nella raccolta e tratta proprio di una storia d’amore tra un immigrato rumeno e una militante leghista. È una storia vera, anche se fa sorridere, dai parecchi spunti autobiografici, si sa che quando si finisce un po’ “allunato” su un pianeta diverso c’è il pericolo di incontrare degli omini verdi e io li ho incontrati. In una qualunque storia, parto sempre dal presupposto che una persona vada giudicata e apprezzata individualmente e a prescindere dalla propria appartenenza a gruppi religiosi, politici…Io non ho fatto altro che seguire il percorso di questo immigrato innamorato, perché di storia d’amore si tratta al di là di come sia andata a finire. La storia d’amore è pero solo un pretesto per affrontare delle riflessioni esistenziali di più ampio respiro. Nella quarta di copertina della nuova veste grafica di Allunaggio di un immigrato innamorato, un amico, Claudio Mustacchi, ha scritto questo che ora vi leggerò:


“Se si parla di sesso è per raccontare d’amore; se si parla di culture è per generare Cultura. Per chi conosce la differenza la lettura sarà feconda.”

In questo libro credo di aver descritto tutte le fasi di una relazione, dal momento dell’innamoramento a quella, perché no?, del disinnamoramento, e certo il protagonista, non sempre sovrapponibile a me, si è anche comportato come un disgraziato, perché a tutti sarà capitato di avere lasciato a una persona cose positive, ma anche, a volte, cose negative. Ora vi leggo, per rispondere sempre alla domanda di Julio altri due miei testi


Ipotesi di necrologio


“Nuvoloso” dice la prognosi.

“È grigio, triste” a sentire gli amici

“Pazzia” i posteri

“Un folle innamorato” la mia sposa.


E poi questo pezzetto che sono i primi versi del capitolo VI sull’amore del libro dal Comunismo al Consumismo


Mandarti con un bacio

a fare colazione.

Ti porto qualcosa – mi chiedi

Ritorna – rispondo.


Marta Sapienza: la mia è una domanda un po’ generica, ho letto sul sito della Sagarana le edizioni precedenti del seminario e mi sembra di aver capito che tra voi scrittori c’è un certo malcontento e un’insoddisfazione riguardo all’appellativo “migranti”. Ora, partendo dal presupposto che le differenze arricchiscono, vorrei sapere se non sia giusto chiamare gli scrittori migranti appunto “migranti” e vedere in questo un’accezione completamente neutra di scrittori che apportano contributi nuovi e validi proprio partendo dalle loro differenze culturali.


Julio Monteiro Martins: Si, prima di sapere cosa ne pensa a riguardo Mihai, vorrei precisare che secondo me, tra gli scrittori migranti non c’è un malcontento riguardo alla parola migrante, anzi noi pensiamo che quella del migrante sia la condizione intrinseca all’uomo contemporaneo, indipendentemente che sia migrante o no, cioè è la condizione postmoderna per eccellenza, proprio da un punto di vista esistenziale, anche per chi non è mai partito dalla propria terra natale. Quello che forse tu hai identificato come rifiuto è la ghettizzazione dell’etichetta migrante, come se fossimo una sorta di gruppo di artisti, di scrittori che devono essere analizzati all’interno di una campanula culturale e che non possono integrarsi all’interno di un universo concettuale più esteso: quello degli scrittori italiani, o meglio quello degli scrittori punto e basta. È quello che noi, con il seminario della Sagarana stiamo cercando di cambiare. Quindi migrante come condizione universale si, ma migrante come etichetta di eccezione no.


Mihai Mircea Butcovan: Si, migrante dovrebbe essere un’ approfondimento semmai e non una discriminante. Posso citarvi il caso di Cioran di cui Julio accennava prima. Beh, lui viene definito da molti critici come un filosofo franco-rumeno, a me è capitato solo una volta di trovare scritto sul programma, autore italo-rumeno e subito qualcuno mi chiese se ne fossi infastidito, sinceramente la cosa non mi importava, ma tornando a Cioran, autore dunque franco-rumeno non penso che questa puntualizzazione vada a togliere qualcosa alle sue profondissime riflessioni, lui diceva di se stesso, “non ho inventato nulla, non ho fatto altro che essere il segretario delle mie sensazioni” e molto di quello che ha scritto, l’ha scritto in francese, pensate che quando è andato a Bucarest e si è accorto che molti suoi colleghi parlavano un francese migliore del suo, si è sentito un po’ in ritardo, quando poi si è trasferito a Parigi, capendo che non avrebbe mai perso il suo accento ha promesso che sarebbe riuscito se non a parlare almeno a scrivere come i francesi o addirittura meglio di loro. Mario Andrea Rigoni che ha scritto la prefazione della versione italiana di Squartamento diceva, “rumeno, da decenni a Parigi scrive il più bel francese che si possa leggere” e credo che possa essere una valutazione abbastanza universale proprio perché fatta da un italiano e quindi da un arbitro imparziale. Questo per sottolineare che con un libro in mano di Julio a un lettore serio gliene importa poco se si tratta di una traduzione o di un libro scritto direttamente in italiano, semmai può essere un valore aggiunto e una piacevole scoperta il sapere che il libro è stato scritto direttamente nella lingua in cui si legge, un approfondimento, non certo una discriminazione. Sul muro di Berlino una volta si poteva leggere questa bella frase:


“Il tuo Cristo è ebreo, la tua macchina è giapponese, la tua pizza è italiana, la tua democrazia greca, il tuo caffè brasiliano, la tua vacanza turca, i tuoi numeri arabi, il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero”


Livia Bazu: Quando si dice italo-rumeno, franco-rumeno, la questione, secondo me, sta in questo trattino, ovunque si metta, tra qualsiasi italo e qualche cosa, franco e qualche cosa. Sono i meticciati, le contaminazioni, di qualsiasi genere che oggi ci fanno rivedere anche la storia letteraria e la storia di prima come continuo meticciato e continua mescolanza. Eugene Ionesco è francese, è rumeno? non è importante, ciò che è importante è che ha vissuto una situazione di estraniamento tale che gli ha consentito di giocare con la realtà in maniera talmente surreale che possiamo leggere questo anche come frutto di un suo “allunaggio” a Parigi, no? Il nucleo sono queste esperienze di estraniamento, sradicamento, di uscita fuori dai confini dove si addomesticava la realtà, e dove ci si costituiva in gruppi umani definiti che si difendevano dall’invasione di altri gruppi umani, perché erano anche questo le culture, non solo, ma anche. Dunque si deve considerare la condizione del migrante, come diceva giustamente Julio, come condizione universale, come diceva anche un nostro amico comune Pape Kanouté “gli uomini vanno e vengono, sono sempre andati e sempre andranno”. Non è cambiato nulla rispetto a 3000 anni fa quando una tale comunità si spostava di qua e di là. Semmai noi siamo condizionati dall’impostazione ottocentesca della nazione, stato, lingua, questa corrispondenza monolitica non è più antica dell’Ottocento però. Già nel ‘700 europeo c’è una concezione estremamente fluida del territorio, del plurilinguismo, etc… Perciò questa concettualizzazione come è stata sradicata in 100 anni, potrebbe essere smantellata ora in meno di 100 anni. È questa impostazione monolitica che è contingente!

Julio Monteiro Martins: Se non ci sono altri interventi, vi saluto e ci vediamo domani!







Note

1 Pour une littérature-monde, Sous la direction de M. Le Bris et J. Rouaud, Paris, Gallimard, 2007.

2 Ivi, p. 25. Qui e altrove, la traduzione è di chi scrive.

3 Ivi, p. 34.

4 Ivi, pp. 34-35.

5 Ryszard Kapuscinski, Rencontrer l’Etranger, cet événement fondamental, «Le Monde diplomatique», gennaio 2006.

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