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Programma della seconda sezione del Seminario

Intervento della scrittrice Mia Lecomte – 10,30

Intervento della scrittrice Jarmila Ockayová – 11,30





2° giorno - Mercoledì 09 luglio 2008 ore 10,30 Sala Maria Luisa


Julio Monteiro Martins: In questo nostro secondo giorno di lavoro ho il piacere di presentare due grandi scrittrici che ho avuto modo di apprezzare durante il corso degli anni, Mia Lecomte, mia preziosa amica e complice letteraria da tanti anni, oltre a poetessa di enorme valore e profondità, una poesia che come poche ho letto, approfondisce gli aspetti più profondi e sottili, le zone di luce e le zone d’ombra dei rapporti umani. Ho portato un libro suo, qui con me oggi, che s’intitola Autobiografie non vissute ed è un libro straordinario, in più Mia ha delle caratteristiche personali che la rendono una sorta di ponte tra il mondo della letteratura migrante e quello stanziale, perché è una scrittrice legittimamente italiana, doc diciamo, ma allo stesso tempo è stata cresciuta in un ambiente di lingua francese, anche il padre, Yves Lecomte è un poeta che ho imparato ad ammirare, di un umorismo molto fine, dunque la lingua letteraria di Mia è stata il francese e solo successivamente l’italiano, per questo il suo è un profilo molto interessante, di “confine”.

E poi abbiamo Jarmila Očkayová , scrittrice di origine slovacca, anche lei ha scritto romanzi bellissimi, di grande densità. Parlavo ieri con Alessandra, la mia compagna, che parecchi anni fa, in tempi per altro non sospetti, aveva letto il libro di Jarmila Verrà la vita e avrà i tuoi occhi, (e questa è la testimonianza più valida del lettore comune) e mi diceva come il libro l’avesse toccata e le avesse fatto vedere i suoi rapporti con le amiche in maniera diversa. E questo è il fine dello scrittore per eccellenza, quello che cambia la vita del lettore sconosciuto che si avvicina alle sue opere in maniera spontanea. Jarmila recentemente ha scritto Occhio a Pinocchio, ha ripreso un libro della grande tradizione toscana, Pinocchio e l’ha rivisitato, ma sarà lei stessa più tardi che ce ne parlerà. Allora è con grande gioia e piacere che ricevo tra noi queste due grandi scrittrici. Grazie, passo la parola a Mia Lecomte.


Mia Lecomte: La cosa terribile di questo seminario è che qualsiasi stupidaggine si dica viene registrata! Mi viene un po’ da ridere, perché io dovrei essere l’esperta, anche Jarmila mi ha detto ‘parla tu per prima che sei l’esperta’, ma di che cosa non si capisce! Dunque pensavamo, io e Jarmila, di passarci la parola, senza fare ognuna di noi un intervento monoblocco. Julio accennava a una condizione mia di confine, ed effettivamente è così, un po’ in tutti gli aspetti della mia vita purtroppo, o per fortuna non lo so, mi ritrovo sempre tra due “cose”, e va a finire che alla fine poi non sono nessuna delle due, tutto a discapito mio. Ma un aspetto sul quale credo di soffermarmi oggi è l’altra mia doppia anima. Infatti sono si, una poetessa, cerco di esserlo, mi sembra di esserlo, provo a non esserlo a volte, e dall’altra parte mi occupo anche editorialmente di letteratura. Questo doppio aspetto è importante, soprattutto per quello che riguarda la letteratura della migrazione, perché mi permette di essere dentro e fuori questo fenomeno e di valutarne un po’ anche le schizofrenie. Prima di parlare di me, che mi piace sempre poco, vorrei fare una sorta di amichevole bilancio con voi. Dunque, sono passati più di quattro anni dall’ultima volta che sono venuta al seminario degli scrittori migranti di Lucca e venendo qui oggi in autobus, che ho sbagliato a prendere perdendomi come mio solito, ho avuto un bel po’ di tempo per pensare…Ebbene cosa è successo in tutti questi anni? Beh, sono accadute molte cose, oltre che nella mia vita personale, anche per quanto riguarda la letteratura della migrazione. Parlando da scrittrice e da editore ho curato per anni, dal ’96 in poi, con la collaborazione di Francesco Stella, la collana Cittadini della poesia che si occupa appunto dei poeti della migrazione in italiano. Partita con quaderni antologici divisi per aree geografiche, i quaderni poi si sono evoluti, sono diventati monografici con poeti che avevano la forza poetica per reggere una raccolta intera, e adesso la collana sta diventando ancora un’altra cosa, di cui parlerò. Dal punto di vista emotivo, umano, affettivo, che poi purtroppo è sempre il mio punto di partenza in tutte le cose che faccio, personalmente avverto come una stanchezza, sono delusa e anche stufa forse, per quello che è successo in questi anni e di dove siamo arrivati. Mi spiego: tre giorni fa ero a un piccolo convegno sugli scrittori migranti a Camogli, dove io presentavo il mio libro per bambini Come un pesce nel diluvio, pubblicato dalla Sinnos, un libro che parla ai più piccoli, tra l’altro, di globalizzazione. Insomma dicevo, prima che io arrivassi, c’era stato l’intervento dello scrittore algerino Tahar Lamri, e nel mio stesso giorno l’intervento di Sarah Zuhra Lukanič, scrittrice croata bravissima, mia amica, che è stata intervistata da un sociologo, che tra parentesi non aveva letto il libro, e già qui la dice lunga. Il libro di Sarah racconta di una storia d’amore nella Sarajevo assediata del 1992, con un’impostazione volutamente non politica, ma molto intimista. Invece chiaramente le due domande poste dal sociologo erano una sulla guerra, sulla situazione attuale, questioni che lei aveva accennato solo marginalmente, e la seconda : “Ma voi non vi rendete conto di quanto gli italiani siano stupiti che voi scriviate in italiano?!” Sarah, che è molto forte e decisa, ha risposto giustamente per le rime, e io ho pensato tra me e me “Ma siamo ancora a questo punto?!”. Sono passati dieci anni e ancora, ogni volta che c’è un convegno nuovo, ogni volta che c’è una persona nuova che si approccia a questo tema, si torna indietro di dieci anni. Lo stesso percorso, con le stesse domande, le stesse questioni… ed è chiaro quindi che chi “è in ballo” da un po’ di anni sia stufo. Un’altra cosa seccante, sempre a Camogli: eravamo a tavola e un signore italiano si è rivolto a Gabriella Ghermandi, scrittrice etiope e le ha detto: “Bello il tuo ultimo libro, è scritto in un ottimo italiano, è merito tuo o del tuo editor?” Io sono rimasta allibita e pensare poi che questo discorso dell’editor non riguarda solo gli autori stranieri, ma anche gli italiani! Se addirittura una casa editrice che non nomino, arriva a mettere nei propri libri editing di… con il nome dell’editor quasi grosso come quello dell’autore, è davvero un problema.C’è da chiedersi: ma allora che cos’è la scrittura, la qualità della scrittura che peso ha dal punto di vista editoriale? La forza della letteratura della migrazione, che è comunque una letteratura forte eticamente e portatrice di storie, sta anche nella scrittura, ci sono grandi scrittori fra questi autori, non solo, ma ci sono. La grande innovazione doveva e deve essere anche linguistica. Perché invece si prendono questi nuovi autori solo come un serbatoio di storie? Soprattutto da parte delle grandi case editrici, c’è una fame assoluta di queste storie, che vengono carpite agli autori, viene fatto un editing pesantissimo e questi sono i libri che escono, reclamizzatissimi. Poi una volta che è stata sfruttata la storia, il cammino che fa il suo autore è secondario. La narrativa migrante era, sarebbe, una grossa possibilità di rinnovamento, parlo qui da italiana, per la nostra letteratura, anche dal punto di vista linguistico e invece è un tram che stiamo perdendo, quest’aspetto non interessa minimamente, interessano solo le storie. E questo è un discorso valido anche per gli italiani: la qualità della scrittura dov’è, dov’è finita? Un’amica, agente letteraria, mi diceva che riceve ogni giorno tantissimi manoscritti, novanta su cento sono da buttare, dieci sono buoni e di questi dieci spesso è costretta a scartare quelli scritti bene perché sa che quello che interessa è la storia. Quindi laddove la storia non sia così evidente, anche da un punto di vista cinematografico, perché questo è diventato un grosso mercato per l’editoria, la possibilità dell’adattamento di un romanzo per il cinema, bada bene di un romanzo e mai di racconti, la qualità della scrittura diventa irrilevante. Viene presentata una bella storia, lettori non avvezzi alla buona scrittura, ci si appassionano, questa storia, se l’editore è fortunato diventa pure un film e la voce dello scrittore in tutto questo dov’è finita? Ecco, questo mi ha dato da pensare e mi sono chiesta che cosa fosse la letteratura della migrazione, che cosa fosse diventata e che cosa fossero gli scrittori italiani… Si parlava con Julio della necessità di organizzare un incontro con gli autori italiani, ma siamo tutti nella stessa situazione, che è una situazione poco felice, in cui il mercato editoriale è comandato da queste regole. Un’altra cosa a cui ho pensato è l’impoverimento che c’è stato lungo questi anni dei rapporti umani. Siamo partiti anni fa come un bel gruppo di amici, con l’entusiasmo di fare delle cose insieme, di portare avanti una letteratura forte, importante. Questa cosa si è un po’ sfaldata, perché c’è una rincorsa agli editori… Si diceva: “Ah, ma magari si può invitare tizia?” “Ma no, ormai pubblica per la casa editrice tal dei tali e non ci viene più a questi incontri..!”.Insomma: chi ci viene a questi incontri, i soliti? E chi sono i soliti? Quelli che non sono arrivati alle grandi case editrici? Gli “sfigati”? Non si capisce. E quelli che sono arrivati alle grandi case editrici sono davvero i migliori? E poi, chi è rimasto ad alimentare il dibattito? Quindi anche i rapporti umani che si andavano intrecciando in dibattiti come questo si sono un po’ sviliti. Sono tornata da questo incontro a Camogli con una certa tristezza su come tutte le cose della vita alla fine finiscano e come stia morendo anche questa. Ecco prima di parlare di me e della mia opera, mi soffermerei su questi aspetti, sentendo anche Jarmila cosa ne pensa.



Mia Lecomte, Julio Monteiro Martins, Jarmila Očkayová

Jarmila Očkayová: Io mi trovo d’accordo con quello che è stato detto da Mia Lecomte, anche se al di là di questi convegni, non ho mai frequentato abitualmente il gruppo degli scrittori cosiddetti migranti. Dico cosiddetti perché non amo gli aggettivi nella letteratura, il seminario della Sagarana doveva essere un confronto di tre giorni tra scrittori migranti e scrittori stanziali o italiani, io credo che nel momento in cui adottiamo una stessa lingua, che uno la usi come lingua madre, che l’altro la adotti siamo comunque scrittori italiani…di origine algerina, di origine slovacca, di origine brasiliana, ma , lo dicevamo ieri a cena con Julio, la nostra patria è la lingua e poi la letteratura. Personalmente credo che siamo tutti stanziali e tutti nomadi o migranti, siamo stanziali nella letteratura perché ci accomuna l’amore per la letteratura e siamo nomadi della parola e dell’immaginario, se accettiamo la definizione di letteratura come ciò che fugge dai recinti, dai preconcetti, dai luoghi comuni, e da tutto ciò che viene imposto come aprioristicamente acquisito. Ed è per me addirittura necessario questo nomadismo della letteratura. La vera letteratura è quella che oltrepassa non solo i confini geografici, ma anche quelli temporali, la vera prova del fuoco è quella del tempo. Pensate a come entra la letteratura nel linguaggio comune, nelle idee che ci accompagnano tutti i giorni, certi personaggi diventano quasi degli archetipi, come ad esempio Madame Bovary di Flaubert o Lolita di Nabokov o Don Chischiotte di Cervantes. Ma anche per esempio la petite madeleine di Proust che è diventata sinonimo della riattivazione della memoria.

Addirittura gli aggettivi, kafkiano per dire assurdo, paradossale e via dicendo. Poi in questa comunanza siamo tutti diversi, la materia prima della letteratura è la diversità, la letteratura è un continuo duetto e qualche volta duello tra identità e alterità. Mi arrabbio spesso quando sento dire i miei amici o i miei lettori, che la scrittura creativa è una specie di vacanza dal mondo, secondo me scrivere, come leggere è lasciarsi attraversare dal mondo, e poi rielaborarlo, reinterpretarlo facendo si che illumini qualcosa di assopito dentro di noi. Questo non significa scrivere libri autobiografici, anzi per me la verità si raggiunge più facilmente tramite l’esercizio della fantasia e in questo la letteratura è salvifica, non salva l’umanità forse, ma salva l’individuo, salva qualcosa dentro di noi che senza i libri sarebbe quanto meno molto, ma molto più povero. Una metafora che mi piace molto è questa, la scrittura serve per far tacere il chiacchiericcio del mondo, far azzittire il brusio e farci ascoltare il ticchettio delle nostre anime. Se mi consentite vorrei leggervi un paio di paginette del mio ultimo libro pubblicato Occhio a Pinocchio, a cui accennava prima Julio e come diceva si tratta di una rielaborazione liberissima del Pinocchio di Collodi nel senso che prendo a prestito i personaggi, alcuni avvenimenti che mi hanno affascinato sin da piccolina, e poi vado oltre. La particolarità del libro riguarda il fatto che è Pinocchio in prima persona che si racconta, è lui l’io narrante, dopo 125 anni di interpretazioni adesso dice basta, adesso racconta lui com’è andata! E racconta come ha fatto a diventare uomo, attraverso una serie di esperienze positive e negative e di sensazioni, dall’amore, all’incanto, al fascino per il sapere, al tradimento degli amici, all’impotenza di fronte ai raggiri. Diventerà uomo una volta imparato a introiettare queste esperienze, a farle diventare una sorta di lenti di ingrandimento attraverso le quali vedere la propria essenza di uomo. Il mio Pinocchio viene scolpito direttamente nel bosco e arriva alla casa di Geppetto per primo, Geppetto invece viene arrestato, ma non vi sto qui a spiegare le motivazioni… Nella casa fa la sua prima esperienza di specchiarsi che poi ripeterà una volta che Geppetto torna a casa e usa lo specchio come metafora della ricerca di se stesso.


“Aprii anche un armadio e vi trovai una camicia di Geppetto. E l'indossai.

Mi andava grande: le mani sparivano dentro le mani­che e l'orlo mi arrivava fino a metà dei polpacci. Abbot­tonandola, scoprii che anche la mia felicità era grande, così grande da ghermirmi anche da metà dei polpacci in giù. E allora mi misi a ballare per la stanza. E tra giravol-te e balzelli, piroette e saltelli, all'improvviso mi ritrovai davanti a un pozzo verticale. O per meglio dire - come avrei capito più tardi - davanti a uno specchio.

Era vecchio, opaco e cosparso di macchie scure e mi rimandava l'immagine nebulosa di una camicia che sta­va sospesa a mezz'aria, ritta, e dal colletto le spuntava una nuvola grigia, come quelle dei temporali estivi... Sì, insomma, proprio all'altezza della mia testa sullo spec­chio c'era una di quelle macchie e mi impediva di vede­re riflessa la mia faccia. Me ne restai lì impaliate, indeci­so se spostarmi di lato o chinarmi, per schivare la mac­chia. A farlo avevo un certo timore, dal momento che mai prima di allora mi ero specchiato, e pensavo: forse la propria faccia è meglio immaginarsela e basta. Soprat­tutto se la faccia è quella di un burattino di legno che vorrebbe ricalcare le impronte degli uomini... E così me ne stetti lì a cullarmi dentro quella camicia, a oscillare avanti e indietro attento a non scostare la testa; e però me la accarezzai, la testa, più e più volte, coi polsini ciondolanti.

Sul tessuto bianco della camicia erano stampate sottili righe verticali di due colori, azzurro e lillà. E sembrava­no dei fili, proprio come quelli che reggono un burattino. E io, burattino senza fili e senza faccia, immaginai di es­sere attraversato dai fili azzurri e lillà di Geppetto e ne fui così felice che mi misi a ridere da solo e dissi alla macchia scura nello specchio «Ciao, Geppocchio!», e poi ancora «Ciao, Pinetto!»

(…)

In breve: in quella casa io ero felice. In quella casa avevo conosciuto l'armonia, la possibile armonia degli uomini, e potrei dire senza stonature se non ricordassi un piccolo fatto, proprio piccolo piccolo, e che tuttavia mi procurava sempre un sottile disagio.

Il fatto riguarda quella faccenda dello specchio di Geppetto. Quando avevo deciso di guardarmi la faccia, qualche giorno dopo il mio arrivo, di vedere finalmente il suo riflesso, ci provai varie volte: mi piazzavo davanti a quello specchio e mi scostavo di lato, e mi piegavo all'ingiù e mi alzavo in punta di piedi... insomma, con un mucchio di flessioni e allungamenti e torsioni cercavo di aggirare quella macchia scura che mi impediva di spec­chiarmi, e però me la ritrovavo sempre davanti. Era sempre lì, a far sembrare la mia faccia una nuvola da tempo­rale estivo.

All'inizio la cosa non mi pesò più di tanto; la mia cu­riosità era volubile e comunque distratta e assorbita da mille altre cose che stavo scoprendo accanto a Geppetto. Ma poi, col tempo, diventò una specie di ossessione e tra una cosa e l'altra correvo di continuo davanti allo spec­chio, per fare un'ennesima prova. Ovviamente Geppetto si era Accorto subito del mio scombussolamento, ma non ne parlava. Fino al giorno in cui, esasperato, sbottai:

- Ma che cosa devo fare per potermi guardare la fac­cia?!

Allora lui, tranquillo, mi rispose:

- Devi tirarti fuori l'anima.

- E come si fa?

- Te lo dirò domani.

All'indomani Geppetto uscì di casa presto e tornò con il famoso abbecedario. Me lo mise tra le mani e mi disse:

- Comincia da qui.

- Qui dentro c'è la mia anima?

- No, qui dentro c'è l'alfabeto.

- E nell'alfabeto c'è la mia anima?

- Nell'alfabeto c'è il mondo. E ci sei tu.

- E la mia anima?

- Per attingere dal pozzo ci vuole una secchia e una carrucola; per aprire la porta chiusa ci vuole una chiave e una mano che la giri; per...

- Va be', va be', ho capito! Ma non è giusto.

- Non è giusto cosa?

- Che tutti gli altri possano cominciare guardando la propria faccia e che io invece debba passare attraverso tutto questo...

- E tu sei proprio sicuro che tutti gli altri vedano nello specchio la loro faccia?

- Perlomeno non vedono una macchia scura!
- Ripeto: ne sei proprio sicuro?”



Mia Lecomte: Per quanto riguarda l’evoluzione della mia anima editoriale, i quaderni, dei quali vi ho parlato prima, si stanno trasformando in una nuova avventura… Sto pensando a dei quaderni dove, nello stesso numero, comparativamente, vengano presentati autori stranieri in altre lingue, per fornire una panoramica europea, quindi ispanofoni, francofoni, italofoni… In modo da cercare di sprovincializzare un po’ questo fenomeno così com’è vissuto in Italia. Perché è vero quello che dice Jarmila, che se si scrive in una stessa lingua e siamo tutti scrittori italiani, ma ci sono delle caratteristiche, che sono oltretutto positive, che differenziano la letteratura prodotta dagli autori stanziali dalla letteratura prodotta da artisti stranieri, e queste vanno tutelate. Perché annacquare questo fenomeno all’interno di un universo dove tutti si è uguali è un peccato. Forse la soluzione è agganciare la letteratura della migrazione qui in Italia ad altri paesi europei, dove tra l’altro se ne è parlato prima che da noi. Due anni fa a Roma Poesia, l’antologia che ho curato Ai confini del verso pubblicata da Le Lettere è stata presentata con una analoga antologia pubblicata in Francia, con venti autori stranieri francofoni di un’associazione francese che si chiama Confluences poétiques e con la quale abbiamo cominciato a collaborare. È un’ idea che ho coltivato con Daniela Rossi, che tra le varie cose organizza una sessione all’interno di Parma Poesia, che ha invitato il primo anno i francofoni, l’anno scorso gli italofoni e quest’anno gli anglofoni di cui si è occupato Andrea Sirotti, che è qui tra noi, e l’anno prossimo saranno i germanofoni, cercando di allargare questa famiglia in modo che certi meccanismi un po’ perversi che si stanno creando sul suolo nazionale vengano raddrizzati ampliando le prospettive di questa letteratura. Per quel che riguarda la mia attività, io ho sempre scritto poesia. Mio padre, come ha detto Julio, è un poeta che scrive in francese e ho iniziato la mia carriera letteraria proprio come “traduttrice”, o almeno “editor”, cioè aiutando il mio papà a trasferirsi al meglio in italiano. E sulla domanda: “Ma tu come diresti questo?” si è strutturato anche il nostro rapporto affettivo. Che poi ho riprodotto negli incontri con gli scrittori stranieri di cui parlavo prima. E comunque, al di là della sensazione di sfaldamento, con molti di essi ho continuato e continuo a rimanere in contatto. Con Julio ad esempio, devo confessare che il titolo della raccolta di racconti inediti che ho nel cassetto e anche quello di Autobiografie non vissute sono venuti fuori da nostri scambi di messaggi. Julio è stato, è ancora ma soprattutto è stato, un’importantissima fonte di riflessione per me. Una volta mi ricordo quando Armando Gnisci stesso a un congresso disse: “Julio mi da sempre da pensare!”. È vero, anche a me Julio ha dato sempre da pensare, adesso che ci sentiamo di meno mi manca questo pensare, ma ho mio figlio Alexis che è subentrato al suo posto! Diciamo pure che questi autori, di cui sono diventata amica mi hanno salvato dal mio percorso perché sarei morta se avessi avuto a che fare solo con italiani! Pensavo un’altra cosa sul mio autobus stamattina, tanto per finire di rovinarmi definitivamente!, che mentre in realtà nel mondo della poesia italiana ci sono ovviamente degli odi delle rivalità però è tutto molto infantile, siamo sempre tutti sospesi tra il suicidio e l’estasi amorosa, e c’è una qualità umana un po’ eccentrica che rimane in sottotraccia, invece nell’universo della narrativa si gioca pesante, è un’altra faccenda, perché ci sono gli editori grossi, ci sono i premi… i soldi. Ho fatto capolino e mi sono detta:” Ma qui ci si fa del male sul serio! Fammi tornare fra i miei amici poeti, noi ci rubiamo solo le bambole!” Comunque, a parte gli scherzi, accanto alla poesia che continuo a scrivere, ho sperimentato anche il racconto, e ho provato ad estendermi in un romanzo, poi ricondotto in un racconto, perché evidentemente non è la mia misura naturale. Scrivo poi libri per bambini, perché ho tre figli che mi danno ampi spunti, man mano che crescono probabilmente ne farò sempre meno. La nuova raccolta poetica s’intitola invece Terra di risulta ed è divisa in sezioni. C’è una sezione che si chiama Dei vostri luoghi, e questo ‘dei vostri’ rappresenta la mia incapacità di appropriarmi di una geografia: sono perennemente alla ricerca di un luogo che sia mio e molto probabilmente l’ho già perso, me lo sono fatto scappare, non l’ho riconosciuto, come succede con gli amori, o forse non c’è, non deve esserci... ; poi c’è una sessione chiamata Bestiari domestici che sono tutti monologhi di animali celebri, da Moby Dick a Topo Gigio; poi c’è una sezione chiamata Oggetti naturali, la prima ad essere partorita ed è una ricognizione nel mondo degli oggetti pubblicitari della mia infanzia, il carosello con tutti i suoi protagonisti; e infine l’ultima che si intitola Diario e rilievo che sono vie del mio vissuto, senza specificarne la città, è la cartina stradale della mia vita. Ora vi leggerei alcune poesie tratte dal libro del 2004 Autobiografie non vissute. Sono comprese nella sezione Metamorfosi engadinesi.


CHASTE'


La penisola è il compromesso ideale
fra  prerogativa e assenza,
è quello che rimane della terra
che ha finito le ragioni per essere
tanto intensamente terra,
l'impasse intralpina dell'anima
che non osa tentare da capo
lo slancio e l'arresa.
E si sparge, si disfa
nel rendersi acqua da sé,
lacrima lenta compresa
a riassorbirsi nell'occhio.
Non è mai stata arca
stretta a ridosso del monte
e non può riconoscere diluvi.
Il conflitto insanato
di tutti i suoi giorni
sta in un piccolissimo scarto
fra la geografia e la storia,
una mappatura compresa di sé
e quel tempo mai ritrovato,
tra il corpo e il suo gesto
il desiderio ancora sommerso
e uno spreco di tenerezza.


FEX


Abiti malamente la parola data
seduta di fronte alla valle
lasciato Sils alle spalle
e là in fondo il ghiacciaio.
La parola che hai dato a te stessa
non credevi poi tanto di fretta
e a un tratto  si fanno pressanti
i gerani alla sua finestra.
Ti aspetta un esilio d'agosto
la carta di un incessante scalare 
la lingua dei corni ricurvi
un piatto di orzo a minestra.
E intanto rinunci al ricordo
infili risoluta le tasche
si perde qualcosa vitale
ma il resto rimane giù in fondo
schiacciato tra foglia e coltello

perduto lontano dal mare.


ALBULA


Verde, grigia, celeste
sbriciolata sul retro del tacco
viola, bruna, gialla,
a raschiare nello snodo in attrito
bianca, nera, bianca
impastata alla lingua che chiama
rossa, rossa, rossa
più si bagna più dolora nell'etere,
quel che hai smesso ti precede di un giorno
per pietruzze rotolate nel vuoto
se ne andavano e le guardavi saltare
i colori sempre in tono ai colori.
Lo stambecco, il camoscio, la marmotta
il contorno per tre quarti rupestre
hanno ancora nelle ispide pose
la parvenza del qui nulla è cambiato
si può illudersi mantenendosi in quota
per compenso la più anonima meta 

un rifugio che non è mai una casa.


ZUOZ

La teiera di ghisa
che cova il  calore nipponico
nella nicchia accanto all'entrata
non ha mai visto il Tago o la Neva
riflessi dalla vetrina su strada
ma la stessa fontana ghiacciata 
per la solita sete in attesa,
ha delle gondole l'idea inesatta  
di una coppia di colombe arruffate 
in caolino finissimo
a ogni sorso più lievi,
la poltrona in velluto, il tavolino,
il cucchiaino d'argento, il colino,
sol levante sul più immobile intonaco
la teiera è lontana da ogni luogo presunto   
estranea nella roccaforte a bugnato, 
l'apfelstrudel riscaldato di fianco 
con la crema di vaniglia da un lato .
Più  nera sulla tovaglia più bianca.


Jarmila Očkayová :Vorrei richiamare la vostra attenzione su un concetto che coinvolge un po’ tutti, scrittori migranti come scrittori stanziali, e riguarda la lingua. In una recentissima intervista che ho letto su Internet e che è stata fatta a Julio proprio in attesa di questo seminario, alla domanda dell’intervistatrice sul perché uno scrittore oltre al paese d’origine abbandona anche la lingua materna, Julio ha risposto: per restare ancorato al presente. Quella risposta, in apparenza semplice, spalanca la porta su una lunga serie di quesiti fondamentali per ogni scrittore. Perché una volta emigrati, il nostro rapporto con il paese d’origine diventa per l’appunto un rapporto temporale, molto più che spaziale, diventa un rapporto tra il presente e il passato, ha a che fare più con la distanza nel tempo che non con distanze geografiche. Abbiamo nostalgia di luoghi, di persone care, di anni significativi, ma forse più di tutto di noi stessi – di ciò che eravamo in quei luoghi, accanto a quelle persone, a quel tempo. A quel tempo. Perché oggi non lo siamo più, e non lo saremmo nemmeno se fossimo rimasti nel nostro paese d’origine – nessuno è oggi ciò che era dieci o venti o trent’anni fa. E io credo che funzioni così anche per la lingua. La lingua ci accompagna nei percorsi di vita come uno strumento comunicativo ed espressivo, ma è uno strumento vivo, che cambia con noi, ed anche malgrado noi, anche a prescindere dall’uso che ne facciamo personalmente – e quindi, anch’io sono convinta che continuando a scrivere nella lingua madre dopo aver lasciato il paese d’origine si resta ancorati al passato. Certo, lo si può fare, e anche con ottimi risultati – pensate al caso di Milan Kundera, che aveva continuato a scrivere per anni in ceco, pur vivendo in Francia – ma anche lui ad un certo punto ha sentito il bisogno di passare alla lingua francese – dicevo, quindi, lo si può fare, purché si resti consapevoli che così facendo in qualche modo ci si autocondanna ad un isolamento interiore, ad una sorta di ingessatura del pensiero e delle emozioni. Vale a dire, per tornare all’intervista di Julio, si resta disancorati dal presente. Nella vita di tutti i giorni, chi si rifiuta di parlare la lingua del paese in cui vive in qualche modo si autoghetizza. E io credo che per la scrittura valga la stessa cosa. Correndo diversi rischi per così dire metalinguistici. Il rischio di mitizzare il passato, ad esempio, attraverso quella lingua del tempo ma non più del luogo. Leonardo da Vinci un giorno disse: la lontananza si tinge di azzurro. Si ammorbidisce, addolcisce, sfuma, perde contorni netti. E io penso che lo si possa applicare anche all’uso della lingua, in particolare se è legato alla scrittura creativa. Da lontano la lingua materna può mitizzare il passato, il paese d’origine, la propria visione del mondo di allora. O viceversa, tenere vivi i rancori, le recriminazioni, le amarezze, le sofferenze, le stesse cose che magari hanno determinato la decisione di andarsene. Vale a dire, da un lato si corre il rischio di fare della lingua madre uno strumento per crearsi una sorta di Eden perduto, dall’altro lato il rischio di usarla, la lingua, come fosse l’Angelo della Storia di Walter Benjamin – ricordate quel saggio? quella figura – ispirata all’Angelus Novus di Klee – che gira perennemente le spalle al futuro perché continua a guardare il passato, un passato in frantumi che lui, l’Angelo, vorrebbe rimettere insieme, e vorrebbe quindi tornare indietro, ma non può farlo, c’è una bufera che lo spinge verso il futuro, e così, tra lo sforzo di tornare indietro e il vento che lo spinge in avanti, resta immobile – ed ecco l’ingessatura di cui parlavo.

Insomma, io credo, sempre per la mia profonda convinzione che la lingua è qualcosa di estremamente vivo, qualcosa che non plasmiamo continuamente ma da cui a nostra volta siamo plasmati, io credo che scrivere in una lingua diversa dal luogo in cui si vive è come portare un capello di paglia al Polo Nord, o un berretto di lana nei mari del Sud. Voglio dire: c’è uno scarto tra la percezione del mondo – percezione che è sempre immediata, anche se un romanzo lo si ambienta nel medioevo o all’età della pietra – e quella percezione scrivendo diventa la nervatura del racconto, la nostra cifra narrativa – e quindi, dicevo, c’è uno scarto enorme tra la percezione del mondo e la scrittura stessa.

Poi c’è un altro quesito, il rovescio della medaglia: il rapporto con il paese d’adozione e con la sua lingua.

Mentre quello con il paese d’origine è un rapporto con il passato senza più il presente, il rapporto con il paese d’adozione è un rapporto con il presente senza passato, o con un passato parziale, privo di radici – o, per meglio dire, con radici vaganti, radici che vengono da altrove, radici diverse.

E le nostre radici ovviamente non sono solo i luoghi di provenienza, il luogo di nascita, dell’infanzia, eccetera; le radici sono un’infinità di altre cose: le prime emozioni e percezioni del mondo, i primi legami affettivi, il primo abicì dei valori, le prime abitudini cognitive, le prime esperienze, le prime costruzioni dell’immaginario… Tutto questo è un imprinting incancellabile, e guai a noi se non fosse così, perderemmo uno strato preziosissimo, il nucleo stesso della nostra identità.

Dunque, quelle nostre radici diverse possono suscitare le più svariate reazioni: dalle curiosità e manifestazioni di simpatia alle diffidenze se non aperte ostilità. In ogni caso, il problema principale è: come farle convivere con le nuove identità culturali ed umane che si sono stratificate nel tempo attorno a quel nucleo attraverso le esperienze vissute successivamente? Esperienze e, ovviamente, le relative rielaborazioni di quelle esperienze.

In proposito, in un suo saggio Tzvetan Todorov parla di “transculturazione”, una sorta di terzo codice che esclude sia la rinuncia alla cultura d’origine sia l’assimilazione passiva del nuovo tessuto culturale. Dunque, un terzo codice come amalgama, come intreccio di due culture, due immaginari. Ed anche di due lingue. Dal momento che l’uso della lingua non si riduce mai alla sola padronanza lessicale, io sono convinta – e l’ho sperimentato abbondantemente – sono convinta che il mio italiano è intriso anche di tutto ciò che ha rappresentato e rappresenta per me la lingua materna, con tutto il suo retaggio di rimandi e di simbologie, di atmosfere, di risonanze anche inconsce.

Però, scrivere nella lingua materna è un po’ come stare all’interno di una riserva indiana. Quella riserva è sì circondata da un continente umano e letterario ben più vasto, ma quel continente lo si può anche ignorare, e comunque non spaventa, non disturba. In qualche modo si è protetti, anche quando si tratta di una protezione al negativo, che produce passività, automatismi, cliché, sottomissioni alle voghe. Il cambiamento della lingua azzera quel senso di protezione, scaraventa lo scrittore fuori dalla riserva – riserva delle tradizioni, delle appartenenze, dei canoni estetici per così dire “ereditati”. Lo lascia senza certezze, e senza consolazioni. Diventa come un frammento arrivato da un altro puzzle che deve cercare degli interstizi in cui inserire i piedi e la penna, per poter continuare i suoi percorsi esistenziali e per tenere vivo il pensiero creativo.

E allora la vita e la scrittura diventano in qualche modo un sistema di vasi comunicanti, l’una nutre l’altra, e viceversa. Insomma, si diventa molto attenti al fattore umano, ed altrettanto attenti nei confronti della lingua. Ad ogni parola nuova che si impara e poi si usa, ci si chiede: che cosa vuol dire davvero? che cosa esprime? da dove emerge? Ci si muove per anni e anni da palombari della lingua, e sempre tenendo presenti i quesiti esistenziali fondamentali – semplicemente perché quei quesiti vengono vissuti, toccati, giorno dopo giorno, attraverso quella specie di piccola morte che è l’abbandono del paese d’origine, e attraverso la successiva faticosissima rinascita, che è l’adozione di un’altra lingua e di un altro paese.

E siccome la disattenzione alla parola, l’inflazione della parola – strumentalizzata, depotenziata, spesso volgarizzata, deturpata – la parola è una grande vittima dei tempi confusi e limacciosi che stiamo vivendo, già questo sforzo di attenzione, questo sforzo di riportare la parola attraverso la scrittura a ciò che dovrebbe essere, mi sembra un notevole contributo alla letteratura.

Se mi date ancora qualche minuto, vorrei leggervi ancora un breve passo, sempre da questo mio romanzo, Occhio a Pinocchio, perché è un passo dedicato proprio alla parola, al potere della parola:

“… E sospirai: oh, tutto è altro, nel mondo degli uomini. E tutto è doppio. Ogni cosa mischia ordine e caos, chiarezza e enigmi, verità e menzogne, amori e rancori, incanti e umiliazioni, grazia e demonizzazioni. E il mondo è una faccia muta: mai ti spiega ciò che accade davvero.

La mia faccia fu sfiorata dalla brezza, che mi portò un intenso profumo di tiglio. Pensai ancora alla Radura delle due pi e pensai che forse il mondo è questo: pura possibilità. Una faccia muta sì, ma come una lavagna nera corredata di spugnette e di gessetti colorati. Forse il mondo è ciò che scriviamo su quella lavagna, ciò che scegliamo di scrivere, mentre le polveri di gesso scivolano nelle fessure della mensola inchiodata alla base come turisti incauti in un crepaccio montano. E forse per salvare il mondo, pensai, per far durare il mondo non c’è altro mezzo che questo: far durare le parole. Riscrivere su quella lavagna certe parole, e cancellarne altre.

Riscrivere parole veraci per riavere un rapporto verace con la realtà.

Incidervi parole profonde per vivere relazioni profonde.

E la veracità ce la può indicare quel lucignolo che arde dentro di noi – se non ci ostiniamo a ignorarlo – mentre ci consumiamo come tante candeline di carne e ossa.

E la profondità è nascosta nell’ultima goccia di cera, in fondo in fondo, laddove vi è un’assoluta corrispondenza tra pensiero e sentimento, e tra una candelina e l’altra; laddove quell’ultima goccia sovrintende alla vita dell’intera candela, giacché toccherà a lei interrogarsi su quanta luce abbia saputo o potuto diffondere attorno a sé …”



Julio Monteiro Martins: Vorrei innanzitutto porre io delle riflessioni sulla base di quello che è stato detto e poi invito tutti voi caldamente a fare domande. Solo una piccola parentesi, non so voi, ma in quest’ora ho avuto una piacevolissima sensazione di essere a casa, tra persone amiche, ascoltando cose belle e parlando di cose doverose, ho avvertito una sinergia silenziosa. Questi sono momenti preziosi della nostra vita e mi piaceva sottolinearlo, grazie quindi alle mie due graditissime ospiti!

Vorrei riprendere un commento di Mia Lecomte all’inizio quando parlava dello sgretolamento della piccola comunità degli scrittori migranti, o di un abbozzo di comunità perché non si è mai veramente materializzata una comunità…Lei spiegava bene della difficoltà per un artista di imporre la qualità della propria scrittura perché ormai le case editrici sono interessate solo alle storie. Beh, io che accompagno il mondo editoriale da più di 30 anni, posso dirvi che una situazione severa come questa, non l’ho mai vista. Credo che le grandi difficoltà editoriali per gli autori che scrivono testi “di scrittura” come ha detto Mia, elaborati, più profondi è da iscriversi in un più generale impoverimento dell’informazione, c’è cioè uno svuotamento di intelligenza creativa che prima trovava il suo spazio all’interno di una nicchia della società. Prendiamo il cinema italiano degli anni ’50 e ’60 con tutte le sue sperimentazione, qualcuna anche “bellissimamente fallimentare”, ma erano dei tentativi estremamente coraggiosi di rompere dei confini estetici. Quello che mi opprime e che mi preoccupa per il futuro è questo svuotamento assoluto del prestigio dell’intelligenza e senza che nessuno protesti. Avverto una rassegnazione anche da parte di quei pochi che intuiscono questo svuotamento, si legge quindi ovunque una ridondanza delle stesse tematiche, un apprezzamento del luogo comune e degli stereotipi, del buonismo, di una letteratura stucchevole e dolciastra. Questo è apprezzato, mentre qualsiasi abbozzo di complessità e di approfondimento, qualsiasi tentativo di illuminare i lati oscuri, i paradossi e le contraddizioni è evitato accuratamente. Mi chiedo come farà mio figlio Lorenzo, ma anche i vostri figli, a sviluppare una visione di mondo conseguente, profonda senza gli input che la mia generazione ha avuto, senza possibilità di accesso alle informazioni, non possono fare miracoli questi bambini, i concetti, le idee e i canali attraverso i quali queste idee potevano essere canalizzate, parlo delle case editrici, dei cinema d’essai, delle Università (che stanno diventando sempre più corsi tecnici di apprendistato di competenze eliminando il momento della riflessione critica) stanno rapidamente scomparendo o annichilendosi. Che scenario possiamo aspettarci per la costruzione futura della soggettività individuale e collettiva delle prossime generazioni? Questa è la questione che pongo.


Mia Lecomte: In un passato intervento, a questo proposito dicevo che certamente c’è un buco della soggettività, ma le fondamenta sono etiche. Facendo un collegamento con la letteratura, è importante imparare nuovamente ad essere e ad avere, cioè ricominciare dagli ausiliari. è quello che cerco di fare con i miei figli, ed è una lotta pazzesca. Perché c’è tutta una corrente che li porta da un’altra. Credo che da una parte sia anche entusiasmante per loro, avranno il loro bel da fare, meglio una vita in cui c’è da combattere per qualcosa che una dove non c’è da combattere per niente. Alcuni mi dicono: “Ma che coraggio hai avuto a mettere tre figli in questo mondo!” Ed io rispondo semplicemente che servono, anzi una cosa che bisogna inculcargli è proprio questo loro essere indispensabili e vitali, perché senza di loro, e se non crescono in un certo modo, si va a finire davvero male. C’è però una parte di me, inguaribilmente ottimista, che pensa che tutto quello che stiamo vivendo, lo sfaldamento su tutti i fronti soprattutto morale, sia arrivato alla fine. Non voglio pensare che si possa andare oltre, anche perché ormai siamo tanti ad essere stanchi, anche se in Italia c’è una passività molto più forte che negli altri paesi, ma questo è tipico dell’indole italiana. Vedo anche la forte esigenza di rinascita oltre al crollo, certo bisogna darci da fare e dimenticarci di noi stessi, perché si tratta di un massacro e bisogna farlo col piacere di sapere che si fa una cosa indispensabile.


Julio Monteiro Martins: Questa rinuncia che i tempi richiedono da noi è vera, ieri a cena parlavamo sul sacerdozio dello scrittore, sulla missione. Su questo vorrei sentire anche il parere di Jarmila, come vedi la posizione dello scrittore nel mondo attuale?


Jarmila Očkayová: Io non sarei così pessimista. Mentre parlava Mia Lecomte pensavo ai flussi e ai riflussi della storia. Una volta dei libri si facevano rovi, io vengo da un paese dove per decenni c’è stata una pesantissima censura. Nei ragazzi di oggi percepisco un’inquietudine, una voglia di sapere, di conoscere e di approfondire che trovo molto consolatoria. Si, lo scenario sociale è deprimente, ma ci sono nicchie, più diffuse di quello che crediamo, in cui le persone cercano altro. Se ci basiamo su quello che leggiamo sui giornali ci sarebbe da compiere un suicidio collettivo, ma non è così, come si diceva ieri a cena con Julio, ci sono delle realtà che si basano sulla vita e non sulle ideologie, sulle strumentalizzazioni, sulle chiacchiere vuote. Non sono pessimista, ma stanca. Vorrei però a questo punto precisare una cosa a cui tengo molto e che è venuta fuori prima. Quando parlavo di letteratura italiana che comprende gli scrittori migranti e gli scrittori italiani, non volevo assolutamente fare un discorso di omologazione, lungi da me. Io fuggo da questo aggettivo “migrante” perché sa di etichetta e si corre il rischio di essere classificati come fenomeni letterari, ma me ne guardo bene dal rifiutare la specificità di questa letteratura, come appuntava giustamente Mia Lecomte. Il fatto che io sia migrante è un fatto autobiografico, quando un critico letterario scrive di me io vorrei che si soffermasse sulla qualità o meno del libro, sulla cifra narrativa, sulla storia, perché no? Sono la prima a sperimentare da ormai più di 30 anni cosa significhi lasciare una lingua e adottarne un’altra, è una grande avventura, faticosa, ma stimolante, perché la lingua non è mai una acquisizione tecnica, ma è un continuo rimando a retroscena culturali, simbolici, psicologici, storici. Io credo che nel nostro italiano entri di noi anche la nostra lingua d’origine ed è questo l’apporto interessante di questa cosiddetta letteratura migrante, la mescolanza di due inconsci, due lingue, due culture, forse con la presunzione, un pizzico, di credere di riuscire a distillare qualcosa di essenziale che può apportare qualcosa di vivifico anche alla cosiddetta letteratura stanziale.


Julio Monteiro Martins: Solo una precisazione, io mi dicevo preoccupato e non pessimista, che sono due cose un po’ diverse. Quello che volevo dire è che non ho mai visto, come oggi, un varco, una distanza tanto grande tra ciò che arriva alla gente e la verità dei fatti. Se mi è concessa quest’espressione io direi che c’è stata una infantilizzazione dell’uomo moderno, non si dicono più le cose proprio come si fa con i bambini e questo è molto tranquillizzante per l’uomo che si è abituato ormai a vivere in questo modo ed è proprio questa condizione di serena e compiaciuta menomazione che è preoccupante.


Jarmila Očkayová: Beh, all’informazione manipolata, aggiungici la corsa al consumo , la vita incentrata sul prendere anziché comprendere e il quadro è completo. Però, a differenza di Julio, io non credo che le persone in questa situazione stiano completamente bene, secondo me, in giro c’è un malessere molto evidente che poi si traduce in malo modo, in aggressività, in volgarità che non è altro che l’altra faccia dell’impotenza. C’è qualcosa che manca a livello molto profondo, ma non si hanno le capacità di individuare questa mancanza e anche in questo la letteratura potrebbe esserci di grande aiuto, per questo parlavo del suo ruolo salvifico, se vogliamo in un’accezione kafkiana quando Kafka scriveva a Milena “ Sii tu il coltello con cui frugo dentro me stesso”.


Sandra Biondo: Volevo solo fare un appunto sulle ultime cose dette, non entrando nel merito della letteratura che non è il mio campo, ma ponendo l’accento sul mio ottimismo cosmico che mi pervade da quando sono nata. Una considerazione negativa la farò sulla nostra generazione, io sono della generazione di Mia e successiva a quella di Julio. Ma mi chiedo è davvero vero che le nostre generazioni erano così massificate verso l’alto? Non ci ricordiamo che anche negli anni della dittatura in Brasile, come nei nostri anni ’70 e ’80, noi “impegnati” eravamo una élite, la grande massa non è mai stata militante, consapevole, cosciente. Negli anni ’50 c’è stato il boom economico e i nostri genitori erano attivamente impegnati a consolidare le loro ricchezze in un senso molto consumistico, si cercava di andare in vacanza, di avere la macchina. Perché pensare che la generazione di oggi sia necessariamente peggiore della nostra? Io ho una fiducia incrollabile nei giovani, credo che noi, che cominciamo a essere già babbioni avevamo certi strumenti di comprensione della realtà, ma loro ne avranno altri! Ci sbagliamo a voler scomporre il mondo attraverso le nostre categorie concettuali, che sono quelle elaborate nella nostra epoca, nella nostra cultura, nelle nostre culture, perché anch’io mi sono trovata ad emigrare per un lungo tempo e mi sento molto a mio agio tra di voi. Dunque loro ne avranno altre che noi neanche capiremo, io ad esempio ritengo di avere una visione più avanzata rispetto a quella di mia madre e se parlo con lei che ha 76 anni, mi dirà di avere avuto una visione molto più avanzata di quella di sua madre e allora sarà inevitabile Julio, che Lorenzo avrà una visione più evoluta della tua per quanto tu possa far parte di una nicchia della società dotata di particolare consapevolezza . Per cui sono convinta che i giovani vedranno e capiranno cose che noi oggi non vediamo e non capiamo e alcuni di loro, saranno il lievito, scusate la metafora evangelica, ma secondo me Gesù ebbe un’intuizione molto grande quando disse: “Voi siete il lievito, voi siete il sale”, cioè chi da il sapore e la consistenza non è mai la massa, sono sempre il lievito e il sale. Voi prima parlavate del consumismo della nostra società, ma è anche vero che mai come adesso fioriscono i gruppi di acquisto solidale e i negozietti di artigianato locale. E questi sono i fermenti che probabilmente quando noi avremo 70 anni, ci stupiranno per quello che avranno saputo immaginare e creare e che noi non avremmo mai potuto pensare.


Julio Monteiro Martins: Io mi auguro che sia così, ma mi domando anche se la nostra generazione per quel che riguarda l’accesso all’informazione, alla sperimentazione non sia stata fortunata di vivere in un periodo, quello dopo la seconda guerra mondiale, in cui i totalitarismi erano stati sconfitti o erano fortemente questionati, come il comunismo in Ungheria, e c’era una sorta di celebrazione del dubbio. Negli ultimi 30 anni, c’è stato un movimento opposto, una sorta di subdola cristallizzazione di un nuovo tipo di totalitarismo molto più efficace, non violento, più unanime e più pervasivo. Questo è il mio timore, ma vorrei credere che anche questo forse sarà affrontato e combattuto da quest’istinto di conoscenza e di intelligenza delle nuove generazioni.


Andrea Sirotti: Si, volevo collegarmi a quello che ha detto Sandra. Condivido con lei il suo non pessimismo, ma si è lasciata fuori dal discorso la letteratura, e in questo campo la vedo molto ma molto dura. Noi impegnati compravamo probabilmente l’espresso e andavamo a leggere l’articolo di Pasolini, ma oggi dove sono gli scrittori sui giornali? Gli scrittori che intervengono qui in Italia? Parlo di Italia, perché da quel poco che conosco negli altri paesi questo ruolo l’intellettuale, lo scrittore ce l’ha sempre. Recentemente a Parma mi sono incontrato con delle poetesse indiane e mi parlavano proprio di questo, di come fossero curiose di andarsi a leggere sui giornali che cosa avesse scritto un Cheruvsky o un Amitav Ghosh. A “voci lontane, voci sorelle” nella manifestazione che si tiene a Firenze, avevamo dei poeti rumeni, siamo andati in un ristorante dove c’erano delle cameriere rumene che hanno immediatamente riconosciuto uno di loro e hanno cominciato a bombardarlo di domande, ma questo è bellissimo, perché quello che avverto è che qui in Italia gli impegnati di oggi, ma anche i tanti laureati “tecnici” come diceva Julio, non vanno a ricercare il parere degli intellettuali/scrittori. Alla fine un contributo grande che potete dare voi scrittori migranti è proprio una riflessione seria su quello che sta accadendo nel nostro paese, cosa che ormai nessuno fa più e illuminare su quello che può essere il ruolo dello scrittore. Il pessimismo sta nel constatare che neanche nella nicchia è ricompreso e contemplato il ruolo che dovrebbe invece avere lo scrittore. E alla fine chi sono gli scrittori? I cantanti, i comici?


Jarmila Očkayová: Il nocciolo della questione, il problema vero, secondo me, sono le informazioni sui libri, le coordinate che vengono date ai lettori perché vadano a leggersi un libro anziché un altro. Allo scrittore come intellettuale non ci credo poi tanto, se uno scrittore ha una missione da compiere è quella di scrivere un libro che valga, come dice Elias Canetti, “lo scrittore deve essere custode della metamorfosi”, il mondo, come la vita di ciascuno di noi è un continuo cambiamento e lo scrittore lo fissa sulla pagina, offre al lettore la consapevolezza, non semplicemente razionale, che potrebbe essere fraudolenta, ma quella sentita, quella che poi fa sentire qualcosa davvero e fa cambiare qualcosa davvero.


Julio Monteiro Martins: La posizione dello scrittore oggi è delicata, vi spiego perché: la letteratura subisce un doppio appiattimento, un appiattimento passivo, degli scrittori stessi che non fanno più certi voli di fantasia e di stile perché così facendo hanno paura che i loro libri non saranno più accettati e infatti non lo sono, e poi un appiattimento attivo che è quello di mettere un editor che controlli cosa ci sia nel testo di complesso, controverso e tagliarlo.


Livia Bazu: Vorrei fare la voce dell’ottimismo come Sandra ha fatto in relazione ai giovani d’oggi. C’è probabilmente un momento di scoraggiamento e di abbassamento dello scrittore ai dettami impostigli, ma tanto quanto è forte la vita, le pulsioni vitali nella gioventù, così è forte la pulsione alla creatività nello scrittore. Un’uscita come quella che ha fatto Daniel Pennac in Francia, che ha trovato uno stile assolutamente popolare e leggibile, ma allo stesso tempo denso e capace di mettere in discussione.


Mia Lecomte: Stai parlando della Francia, dove vanno anche molti italiani che qui non riescono a pubblicare!


Livia Bazu: Si, ma sto dicendo che anche questo momento di scoraggiamento, come anche per i valori culturali in senso lato, i valori etici, perché anche la letteratura è un valore etico con la sua capacità di trasmettere la vita, di far riflettere e provocare epifanie, può essere un abbassamento dovuto a una forte pressione, ma prima o poi si reagirà.


Julio Monteiro Martins: Io proporrei anche un atteggiamento più severo, che è quello che io stesso metto in pratica e cioè rifiutare qualsiasi mano che voglia toccare il mio testo. E se devo pubblicare da piccole case editrici che hanno problemi di distribuzione, purché l’integrità della mia opera sia rispettata, così farò.


Jarmila Očkayová: Pensate a un Kafka che durante la sua vita è riuscito a pubblicare solo un racconto, per altro non distribuito. Proust invece è stato rifiutato da 14 editori prima di essere pubblicato. Chi non ha voluto seguire le voghe e non ha mai avuto padri putativi, ha sempre pagato il prezzo. Non sono pessimista perché il miglior giudice sarà il tempo e poi penso che l’importante per uno scrittore non sia pubblicare, ma scrivere.


Marta Sapienza: Anch’io pur dimostrandomi una persona abbastanza ottimista, ho notato questo appiattimento, ma non è solo un problema letterario, investe tutti gli aspetti culturali, dal cinema alla musica. I film che fanno record d’incassi sappiamo bene quali siano, quando invece ci sono dei registi italiani di grandissimo talento che non vengono valorizzati dal sistema pubblicitario, l’anno scorso ho visto il film con Fabio Volo La febbre, che è stato pubblicizzato pochissimo per quello che davvero valeva. La questione che volevo porvi è questa: vorrei capire se questo fenomeno è dovuto semplicemente a ragioni di marketing, livellando verso il basso si vende anche di più ed è più facile rispetto ad educare il pubblico, oppure dietro tutto questo c’è una subdola manovra politica, per cui per esempio i programmi di storia si fermano alla seconda guerra mondiale, o la letteratura si ferma a Pirandello, o magari sono questi due aspetti che si compenetrano?


Julio Monteiro Martins: Si, non voglio risponderti, ma solo aggiungere qualcosa alle tue riflessioni Marta. Un altro sintomo di appiattimento a cui assistiamo oggi è dato dal fatto che quando ero giovane io, per esempio, esisteva la realtà e poi le alternative alla realtà, le realtà possibili. Questa era una sfida per la nostra immaginazione. Che cosa vedo invece oggi? Un consenso nuovo che cerca di spacciare questa realtà come l’unica possibile. Ho paura che questa bugia riesca a farsi strada soprattutto tra i giovani. E questo è un incredibile impoverimento.


Milva Cappellini: Sono un’insegnante e quindi dovrei essere un’ottimista di mestiere, devo dire purtroppo che mi sento investita in pieno dal disastro etico ed estetico di cui qualcuno parlava. Quello che mi sembra condivisibile del discorso di Julio è questa amministrazione abile, surrettizia della paura e del conforto, cioè vengono stimolate certe paure e poi garantiti certi balsami, come quello di dire, questo è il miglior mondo possibile, e questo è terribile soprattutto per i ragazzi, perché in questa massa che non conosce lievito e non conosce sale ci sono in particolare i ragazzi. In un seminario precedente, Julio parlava di funzione della letteratura di sicurezza nazionale, secondo me la questione è proprio questa, in un paese in cui la letteratura si è confusa con la storia nella formazione della civiltà, c’è una divaricazione totale fra la civiltà e la letteratura, è come se non ci riguardasse più. La possibilità di concepire un immaginario dove il reale sembra negarlo… c’è un momento nella storia d’Italia, scuserete il tono pedante da insegnante di storia, dove l’arte e la letteratura risarciscono una ferita immedicabile, il nostro Rinascimento, no? Allo sprofondamento estetico ed etico del nostro paese potrebbe davvero corrispondere una risposta della letteratura e dell’arte forte. Noi nel nostro piccolo a scuola cerchiamo di organizzare dei reading con diversi narratori e poeti che servono a rendere questi autori reali e non virtuali, la prima cosa che i miei allievi mi dicono stupiti è: “Pensavo fossero tutti morti!”, cioè c’è una convinzione della transitorietà fisica dello scrittore…Gli scrittori, la letteratura sono morti…


Julio Monteiro Martins: Infatti non è che ci sentiamo tanto bene!


Milva Cappellini: Volevo poi porre una domanda alle due scrittrici sulla questione della critica, perché mi interessa essendo io una lettrice e come Borges mi vanto di quello che ho letto, non di quello che ho scritto. Sempre leggendo i seminari precedenti ho trovato un’affermazione di Carmine Chiellino molto perentoria che mi sono appuntata: “Chi scrive critica letteraria su di voi non riuscirà mai a farla” perché lui asserisce che la letteratura, di cui evito l’aggettivo, interrompe il patto nazionale, di appartenenza e pertinenza reciproca dello scrittore e del lettore e quindi il critico è spiazzato, è sconcertato.


Mia Lecomte: Non stanno bene neanche i critici!


Milva Cappellini: Che futuro c’è per la critica oltre che per la letteratura?


Mia Lecomte: Per me il problema di cui si parlava prima delle case editrici, è un problema di critica, la case editrici sono arrivate da una parte ad arrogarsi questo potere di decidere, di smontare i libri e rifarli etc… proprio perché manca la critica, manca qualcuno che tenga il baricentro sulla letteratura e non sulle vendite, sul commercio. I critici non so dove siano in questo momento. La critica che si legge oggi, sia per quanto riguarda le letteratura della migrazione che per la letteratura italiana, applica spesso discorsi preconfezionati, non c’è una vera necessità critica. Manca un intermediario tra lo scrittore e l’editore, nei due sensi, quando un libro arriva all’editore e quando il libro ritorna al lettore, una volta c’era questo trait d’union che era il critico, oggi non c'è più.


Jarmila Očkayová: Sono d’accordo con Mia, anch’io ho la stessa sensazione, è come se anche quando ci sono, perché ci sono, sembra che abbiano smarrito le coordinate e non so se ci avete fatto caso, ma parlano spessissimo di classici, territorio sicuro! Personalmente ho avute esperienze curiose con i critici. Ve ne racconto due. Nel mio secondo libro L’essenziale è invisibile agli occhi la protagonista è orfana ed io sono diventata orfana in un articolo di Angelo Guglielmi apparso su l’Espresso! Io sono arrivata in Italia a 20 anni, ma nella sua recensione ero una bambina, venuta con i genitori, poi questi sono morti ed io ho elaborato il lutto scrivendo! Poi mi è capitata un’altra esperienza molto buffa. Ero al telefono con un intervistatore della Rai e le domande erano state tutte più o meno classiche, poi alla fine mi dice che non aveva coraggio a chiedermelo ma lo incuriosiva sapere come era andata a finire quella storia del traffico di materiale nucleare…Beh, avevo scritto una spystory che è metafora della ricerca interiore dove la protagonista, sua malgrado finiva coinvolta in una storia di spionaggio internazionale e di traffico di materiali nucleari! Facendo un discorso serio, forse questa letterature della testimonianza ci ha creato dei guai!


Julio Monteiro Martins: Una domanda per Andrea Sirotti. Tu che lavori con la letteratura anglosassone e indiana di lingua inglese come credi che sia percepita in Europa e in Italia? Senti ancora molto la presenza dell’elemento esotico oppure è vista come una letteratura tout court?


Andrea Sirotti: No, assolutamente no, è il problema di tutte le letterature migranti, il dover arrivare a questi eccessivi autobiografismi da una parte oppure, ed è peggio perché dietro c’è anche un discorso politico, a una sorta di esotismi. Diciamo che molti autori costruiscono libri ad hoc, chissà magari il loro editor?, per il mercato occidentale, pieni di odori, sapori, folclorismi “etnici” e sono guarda caso quelli più popolari, mi vengono in mente i libri di Chitra Divakaruni, mi viene in mente, anche se è un libro tutt’altro che disprezzabile, però costruito in una certa maniera, Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy che ha tutti gli ingredienti giusti di cui uno si aspetterebbe dell’India, però è anche molto altro. Questo esoterismo, da una parte è merito del successo di certi libri e dall’altra, in un certo senso, è la loro morte. Per quanto riguarda l’appiattimento di cui si parlava prima invece, anche noi traduttori abbiamo seri problemi. Ho tradotto da poco un romanzo australiano e gli editor stanno lavorando un sacco dietro la mia traduzione per cercare di normalizzarla, di appiattire certi termini, togliere certe asperità che erano nell’originale, ma mi è stato detto, queste sono parole di registro troppo alte per un aborigeno australiano, ma è così che erano, l’autore ha voluto una commistione strampalata di un linguaggio inesistente e quello io devo rispettare!


Jarmila Očkayová: A me è capitata la stessa cosa nell’87, avevo selezionato una serie di fiabe antiche slovacche e le ho proposte a un editore milanese che mi ha detto carine, però dobbiamo metterci le mani perché sono in un linguaggio troppo alto per essere delle fiabe. Ma io ero stata fedelissima alla traduzione, per quanto un traduttore possa essere fedele, perché tradurre è anche tradire, mi sono rifiutata e ho proposto la raccolta alla Sellerio che le ha pubblicate così com’erano, il libro è piaciuto molto e sono state fatte diverse edizioni.


Julio Monteiro Martins: C’è un libro molto bello che vi consiglio di Grazia Cherchi, Scompartimento per lettori e taciturni, dove mostra una metamorfosi all’interno dell’industria editoriale italiana, quando le case editrici sono passate dalla gestione di letterati, uomini che amavano la letteratura, parlo di Pavese, di Calvino, del vecchio Bompiani, alla gestione di ragazzi, arrampicatori economici, usciti dalle facoltà di economia e commercio e che vedevano nel loro lavoro un business. Questo a partire dalla metà degli anni ’80 e quindi sono già più di 20 anni che l’industria editoriale italiana è in mano a persone alle quali in fondo non interessa la letteratura. Allora c’è il rischio che i percorsi e gli indirizzi vengano dati proprio da queste case editrici e lo scrittore diventi un piccolo impiegatuccio che cerchi di rispecchiare le tematiche e gli standard richiesti loro dagli editori. Cosa che secondo me sta già avvenendo. E se aggiungi a questa prospettiva il fatto che lo spazio all’interno delle librerie e dei supermercati è lottizzato al metro quadro dalle grandi case editrici, allora la situazione è davvero allarmante, perché così si arriva al pensiero unico anche in letteratura.


Livia Bazu: La mia è una considerazione da scrittrice. Se noi ci concentriamo troppo su questi aspetti, perdiamo la nostra ispirazione. E poi da un punto di vista sociale, perché non si pensa a creare una casa editrice “casa” degli scrittori a leggersi insieme, come accadeva nella letteratura dell’800, dove gli scrittori si leggevano l’un l’altro, si editavano l’un l’altro, si facevano da levatrice. Perché non si cerca di fare una rete di librerie indipendenti?


Julio Monteiro Martins: È proprio quello che proponevo l’anno scorso, nell’editoriale del settimo anniversario della rivista Sagarana, intitolato La forza dell’azione. Proponevo di fare anche qui in Italia, come è stato fatto negli anni ’70 nel mio paese, una coalizione di autori. Allora in Brasile, i più grandi autori del tempo, Carlos Drummond de Andrade, Rubem Braga e molti altri, si sono uniti insieme, lasciando da parte le case editrici con i loro interessi economici e hanno organizzato la Editora do Autor, e ha avuto un grande successo.


Livia Bazu: Se come dice Julio, il Brasile non rappresenta il passato, ma il futuro allora questo si spera succederà anche in Italia, perché no?


Jarmila Očkayová: Questo qualche anno fa è stato fatto in Slovacchia dai traduttori.


Milva Cappellini: Questo appiattimento e infantilizzazione di cui parlava Julio, sviliscono però qualsiasi impulso eroico, ed epico. Julio cita spesso l’episodio del conferimento a Ernesto Sabato di presiedere la Comisiòn Nacional sobre la Desapariciòn de Personas dopo la guerra delle Malvinas, ecco c’è in una scelta di questo tipo un elemento eroico ed epico, mi chiedo, in Italia questo potrebbe succedere?


Julio Monteiro Martins: Infatti, la prima vittima di questa infantilizzazione è il senso del tragico. I cittadini fin dall’infanzia sono svuotati del senso del tragico. Diventa qualcosa di così fuori dal tempo e dallo spazio da essere spacciato per ridicolo.


Milva Cappellini: E la seconda vittima è il comico. Dubito che oggi si possa leggere un Orlando furioso, proprio perché manca il senso del tragico e del comico “inquietante”per così dire.


Julio Monteiro Martins: Io chiuderei qui per il momento e riprenderei i lavori dopo pranzo, grazie a tutti e a dopo!







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