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2° SEZIONE – Mattina del martedi 29 Settembre


Julio Monteiro Martins: Oggi abbiamo il piacere di ricevere il Professore Fulvio Pezzarossa. Lui insegna Sociologia della Letteratura presso la Facoltà di Lingue Straniere all’Università di Bologna ed è anche il curatore di una bella rivista, di cui è uscito ora il secondo numero, chiamata “Scritture migranti”. Il Professor Pezzarossa è uno degli studiosi di questa realtà che la conosce più profondamente. Mi ricordo del primo saggio che ho letto sull’argomento, scritto dal Professor Pezzarossa, e che è sempre accessibile su Internet, era un saggio lungo, un testo di grande respiro, con una visione approfondita di tutte le tendenze, i suoi testi abbracciano questo universo in un modo molto ampio e consapevole. Ora lascio la parola al Professor Pezzarossa.



Fulvio Pezzarossa
– Grazie. Ringrazio Julio per le sue parole e per l’invito di venire a Lucca. Mi ha fatto piacere anche che sia stato rievocato questo vecchio saggio, in cui cercavo di fare una rassegna ragionata sui volumi che in qualche modo sono riconducili alla letteratura di migrazione. Se ne parlava anche prima con Karim Metref, indubbiamente soffriamo tutti noi che ci occupiamo di questo tema della mancanza di documenti adeguati per mantenerci aggiornati in chiave bibliografica, sia sul versante della critica, sia sul versante delle uscite librarie, tantè che se pensiamo a ieri, un nome di riguardo come Barbara Serdakowski non credo che tutti sapessero che è uscito il suo volume, e sono stato molto contento di acquistarlo perché se fossi andato come sempre faccio dal mio libraio, mi avrebbe di nuovo maledetto perché sono ricerche che solo un amico libraio può farti. Questo perché cercare dei libri clandestini, e questo è il termine giusto, clandestini, è un grosso problema, soprattutto per le piccole librerie, e questo è un pochino preoccupante perché credo che dobbiamo ragionare sulla nostra collocazione complessiva all’interno di quella che uno studioso, di lingua francese, non so di quale origine, che si chiama Paré, ha individuato come “letteratura dell’esiguità”. È un saggio interessantissimo, tradotto anche in italiano, uscito credo per Quod Libet, di Macerata, “Letteratura dell’esiguità”, che lavora soprattutto sulle “micro letterature”, cioè delle micro popolazioni e dei loro linguaggi, ma che coinvolge in pieno il problema della cosiddetta Letteratura della migrazione. E la prospettiva che Paré avanza è una prospettiva per noi, ahimé, catastrofica, quella di una progressiva implosione dei piccoli club che si trovano a confrontarsi, augurandosi che questa micro letteratura, questa letteratura dell’esiguità, vada crescendo, ma in realtà, come dire, la nicchia è nicchia, e non si supera. Nonostante questo, tutti noi investiamo tante energie e tante forze per un futuro, soprattutto perché il futuro – e lo diceva molto bene ieri Julio – è connesso alla realtà sociale, quindi non è un discorso letterario, ma un discorso di sociologia della letteratura, venendo alla mia professione. Mi ha fatto piacere che tu ricordassi questo vecchio articolo su quello che era uscito fino al 2004, perché in qualche modo ho cercato di dare anche continuità, ho scritto un’altra cosa, e forse ho sbagliato a non averla portata qui con me, come argomento di questa riflessione, che è comparsa in questa nuova e bellissima rivista, “Letteraria”, di cui è uscito a maggio/giugno il primo numero, il direttore è Stefano Tassinari, esce per gli Editori Riuniti, sono volumi monografici, il primo era Bianco e nero, per cui una puntata sulla letteratura di migrazione, una letteratura “colorata”, o “arcobaleno”, non so come la vogliamo chiamare, ci stava credo a ragione. Quindi, ho cercato di fare una sintesi di nuovo di quanto è uscito, di alcune tendenze, di alcune prospettive, della, possiamo discutere, “letteratura di migrazione”, “scrittura di migrazione”, di quanto è uscito negli ultimi due anni, almeno. E partivo da un’amara costatazione, il fatto che una delle più grandi, o forse la più grande casa editrice italiana, Einaudi, compaia sulla scena della letteratura di migrazione, in termini intanto di discontinuità assoluta, ogni tanto esce un libro, quello della Fofana ricordo bene, per dire, e poi ultimamente ha sfornato questo incredibile volume autobiografico, “In fuga dalle tenebre”, di questo camerunese, Pougala, che racconta la sua straordinaria vicenda, dalle capanne del Camerum ai grattacieli milanesi, dimostrando che se si è intelligente, se si entra nel meccanismo occidentale, se si entra nel business, l’integrazione avviene. Ed è per me un libro incredibile, pensare il contesto politico e sociale e il “buon selvaggio”. Naturalmente non ho nulla contro questo personaggio, che è un personaggio di rilievo mi pare nelle discussioni sul tema della migrazione a Milano. Quindi, lui è convinto che quella sia la via dell’integrazione. E affrontavo, appunto, il concetto di letteratura di margine, con questa letteratura che finalmente arriva a una grande casa editrice e ci arriva in questi termini, che contraddicono assolutamente il dibattito sulla scena pubblica, per cui addita anche dei percorsi di sottomissione, di “sì padrone”, che sono dal punto di vista della mia sensibilità politica un po’ terrificanti. Però, rispetto tutte le opzioni. Va be’. Dal punto di vista teorico è parecchio interessante, e ce n’è solo qualche cenno in ambito anglosassone a proposito di alcune raccolte antologiche di scrittrici di origine indiana, che si esprimono appunto naturalmente in inglese, questo problema dei migranti che non trovano casa… editrice. Ed è un argomento interessantissimo sul quale vorrei lavorare, ma chissà quando… e chissà come. E che trovano appunto soltanto “case” assolutamente precarie, case occasionali, marginali, nascoste, clandestine, e che non arrivano mai ad abitare nella “casa” di tutti gli altri italiani, che possono permettersi appunto di pubblicare con l’una e con l’altra, senza fare nomi. Ed è questo tema della “casa” un tema che nell’ultimo anno ha assorbito un po’ le mie energie. Perché ho scoperto – ma non ho scoperto nulla – che in realtà il tema della casa è un tema di straordinaria forza, all’interno delle scritture di migrazione. La cosa naturalmente era stata perfettamente rilevata già nelle culture più sensibili, più avanzate, nell’ambito francofono e soprattutto nell’ambito anglofono, dove esistono molti saggi sul tema della casa, dove poi si gioca anche sull’ambiguità e sulla complessità del termine, cosa che in Italia non possiamo permetterci, però ho provato a fare un lungo percorso nella letteratura di migrazione in italiano tenendo presente questo, il tema forte della casa, il “non sentirsi a casa”, il desiderare di essere in una casa, non più nelle situazioni precarie che ricordate presentano anche i libri di Pap Khouma, in cui la sua casa per molto tempo, nella sua avventura, è la famosa Peugeot rossa parcheggiata nei viali riminesi, o di Salah Metnani, nei quali ci sono collocazioni precarie fuori di casa. E questo percorso lungo la nostra letteratura di migrazione mi ha portato a cercare appunto come e quando i nostri migranti si sistemino anche nella dimensione della letteratura, nella narrazione letteraria, mi ha portato a un punto di piena soddisfazione perché in qualche modo leggendo Lakhous, “L’ascensore di Piazza Vittorio” , e soprattutto Laila Wadia, “Amiche per la pelle”, e quindi questa splendida metafora del condominio interculturale triestino, dove alla fine le presenze straniere e gli abitanti italiani, come quel signor Rossi mi sembra, ecco, lì finalmente si trova un punto di convivenza, e quindi è una grande metafora, intelligente, di un destino che sembrava realizzarsi. Sennonché sono intervenute delle variabili in qualche modo impreviste che sono l’argomento delle cose che vi leggerei qui, leggerei non per fare l’accademico, ma siccome è una cosa ancora inedita vorrei raccogliere opinioni, pareri e suggerimenti da parte vostra, sperando appunto che non vi annoiate eccessivamente. Ecco, la mia teoria era che anche la letteratura di migrazione disegnasse questa parabola di integrazione quindi da Pap Khouma a Laila Wadia, ma è saltata completamente quando ho preso in mano “fanculopensiero” di Maksim Cristan, un croato, un ex-barbone che deliberatamente lascia una perfetta integrazione in patria e viene qui in Italia non per cercare la fortuna, ma per cercare di vivere liberamente senza una casa. Qui il mio discorso sull’integrazione viene completamente rovesciato. Un testo anche dal punto di vista linguistico molto stimolante, pubblicato chissà perché da Feltrinelli ma me ne compiaccio, sono contento, è meritato. Se c’è un percorso di integrazione è un percorso attraverso la letteratura, vive nelle strade e nelle piazze, ma come spazio di scrittura, e tutto il libro è giocato sulla formazione di un romanziere che quanto più si immerge nella realtà incoerente delle strade e delle piazze, quello che noi pensiamo sia abbruttimento in realtà recupera un fondo di umanità che altrimenti, nelle altre dimensioni della Milano da bere, della Milano operosa, assolutamente sfugge. Il titolo di questo testo è“Scritture e generazioni migranti”. Vi leggo:

“Più volte Maksim Cristan, l’originalissimo autore del provocatorio (fanculopensiero), esprime orgogliosamente la propria vocazione alla scrittura, che paradossalmente si alimenta nella vita da sbandato nelle piazze o nella grottesca casa-auto, con tanto di libreria:


[…] mi chiese cosa me ne facessi di quel blocco di carta.

“Studi anche tu?”

“No…io scrivo,” dissi.

“Sei uno scrittore?”

“Uno scrittore di strada,” mi definii secco.

“E scrivi qui?”

“Sì. Ho appena iniziato la mia ricerca per le strade di Milano e questo è veramente un bel posto. Credo che ci rimarrò un po’”.1


La sua ricerca coglie le grandi trasformazioni della vita urbana, e fa da corrosivo contrappunto rispetto alla street culture verso la quale si indirizzano le nuove figure uscite dalle dinamiche migratorie, destinatarie del termine seconde generazioni, ambiguo e complesso, che va accolto, secondo Adone Brandalise, quale «definizione accettata per poterne cambiare dall’interno il significato», in una funzione dinamica, che aiuta a rompere la passività di soggetti parlati, consentendogli di «prendere la parola come parte della realtà che c’è qui».2

Nei confronti di questi giovani difficili da denominare e circoscrivere anche in situazioni europee di più antica esperienza migratoria,3 ci si deve muovere con estrema cautela, tenendo conto di una situazione fluida degli studi,4 che talora esaltano manifestazioni di identità frastagliate, ibride e meticcie,5 mentre nel concreto delle vite individuali non sempre è possibile trasformare tale situazione in risorsa, mutare «lo stigma in emblema identitario».6

Nella dimensione letteraria italiana questa categoria non trova una specifica fissazione,7 ed è necessario rivolgersi alle esperienze di quella francese, coinvolta da questi fenomeni in largo anticipo, tanto che già nel 1993, quando la letteratura migrante in Italia era appena agli albori, si riusciva a proporre un approccio strutturato alle scritture dei cosiddetti beurs.8 Il contributo di Anna Maria Mangia su Scrittura e identità,9 fissava alcuni elementi che possono costituire una griglia per accostare gli scritti di seconda generazione che stanno emergendo da noi.10 Anche se proprio con un racconto dedicato a quel tema esordiva un grande scrittore, non di seconda generazione, Tahar Lamri.11 Solo allora, sono certo, potrò capire, tra i vincitori della prima edizione del premio letterario Eks&Tra nel 1994,12 metteva in scena la figura di Jean Marie, figlio di un algerino che aveva scelto un nome occidentale per favorirne l’inserimento nella realtà europea, seguito nell’ansioso e problematico ritorno in Algeria, alla ricerca delle proprie più vere radici. Da quello stesso paese, attraverso la banlieu marsigliese e l’approdo in Italia, si muove la autobiografia di una delle più straordinarie figure di seconda generazione, quella indimenticabile di Nassera Chohra.13 Ma va anche denunciato l’ostinato silenzio critico che pesa su Bamboo Hirst, non solo la prima scrittrice migrante che abbia pubblicato in Italia, ma anche figura di una seconda generazione approdata alle nostre coste ben in anticipo sulla prima.14

È necessario premettere che sul piano della ricerca letteraria, il termine seconde generazioni investe la condizione esistenziale dell’autore, quella dei suoi personaggi, o taluni aspetti tecnici della sua opera. Prima di tutto un criterio di ordine biografico, permette di definire (anche scrittori) migranti di seconda generazione i figli di coppie con almeno un genitore straniero, nati in Italia o che vi si sono trasferiti prima dei 10-12 anni e che si sono formati nella scuola italiana. Essi scrivono a partire da un universo culturale (e soprattutto linguistico) italiano, seppure coinvolti dal sogno di un ritorno nel paese di origine o di provenienza dei genitori. Si tratta di autori segnati da un’identità complessa, esito di un bricolage che vorrebbe far convivere tante provenienze, tante lingue, tante sonorità, e sviluppa un immaginario duplice o fratturato, come ribadiscono anche le trame contraddittorie, definite da una «posizione di protratta bifocalità».15


La famiglia pretende che io sia arabo, mentre dall’altro versante si pretende […] che io sia italiano e che tutto ciò che si suppone non compatibile venga soppresso. […] viene quindi a crearsi una doppia personalità.16


Sono figure collocate tra il dentro e il fuori, sulla soglia,17 e tuttavia investono, come i loro stessi personaggi, un possibile futuro nel paese d’approdo. Questi autori (appare riduttivo il termine di scrittori, poiché molti si misurano anche con le arti figurative, il cinema, i video, la musica, le risorse elettroniche, tipici dell’universo giovanile)18 producono narrazioni dove il tema autobiografico è centrale.19 Ma esso sconfina nell’invenzione, in quanto esprime la ricerca di un’identità, spesso contraddittoria e insoddisfatta, e questa immagine individuale incerta e fragile viene caricata dal desiderio, dal sogno, dalla fantasia, nel tentativo di riscattare il vivere concreto. A differenza dell’autobiografia occidentale, che discende da un punto fermo della propria vita, questa scrittura mette in campo bambini, adolescenti, giovani immaturi, i quali aspirano a una formazione che rimane invece densa di contraddizioni, ritorni, vicoli ciechi, che li coinvolgono nello spazio interno e in quello esterno.

Componenti essenziali di questo mondo sono le due polarità della famiglia e della scuola: la prima rappresenta la sintesi di tutti gli elementi della cultura di provenienza; e la scuola vale come microcosmo della realtà esterna, concentrato delle opportunità e degli ostacoli offerti dal nuovo paese.20 Attraverso questi due universi distanziati da abitudini linguistiche, rituali, religiose, affettive, si dipanano alcuni temi che percorrono tutti i testi. Essi prevedono una messa in discussione della figura dei genitori, rappresentanti di quella cultura che risulta penalizzante nella nuova realtà. In particolare viene criticato il ruolo del padre, legato ai valori di società tradizionali e rigidamente patriarcali, figura che occupa ruoli professionali umili e subalterni; mentre le madri, seppure chiuse nella dimensione domestica, alimentano una visione non totalmente negativa della tradizione, che può essere rivitalizzata nei frammenti di una nuova realtà multiculturale.21

Molto complessi si rivelano gli atteggiamenti verso il paese da cui provengono i genitori: quasi sempre compare il viaggio verso l’antica patria o il sogno di raggiungere quel mondo favoloso, lontano, abbandonato, che nutre ciò che è stato definito transnazionalismo emotivo.22 Sono viaggi carichi di speranza e illusioni, che si mutano in una fortissima delusione, nell’impossibilità di far combaciare la propria esperienza occidentale con una realtà che è stata superata.

Ne risulta per i protagonisti la necessità di un rientro definitivo e più consapevole in Italia, nonostante le immense difficoltà di inserimento. Le storie narrano degli ostacoli alla integrazione, che generano un’inevitabile marginalità; l’ingresso nella nuova realtà avviene lungo percorsi laterali, e i personaggi sono tentati dalla devianza: quasi mai si narra di piena e riuscita assimilazione. Per quanto tentino di assumere l’aspetto occidentale (gli abiti, i consumi, i cibi), rimangono sempre segnati da una condizione di Pendolari fra mondi dissonanti.23 Spesso la spia di questa diversità, oltre la percezione di una «differenza […] radicata nel corpo e nel nome»,24 è costituita dall’accento, che rimarca uno stigma sociale e una ferita psicologica non sanata.25 Personaggi dunque di forte contraddizione, tesi verso il viaggio e il movimento, spinti dalla necessità di ricercare un loro luogo, una loro soddisfazione, che la società autoctona gli nega; sino a esibire l’idea di un mondo alternativo, circoscritto dai comportamenti alternativi di gruppi e bande.

Vanno aggiunti poi altri elementi, quali la scenografia quasi esclusivamente urbana di queste narrazioni, pur mancando le ambientazioni altrove obbligata in ghetti e banlieues; e l’iscrizione dei protagonisti fra i giovani emarginati produce un punto di vista laterale, da cui deriva un atteggiamento critico e ironico,26 fortemente corrosivo rispetto all’immagine stereotipa dell’Italia,27 ma puntato egualmente a smantellare le rigidità dell’universo familiare. Da ciò la presenza di un lavoro intenso anche sull’italiano standard: questo costituisce elemento di grande novità nel panorama della lingua letteraria nazionale, capace di aprirla ad orizzonti di un parlato di strada o gergale.28 Assume rilievo il dialetto locale (romanesco per Igiaba Scego; milanese o lumbard per Abdel Qader;29 il bolognese per Jadeline Gangbo o Gabriella Ghermandi),30 quale risorsa alternativa e corrosiva rispetto alla lingua di potere standardizzata, a segnare una netta distinzione con le analoghe situazioni europeee, che mostrano invece le mille inflessioni dell’inglese parlato e storpiato, il beur dell’esagono francese, ma anche il kanako dei turchi di Germania.31

Senza dubbio la figura dello scrittore di seconda generazione che dà voce a tutte queste contraddizioni, grazie a un impulso di straordinaria creatività che lo spinge a una lotta drammatica con la tradizione dell’assetto testuale, con lo standard della narrativa e le consuetudini del letterario, con le forme standardizzate del linguaggio è Jadelin Mabiala Gangbo; nei suoi testi sviluppa questa immagine di persona sdoppiata, lacerata, contraddittoria,32 che non trova realizzazione se non nella invenzione culturale.


E, secondo me, non avere un’identità ben definita, è quasi un pregio, e io lo sento come un privilegio, perché mi dà la possibilità di vivere in una terra di nessuno, in un non luogo, e di riuscire a vedere le cose da una prospettiva diversa rispetto a chi è coinvolto in un mondo. Per cui, diciamo che è matematico che una persona inizi a scrivere perché vuole cercare la sua dimensione. O lo si fa attraverso la musica o attraverso, non so, la scrittura o con altre forme di arte. E penso principalmente che sia questa forma di alienazione a portare le persone a cercare un punto di riferimento solido. Penso che sia così anche per moltissimi italiani che si sentono stranieri nella loro nazione. Immagino che Tondelli o Andrea Pazienza fossero stranieri nel loro paese ed è quello che, secondo me, li ha portati a creare qualcosa di nuovo, ad avere uno sguardo ed un punto di vista diversi rispetto ad altri autori.33


Il primo dei suoi libri, Verso la notte Bakonga,34 è un viaggio immaginario a partire dalle strade delle scorribande bolognesi, verso un Congo immaginato alla ricerca di radici,35 mentre nel paese europeo gli manca qualsiasi possibilità di collocazione stabile, e invariabilmente le porte gli sbattono sulla faccia.


Nel primo appartamento aprì una donna. Mi presentai stando sull’uscio.

  • Ah, sei il ragazzo che ha telefonato stamattina? … - Gli occhi le divennero dolci, tanto da colare in lacrime: - Mi dispiace ma mio marito … - Aveva ragione Cariena. La gente è prevenuta nei confronti dei negri.

Suonai vari campanelli per tutta la settimana costruendomi persino un aspetto rispettabile, in forma di negrobusiness, ma venni sempre respinto. Era proprio una questione di faccia negra.36


L’ingombro fastidioso della sua presenza, che è da leggere nel senso più ampio di un’intera categoria di individui fuori posto e contaminante nell’accogliente e generosa dimora italiana, lo spinge all’avventurosa ricerca simbolica delle origini, che lo rendono capace di attraversare il confine di esclusione, oltre il quale nella pagina di chiusura compare l’amata Elena:


Stava in piedi sulla soglia.

[…] con un grembo gonfio da lungo tempo. Lì, in piedi, per offrirmi un’ennesima possibilità. Vedevo nei suoi occhi che il prossimo passo spettava a me […].

I colori mutavano finalmente. Si parlava di emarginazione, di solidarietà e di riforme per garantire culle a una nuova specie di italiani.37


I suoi protagonisti sono rifiutati dalle istituzioni educative, e sviluppano una identità ribelle, che finisce per accentuare la separatezza, attraverso la «formazione di una particolare “unità di generazione” in grado di elaborare forme di riconoscimento alternative rispetto a quella omogeneità “etnica” che costituisce la base [del…] progetto nazionale».38 Nel racconto Com’è se giù vuol dire KO?,39 inserito nell’antologia Italiani per vocazione, sono in scena due giovani rapper della metropoli bolognese, un autoctono e un maghrebino, travolti dalle caotiche tensioni etniche del disordine urbano; se l’ingenuo fantasticare su risorse di integrazione, dallo stile al vestiario allo slang giovanilistico, tutti gli elementi che nutrono la sfera dello hip hop,40 sembra mascherare ogni traccia della diversità delle origini,41 essa affiora immediatamente nella sfida on the road. La session si incaglia all’emergere di una aggressività xenofoba non ritualizzata: «E se ti dico che sei soltanto un marocchino di merda?»;42 il colpo basso costringe Aziz ad una brusca presa di coscienza di come anche le crew siano organizzate su logiche di una superiorità della condizione nativa. Ma saranno gli agenti, ostili verso una condizione giovanile e straniera, che irridono il «marocchino italiano», quell’«Alì babà […] con accento bolognese»,43 che scatenano una sfida che si serve del gergo e del rap per imbastire una ribellione violentissima a parole, con il «dito medio a due centimetri dal viso di uno dei poliziotti».44

Nella bella antologia tutta femminile Pecore nere dell’editore Laterza,45 emergono dislocazioni variate delle tensioni culturali, non solo affidate alla ambientazioni della cucina, in cui sono collocati i due racconti più celebri: Salsicce di Igiaba Scego46 e Curry di pollo di Laila Wadia.47 Qui di nuovo vengono in scena le contraddittorie aspirazioni alla piena integrazione di una ragazzina indo-milanese; l’abbandono delle tradizionali vesti orientali per poter indossare la minigonna, le scarpe col tacco, sfoggiare il piercing o la capigliatura punk. E la dialettica tra la cultura d’origine (imposta dai genitori arretrati ed estranei) e quella d’approdo si trasferisce sul cibo, piano sul quale è facile misurare gli scontri e le divaricazioni tra le civiltà; grande metafora delle difficoltà da affrontare per rivitalizzare i piatti di un sola tradizione ormai stanca, e per aprirsi a sapori proposti dalle altre culture, alla ricerca di equilibri e di gusti tutti da inventare, come la «pizza, con funghi, panna e curry», oppure «peperoncino e spezie per mettere su pasta».48

Il linguaggio complesso della corporeità, che interseca i comportamenti e la voce femminile,49 trova rilievo nella scrittrice di origine somala, capace di materializzare nelle dimensioni del quotidiano situazioni di vasta complessità. Il sentimento di precarietà che attanaglia lo straniero, il distacco dagli spazi e dai modi della vita originaria, si materializzano in una vivace narrazione, che fin dal titolo rompe la stabilità linguistica della cultura ospitante. Il concetto sintetizzato nel neologismo Dismatria prende corpo nella concreta vita del gruppo di donne in transito perenne. Materializzano quella instabilità esistenziale le ingombranti valigie:

Ecco perché avevamo tante valigie, ecco perché non compravamo armadi, ecco perché la parola casa era tabù. La sicurezza, la stabilità, diventare sedentari, diventare italiani … tutto avrebbe infranto il nostro bel sogno.50


Oggetto al centro dell’immaginario per tutta la prima generazione dei migranti (anche degli scrittori!), provoca la reazione dei giovani, per i quali «La conquista di una casa propria è una conquista importante, un modo di affermare la propria esistenza nell’altrove».51 La figlia non può che sognare l’oggetto omologo e inverso dell’armadio, dato che nella prima ondata di arrivo «un “immigrato con dei mobili” è difficilmente pensabile»:52


Parlai.

«Voglio comprarmi casa, mamma. Voglio andare a vivere da sola. Voglio un armadio anche, e non più valigie, mai più».

Mamma invecchiò di trent’anni sotto i miei occhi. Nessuno in casa le aveva mai parlato così. Avevo rotto il patto dei dismatriati. Ero un paria ribelle.

«Ma c’è l’affitto figlia mia, puoi andare in affitto, non è necessario comprare casa, questa non è la nostra terra».

«No, mamma …devo comprarla, i soldi spesi in affitto sono soldi buttati. Voglio che mi rimanga qualcosa in mano. Voglio un buco mio in questo mondo e poi, mamma, questa è la mia terra».53


Le scrittrici appaiono fortemente sensibili al tema della incerta ricerca della collocazione, e il motivo della sospensione identitaria rappresenta il focus della scrittura di Gabriella Kuruvilla, la quale ricorre allo strumento straniante dell’ironia, cercando di collocare il soggetto in posizione terza ed esterna, «Portando alla luce la persona e scardinando gli stereotipi»,54 mentre vela una sofferenza alimentata da una carenza insanabile: «Sto cercando di comporre un puzzle senza averne i pezzi».55

Già nella prova d’esordio, Media chiara e noccioline, realizzata con lo pseudonimo di Viola Chandra,56 si rivela una delle voci più sicure e interessanti: la sua scrittura colma di dolore si alimenta dalle stesse ferite non marginabili, esibite all’inizio del racconto nel traslato del tatuaggio. Al doloroso racconto di una vicenda di formazione, corrisponde un flusso di coscienza narrativo, riprova dell’isolamento del soggetto parlante; il padre di provenienza indiana, separato dalla moglie italiana, sostituisce gli affetti con relazioni puramente economiche, consentite da una riuscita professione borghese. Ne consegue la spietata condanna di quella figura, in contrasto con lo stereotipo «di saggezza orientale»:


Quelle poche volte che c’era, era a cena. […] Quella cena che mangiava stando seduto davanti al tavolo, di fronte al televisore: il volume alto, lo sguardo fisso, zapping ogni tanto, e io di fianco. Quando gli parlavo i suoi occhi rimanevano incentrati sullo schermo, alzava il volume e finalmente mi diceva qualcosa: «Zitta, che non sento».57


La lapidaria deduzione: «Siamo orfane, di padri o madri ancora viventi»,58 rende ancora più disperante la quête di uno spazio per una propria collocazione, continuamente tentata dalle soluzioni estreme della latitanza e della esibizione, e che corrisponde al lavoro di barista (al quale si riferisce il titolo), e a una funzione animalesca della tana: «Oggi la mia casa è protetta, difesa e chiusa»,59 nella quale pare impossibile radicarsi realmente,60 preferendo percorsi nella marginalità giovanile, tra luoghi di disagio e di rivolta, di perdizione e smarrimento, dalla quale parte un segnale incerto di ricostruzione, a un tempo dell’abitazione e dell’animo:


I giorni trascorrevano mentre la nostra convivenza si faceva sempre più stretta, meno casuale e più ricercata. […] All’Ikea scegliemmo scatole a coppie; per le magliette e la biancheria: la mia e la sua, una di qua e una di là, da sistemare nello spazio minimo della cabina armadio. In cucina compare un coltello japan-style per tagliare le verdure, nell’armadietto fa la sua apparizione la pasta, sui ripiani si addensano scatoline trasparenti di cuscus, riso e quinoa. A cena talvolta si cena.61


Questo racconto preannuncia lo sviluppo poliedrico della nuova raccolta,62 dove prendono voce personaggi lacerati tra la dualità del bianco e del nero, dell’India e dell’Italia. E senza dubbio l’elemento che materializza questo essere out of place, è rappresentato dalle ambientazioni domestiche, un universo di tipologie variate,63 dalla cadente casa di ringhiera, alle raffinate ville dell’hinterland. Risulta interessante la sensibilità sociologica dell’autrice, la prima a rappresentare «quella che possiamo chiamare “la nuova borghesia multietnica”»,64 che continua però ad esprimere rabbia e dolore alla pari degli altri soggetti di seconda generazione.

Invariabilmente l’estraneità dell’edificio, la sua freddezza lontana, la sua atmosfera repulsiva o inglobante, ne fanno il correlativo oggettivo di un’intera generazione che invano cerca la propria stabilità, anche attraverso radici parentali che non sono affatto in grado di alimentare una propria efficacia fuori dal contesto di origine, mentre poi l’utilizzo di beni e ricchezze non favoriscono automaticamente integrazione e assimilazione, ma creano in realtà vuoti e abissi. Permangono enormi difficoltà ad ancorare nuclei simbolici ed emotivi in spazi di precarietà difficilmente percepibili come una vera casa.

Centrale è l’episodio titolato La casa,65 dove l’incontro tra figlia e padre si avvera solo dopo la morte di questo, e la ribadita estraneità genera un’atmosfera di astratta freddezza, dove i sentimenti appartengono a un linguaggio estraneo o morto, come i documenti nella impenetrabile lingua malayalam. Tutti i personaggi transitano attraverso spazi di cui non sono mai realmente proprietari, ai quali mai possono legarsi, sia che si tratti di abitazioni privilegiate per i rampolli della seconda generazione (Nero a metà;66 Fratelli),67 sia che rappresentino gli spietati luoghi di un lavoro umiliante (Badante),68 nei quale si scoprono le complesse frastagliature della linea del colore, dove lo sfruttamento può essere esercitato con freddo distacco da parte di una padrona negra (Colf).69

Il volume svela profonde e radicate contrapposizioni razziali, con il tono beffardo che si rintraccia nel racconto È la vita, docezza.70 La condizione dell’altro è segnata da inferiorità e diversità, assenza e imperfezione, che non a caso rispondono alla negazione di una spazialità intima, e alla costrizione di pratiche subordinate al circuito criminalizzante della strada:


Natasha il mio nome […] Sono una diversa, non posso farci nulla. Una con la H al posto della CI. Una che non ha tutte le lettere al posto giusto e, come se non bastasse, una che ha una lettera al posto di due. Una che le manca una lettera, una che le manca qualcosa.71

La penna precoce e reattiva di Randa Ghazy, conferma una scrittura carica di politica, come è stata sin dal travolgente e scomodo esordio;72 anche nell’ultimo romanzo, Oggi forse non ammazzo nessuno,73 evita una narrazione introversa, solo attenta alla psicologia, visto che il tema dell’identità è ogni giorno di più terreno di contrapposizioni e di scontri a valenza pubblica. Jasmine, che crede di avere raggiunto una propria autonomia, scopre con la crisi dell’adolescenza e le prime tensioni sentimentali le pressioni incrociate dell’ambiente italiano, con le tentazioni di una libertà femminile, e dei valori che la comunità egiziana impianta nella dimensione transnazionale, rendendoli efficaci con la forza e il sotterfugio. La scelta della giovane segue un percorso personale, che riscatta la sofferenza con una feconda prospettiva di ironia, indirizzata alle rigidità di parti scioccamente in contrasto, che spingono ad una impossibile «ricerca di duplice coerenza»74 e lealtà a valori contrastivi che si rivela fragili se letti attraverso un nuovo immaginario giovanile:


Nemmeno uno sforzo di avvicinarsi a una prospettiva estranea. Parallela alla propria, certo, non convergente.

Che a qualcuno passi per l’anticamera del cervello che forse non esiste un modo giusto di essere donna, ma che esistono solo modi diversi? Improbabile.

Che si provi in qualche modo ad andare oltre il luogo comune, il sentito dire, il blocco monolitico, ad andare più a fondo? Impossibile.

Ma io la sento la mentalità. È qualcosa di stratificato, complesso, poliedrico.

Mi complica, proprio così.

Voglio dire, a che pro appiattirci? Perché diventare anonimi? Perché rinunciare a esprimere la nostra diversa identità?75


Esercizio di alta acrobazia, che condiziona gli atti quotidiani e diviene il passaggio obbligato di un’esistenza che sembra al fine mantenere la ricchezza di una gamma tanto dolorosa quanto stimolante di impulsi bilanciati fra loss e hope:76


A volte chiudo gli occhi e provo a immaginare di involarmi, di abbandonare il mio corpo, la mia vita.

Assecondando il mio desiderio inespresso di piombare in un’altra vita, non questa, una più facile, più lineare,.

Una famiglia come le altre, tutte quelle che le stanno intorno.

Una religione che non ha bisogno di essere difesa, spiegata, mediata ogni giorno.

Un’identità chiara, precisa, uniforme.

Quando smetto di fantasticare, piombo di nuovo dentro me stessa e lascio che la frustrazione sfumi lentamente, fino a ricominciare, piano piano, a capire chi sono.

E così imparo un pezzetto di me ogni giorno.77


E in questo si esprime una perfetta coincidenza con «una esperienza processuale, relazionale, dinamica»78 che implica percorsi di adattamento e negoziazione, lungo i quali simboli, idee, tratti culturali e senso di appartenenza, attraversano un processo di dispersione e rilocalizzazione, che implica un incessante lavorìo di mediazione tra affiliazioni complesse e appartenenze multiple.


Sono sempre lì, tesa verso l’integrazione perfetta, l’assimilazione più totale. Senza rendermi conto che forse alla fine è un miraggio lontano. Tu ti sforzi e fai di tutto per avvicinarti, ma più ti avvicini più perdi qualcosa di te, e anche se sembra sempre più vicino, non ci arrivi mai.

E l’unica soluzione, alla fine, rimane tornare indietro. Quando ti rendi conto che non raggiungerai mai la meta, ti volti e torni indietro. Ma quando ti giri di nuovo a guardarla, non c’è più, perché in realtà forse non c’era mai stata.79


Splendido ritratto di una generazione inquieta e costretta alla mobilità, se non con le traversie reali che hanno affrontato i genitori, nella condizione straziante di una quotidianità bifronte e contraddittoria, lungo la quale continuano a muoversi, ansiosi di una stasi pacificata, questi Equilibristi dell’essere,80 pur consapevoli dei potenziali che da quell’incertezza possono derivare:


La maggior parte delle persone conosce per lo più una cultura, un contesto, una casa; gli esuli ne conoscono almeno due, e questa pluralità di prospettiva dà origine a una consapevolezza di dimensioni simultanee, una consapevolezza che – per usare un termine musicale – è contrappuntistica.81


(applausi)


Julio Monteiro Martins Grazie, professor Pezzarossa. Vi inviterei ora a fare delle domande… Magari comincio io? Bene. All’inizio del suo intervento, il professore commentava questo fatto strano, curioso, che i migliori autori, quelli migranti ma credo anche quelli della cosiddetta seconda generazione, e i testi più importanti, siano pubblicati da case editrici, come ha detto lui, “clandestine”. Mentre le grandi case editrici, quando hanno aperto degli spazi editoriali per questa letteratura, hanno scelto quasi sempre testi scadenti, di importanza molto secondaria. Come si può spiegare questo panorama editoriale? (silenzio, poi risate generali) E cioè, mi domando se dentro le grandi case editrici ci siano delle persone, insomma, dei direttori editoriali, che cerchino di capire e di conoscere questa realtà letteraria, e di pensare per esempio alla creazione di una collana interna o qualcosa di simile?


Karim Metref – Volevo agganciarmi a questa domanda di Julio, però guardandola anche da un’angolazione diversa. È vero che le case editrici, alcune case editrici più grandi, quando hanno scelto di pubblicare degli autori migranti, hanno preso dei parametri non legati alla qualità dei testi ma piuttosto alla bellezza della ragazza, o al ragazzo che fa tatuaggi a Cuneo o proveniente dalla Transistria, tra l’altro il racconto è interessante, non so se avete letto, “L’educazione siberiana”, però hanno puntato sulle cose di marketing e di immagine, di vendibilità attraverso i media, ma non è sempre il caso nella realtà, perché ormai ci sono un bel po’ di autori immigrati che sono pubblicati dall’Einaudi, dalla Feltrinelli, dalle grandi case editrici, per cui questa difficoltà di trovare una “casa” – faccio una domanda un po’ provocatoria – non è forse anche dovuta al fatto che ci sono tantissimi autori immigrati che pubblicano soltanto perché sono immigrati, e essendo immigrati riescono a inserirsi nel mercato di nicchia delle piccole case editrici che vivono di questo ma i cui testi forse non valgono veramente la pena?



Fulvio Pezzarossa
– Io non ho risposte. Ho come voi tanti dubbi, anche perché personalmente non ho collegamenti con case editrici, né piccole né grandi, e non so effettivamente come funzionano le cosiddette grandi case editrici, che probabilmente poi lavorano più su una dimensione internazionale, preferendo casomai la traduzione, acquistare i diritti, e tradurre testi omologhi che vengono dall’area francofona o anglofona soprattutto, o spagnola con la scoperta del continente sudamericano, o legata a ragioni di questa natura. È pur vero quello che dice Karim, che non tutti meriterebbero Einaudi o Mondadori. Indubbiamente, quello che dobbiamo conoscere oggettivamente, prima ancora di dare dei giudizi, è che non c’è una strategia, ed è quello che disorienta. Non c’è una strategia né nelle piccole né nelle grandi case editrici, che io abbia capito. E quello che mi dispiace è proprio questo, perché da quello che so nessuno dei pochi critici letterari o studiosi accademici che lavorano a questi temi è mai stato consultato da una casa medio-alta per avere opinioni, suggerimenti, ecc, quindi scattano in loro probabilmente quei meccanismi puramente commerciali, per cui indubbiamente “L’infanzia siberiana” o “la formazione siberiana” colpisce, come colpisce appunto la Fofana, che pure in quei giorni era anche candidata politica, e quindi in qualche modo c’era una strategia di quel tipo, non saprei che risposta dare.


Julio Monteiro Martins – Su questo secondo punto avrei un’altra domanda: Qualche anno fa, cercando di analizzare – una volta che sono coinvolto con la letteratura migrante non solo come scrittore ma anche con questi seminari che organizzo – praticamente conosco tutti, o quasi tutti insomma, e osservando tra le diverse possibilità di clivaggio, di divisione, avevo proposto questa, che è frutto di un’osservazione empirica e diretta, e cioè la divisione tra scrittori migranti e migranti scrittori. Cosa volevo dire con questo? La conoscenza di questa differenza è nata soprattutto dall’analisi che avevo fatto della motivazione di fondo della scrittura, ossia nei migranti scrittori, come li ho chiamati, la motivazione sarebbe l’atto migratorio, l’evento nella vita stessa di chi scrive, e nell’altro gruppo la motivazione sarebbe squisitamente letteraria, legata a persone che già scrivevano prima di migrare. Ieri per esempio, abbiamo visto il caso di Barbara Serdakowski. Scrivevano già e poi hanno dovuto trasportare il loro lavoro in una lingua straniera o in diverse lingue straniere. Casi come il mio caso, in cui il nucleo della motivazione, la causa stessa della migrazione, è la letteratura. Come vede questa analisi?



Fulvio Pezzarossa
– Ti ringrazio. Volevo dire che è una formula straordinaria, che i miei studenti impareranno immediatamente e riusciranno ad applicare, quindi ha una grande efficacia, anche in chiave didattica. La condivido in pieno. E poi si lega probabilmente anche al discorso che si faceva prima, nelle case editrici c’è molta incertezza nel distinguere tra le due, e forse non hanno tempo e la possibilità di vagliare lo scrittore dal migrante, sono cose che si presentano su un piano molto complesso. È una delle tante etichette… in realtà ho letto su “Il manifesto” quindici giorni fa quando si presentava il romanzo di Gangbo che “tutti noi siamo assolutamente sorpassati, ormai fuori dalla Storia perché “scrittori migranti”, “Letteratura della migrazione”, “letteratura dei migranti” non si dovrebbe più dire”. Maria Teresa Carbone dice così e io non lo so, adesso aspetto che lei mi comunichi la nuova formula, e poi l’applicherò, mi ha fatto piacere sapere che è una brutta parola, una brutta espressione, non lo so. Noi, a livello di rivista, abbiamo cercato di superare o di spostare leggermente il fuoco, parlando di “scritture migranti”, che è una cosa diversa degli scrittori migranti, quindi astraendoci poi dai percorsi biografici e ragionando sul tessuto dei testi. E vedo che il termine – per quanto “Il manifesto” non sia d’accordo – questo di “scritture migranti” è di fortissima tenuta in un ambito sensibile alla multiculturalità com’è l’ambito canadese. “Scritture migranti” in realtà pare che sia stato io il primo ad usarlo in Italia ma non me ne sono accorto. E se è così non ho colpa né merito. Ma in realtà c’era chi mi aveva preceduto in ambito canadese, dove appunto “scritture migranti” è proprio il termine onnicomprensivo di questa dinamica complessa che intreccia le polarità anche con le lingue occidentali, francese e inglese, con quelle nuove portate dai nuovi migranti e anche dai Caraibi, dal Sudamerica e così via, e lì una forte attualità è proprio circoscrivere questo tipo di testi intesi a tener insieme non tanto percorsi individuali e quindi legati soltanto alla vicenda biografica, ma alla dinamica culturale, ecco, “scritture migranti” potrebbe essere un modo per ragionare in termini di dibattito culturale e letterario, astraendo dai percorsi individuali, che però pesano ovviamente.


Daniele Barbieri – Confermo quello che diceva Julio, per conoscenza diretta. Cioè per aver tentato di aiutare alcuni scrittori e scrittrici giovani sia italiani che di altre origini, ad aver un dialogo con le case editrici, che questa figura così importante, che forse appartiene un po’ anche al meglio, alla parte migliore della storia, non esiste più. Se ci sono consulenti non vengono ascoltati, non hanno potere, quindi prendono uno stipendio, bene per loro, però nelle case editrici medio-grandi non contano nulla. Quindi, confermo questo per conoscenza diretta. Poi la domanda di Fulvio diceva: che ne dite di questa cosa che ho scritto? Dev’essere ancora pubblicata? Vi annoia molto? la risposta è: No. È assolutamente bella, è interessante, è appassionante e quindi ne vogliamo un altro pezzo se c’è, ma non c’è, bene. Non da studioso,ma da disordinato quale io sono, volevo aggiungere alcune cose anche in forma di domande. Nel racconto “Valigie”, se non ricordo male, c’è uno straordinario colpo di scena, che però è anche una bella questione per noi, lo vuoi dire tu o lo dico io? Se non ricordo male… Oddio, io sono uno che ogni tanto quando racconta i film cambia i finali, e poi vado a vederlo e l’ho cambiato io il film, che non era così, ma insomma, ho letto un paio di volte quello di Igiaba, se non ricordo male non è forse un colpo di scena, ma insomma lo è emotivamente, perché quando finalmente Igiaba convince sua mamma all’armadio, e non alle valigie, scopre che nelle valigie c’è la parte somala, ma che lei ha già preparato le valigie con la parte italiana, per quando tornerà in Somalia. E mi sembra bellissimo letterariamente ma ci pone anche una questione, come dire? Questa mamma che può tornare in Somalia ma però poi l’Italia se la porta in valigia, no? Poi ti volevo chiedere se nella parte che non ci hai letto, a cui stai lavorando, non so che forma prende, se ti è capitato di incontrare, poi è inedito appunto, per ora, perché non ha trovato editori attenti, però ho letto in diverse occasioni e ho ascoltato a Milano, il lavoro di Brhan, il giovane scrittore eritreo, perché lui ha fatto un lavoro sulla cosiddetta “seconda generazione” che io ho ascoltato a Milano, in un luogo pieno di ragazzi e mi è sembrato di grande interesse, non ti è capitato di ascoltarlo? Perché secondo me lui è il primo che in Italia riesce a mostrare le molte sfaccettature che anche nelle cose che tu hai nominato affiorano. Se vuoi vi metto in contatto perché mi sembra interessante. Non so che tempo c’hai per la pubblicazione, ma siccome forse nel frattempo anche Brhan riesce a pubblicare, è interessante. Poi ti segnalo, se ti è sfuggito, che nell’antologia “Seppellì la mia pelle in Africa” del mio grande amico Barole Abdu c’è un racconto su cercare casa che…


Julio Monteiro Martins – Sì, infatti, mi ricordo, tutte quelle difficoltà per l’affitto, che diventa impossibile… Molto interessante…


Daniele Barbieri – Eh sì. Poi, due cose, se non ricordo male, nel racconto “colf”, quello della Kuruvilla, o comunque in quella antologia, forse è un altro racconto, c’è un discorso interessante sul fatto che non sono assolutamente vietate qui le cosiddette coppie miste, anzi naturalmente l’esotico ha sempre un che di erotico, no? Ovviamente… Però lei dice: forse il problema è che sono i ricchi italiani che si prendono le giovani straniere, o qualche ricca italiana che si prende qualche giovane straniero, e in questo senso non è che è stata superata la barriera del razzismo, si è semplicemente spostato su un razzismo di censo, di ricchezza, no?


Anna Frabetti – Due cose. La prima si lega a quello che diceva il professor Pezzarossa a proposito delle case editrici, di questa sorta di normalizzazione, il libro sul camerunese, la sua parabola… questa è una cosa dalla quale mi sono occupata un pochino nell’ambito della franco fonia, che purtroppo si trova anche in una letteratura come quella che esiste già da tanto, tanto tempo. Faccio un esempio, che mi ha particolarmente colpita, in qualche modo c’è un grande mercato di premi letterari, e quindi chi ha un premio letterario francese, entra in qualche modo nell’Olimpo, e negli ultimi anni ci sono stati autori che sono entrati appunto in questo Olimpo attraverso i premi letterari, c’è un autore congolese che si chiama Alain Mabanckou, che vive in America, ma scrive in francese, questo autore aveva un blog, fino a qualche anno fa, che era veramente uno strumento di espressione liberissima, in cui si parlava non solo di letteratura, ma di politica, eccetera, eccetera, e questo autore è… non parliamo del suo valore letterario, parliamo di ciò che rappresenta, è un autore che è anche uno studioso, è giovane, si presenta in un certo modo, si addice a un certo tipo di panorama letterario francese, e questo autore ha vinto un premio prestigioso, e da quel momento il blog è stato chiuso, quindi quel blog è diventato da quello spazio che era di libera discussione su tanti temi, anche letterari, è diventato un blog personale, quindi il blog dell’autore, punto e basta. Ed è abbastanza significativo, ovviamente è un’operazione sotterranea che non è stata motivata, le due cose non sono state messe in relazione, ma mi pare abbastanza comprensibile questo tipo di dinamica, che vale per lui valga anche per altri, quindi in questo senso anche il discorso delle collane può per certi aspetti diventare un discorso pericoloso, nel senso che diventa una sorte di canale normalizzante. Il libro della Kuruvilla non è stato messo in una collana di nessun genere, è fra tanti altri autori. Allora, c’è il rischio del disordine, della poca riconoscibilità, della poca visibilità, ma è anche vero che forse alcune case editrici così facendo escono da quella dinamica non solo di commercializzazione ma anche di folclorizzazione che questo tipo di fenomeno ha al suo inizio, ma poi anche nel suo svolgersi. Poi ho un’altra osservazione, rifacendoci a tutto quello che si diceva stamattina, e appunto anche alla difficoltà di questa letteratura, c’è un saggio che in realtà non parla di questo, ma ne parla indirettamente, è un saggio di Massimo Rizzanti che è uscito proprio quest’anno, e si intitola “Non siamo gli ultimi – La letteratura fra fine dell’opera e rigenerazione umana” , ed è una raccolti di saggi in francese – lui collabora con L’Atelier du Roman – e quindi sono conferenze fatte in quelle occasioni, e ad un certo punto si parla della “scomparsa di dialoghi nella riflessione collettiva sostituiti dalle novità di libri di successo”, parla di quello che lui chiama “il deficit d’ascolto”, e non lo lega in particolar modo a alcun tipo di corrente letteraria, e dice “questi deficit presuppongono una – e lo dice tra virgolette – liberazione dai libri del passato e una cieca fiducia nei nuovi prodotti di successo. È Celati, che recensisce questo libro, chi parla: “Il deficit di ascolto nasce da processi di velocizzazione dell’attualità” e trova Rizzanti in alcuni autori, chiamiamoli “migranti”, autori di varia provenienza, cita Danilo Kiš per esempio, una sorta di alternativa proprio a questo andamento, e dice “questa mancanza di ricerca del passato è il contrario della ricerca del passato, del legame con la morte, con ciò che questo processo di velocizzazione ci costringe o ci induce ad eliminare, proprio gli autori che vanno oltre le frontiere, e anche le frontiere linguistiche, sono portavoci, al contrario di questa ricerca del passato, quindi rappresentano una sorta di controtendenza. E lui parla proprio di “frontiere erranti della letteratura” e dice “gli autori non sono più chiamati a rappresentare una lingua nazionale bensì l’eterogeneo brulichio delle lingue, le frontiere erranti della letteratura, e proprio gli autori che hanno un’esperienza di esilio, o semplicemente di migrazione, più rappresentano questo tentativo di ricerca a ritroso in qualche modo, quindi di fuga da questo presente assoluto, e cito Celati in quest’ultima frase di questa recensione, “oltre alle varietà di idee e richiami ad autori varissimi c’è una linea di sviluppo che va dalla recente trasformazione del sistema letterario all’avvento di una letteratura senza territorio, con frontiere erranti, con autori per lo più esuli o espatriati, una letteratura sganciata dal grande pubblico e dalle cosche nazionali, dove i libri che scriviamo ridiventano lettere inviate ad amici ignoti”. Anche se il discorso non riguarda assolutamente la letteratura della migrazione, ma in generale gli autori appunto che vanno oltre le frontiere, al di lì dell’Italia, mi ha fatto effettivamente pensare che questa sarebbe una chiave di lettura e questo forse spiega il perché della difficoltà nell’approccio con la visibilità e con la sensibilità delle case editrici.


Julio Monteiro Martins – Con questo intervento chiudiamo questa sezione del nostro seminario. Grazie a tutti.

 



NOTE

1 M. Cristan, (fanculopensiero), Milano, Feltrinelli, 2007, p. 34.

2 A. Brandalise, Italiani e anche altro, in «Trickster», Rivista del master di Studi Interculturali dell’Università di Padova, n. 7, novembre 2008, G2 Generazioni alla seconda, http://trickster.lettere.unipd.it/doku.php?id=seconde_generazioni, le citt. a pp. 1 e 3.

3 Cfr. i saggi dedicati alla realtà europea in. Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, a cura di M. Ambrosini e S. Molina, Torino, Fondazione G. Agnelli, 2004.

4 Come ribadisce l’acuta lettura di J. Andall, Italiani o stranieri? La seconda generazione in Italia, in Un’immigrazione normale, a cura di G. Sciortino e A. Colombo, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 281-307. Cfr. M. Ambrosini, Il futuro in mezzo a noi. Le seconde generazioni scaturite dall’immigrazione nella società italiana dei prossimi anni, in Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia cit., pp. 1-53; ma si veda G. Della Zuanna, P. Farina, S. Strozza, Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Bologna, il Mulino, 2009

5 Cfr. M. Ambrosini, Italiani col trattino. Identità e integrazione tra i figli di immigrati, in «Educazione Interculturale», VII, n. 1, 2009, Seconde generazioni tra complessità e opportunità, pp. 17-39: 21-22.

6 L. Queirolo Palmas, Prove di seconde generazioni. Giovani di origine immigrata tra scuole e spazi urbani, Milano, F. Angeli, 2006, p. 17.

7 Intenzionalmente «scritto senza pretese» (p. 9) si dichiara l’intervento di A. Ciampaglia, Imparando a farsi ospiti: un viaggio attraverso le parole. Riflessioni erranti intorno agli scritti di seconda generazione, in G2 Generazioni alla seconda, cit., che finisce per occuparsi di alcune voci specifiche dell’ambito postcoloniale italiano, sulle quali da tempo lavora D. Comberiati; cfr. ad es. La letteratura femminile della migrazione: le scrittrici dell’ex colonie italiane di seconda generazione, in Racconti dal mondo. Narrazioni, saggi e memorie delle emigrazioni, a cura di P, Corti e M. Tirabassi, Torino, Fondazione G. Agnelli, 2007, pp. 189-205; Il postcolonialismo italiano fra memoria storica e guerra d’Etiopia: una questione di genere?, in «Scritture Migranti», 2, 2008, pp. 107-127.

8 Sul termine, e sulle prospettive critiche a distanza di un quindicennio, la sintesi di I. Vitali, Topografia della banlieue nel romanzo contemporaneo di lingua francese. Da Azouz Begag a Rachid Djaïdani, in «Africa e Mediterraneo», 59, 2007, Giovani, migrazione e società tra Nord e Sud del Mediterraneo, pp. 7-10.

9 A.M. Mangia, Scrittura e identità, in «Africa e Mediterraneo», 6, 1993, pp. 69-79.

10 Ricco di osservazioni, però non sistematiche, il contributo su scrittori italiani di seconda generazione di J.-J. Marchand, Un trentennio di narrativa dell’emigrazione italiana in Svizzera: verso nuovi codici?, in Gli spazi della diversità, Atti del Convegno internaz. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, Leuven, Louvain-la-Neuve, Namur, Bruxelles, 3-8 maggio 1993, a cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bosche, Roma, Bulzoni-Leuven, University Press, 1995, II, pp. 517-529.

11 Per quanto fortemente polemico sull’impiego del termine seconde generazioni (p. 6), egli si dichiara attento al riflesso letterario del tema, che lo affascina come progetto narrativo, a fronte della convinzione che «Nessuno degli scrittori di seconda generazione è riuscito a raccontare del passaggio casa-fuori: stranieri a casa, ma italiani fuori. Vi è un passaggio continuo, quotidiano dal fuori in cui si è in una condizione a un dentro in cui si è in un’altra.. tanti scrittori raccontano del ritorno a casa. Nessuno riesce a raccontare la condizione del passaggio continuo: nessuno riesce a raccontare la doppia assenza», La scrittura come pellegrinaggio circolare. Conversazione con Tahar Lamri, a cura di E. Tabarroni, G2 Generazioni alla seconda, cit., p. 2.

12 Le voci dell’arcobaleno, a cura di A. Ramberti e R. Sangiorgi, Santarcangelo, Fara, 1995, pp. 35-53; raccolto nel suo volume I sessanta nomi dell’amore, Santarcangelo, Fara, 2006, pp. 20-35, poi Napoli, Tracce Diverse, 2007, pp. 14-33.

13 N. Chohra, Volevo diventare bianca, a cura di A. Atti di Sarro, Roma, Ediz. e/o, 1993.

14 B. Hirst, Inchiostro di Cina, Palermo, la Luna (Arci Donna), 1986, e Milano, La Tartaruga, 1987; rifuso e ampliato in Blu Cina, Casala Monferrato (AL), Piemme, 2005.

15 P. Bonizzoni, Catene d’oro, sangue e amore: famiglie emigranti e vita economica tra dimensione locale e transnazionale, in «Mondi Migranti», 3, 2008, Consumi e identità, a cura di L. Leonini, pp. 39-62: 39.

16 Y. Laffram nell’intervista di A. Corio, Una moschea di vetro, in G2 Generazioni alla seconda, cit., pp. 3-4.

17 K. Rhazzali, Seconde generazioni sulla soglia, in G2 Generazioni alla seconda; cfr. Appartenenze multiple. L’esperienza dell’immigrazione nelle nuove generazioni, a cura di G. Valtolina e A. Marazzi, Milano, F. Angeli, 2006.

18 A.G. Hargraves, Street Culture: Dead End or Global Highway, in Migrant Cartographies. New Cultural and Literary Spaces in Post-Colonial Europe, ed. by S. Ponzanesi and D. Merolla, Lanham (MD), Lexington Books, 2005, pp. 205-216. Alcune esperienze italiane indicate da M. Zuppiroli, Linguaggi urbani e letteratura migrante “in rete”, in Appendice a Letterature migranti e identità urbane. I centri interculturali e la promozione di spazi pubblici di espressione, narrazione e ricomposizione identitaria, a cura di M. Traversi e M. Ognisanti, Milano, F. Angeli, 2008, pp. 293-310.

19 Significative le testimonianze orientate alla espressione delle problematiche autobiografiche in chiave di creatività letteraria raccolte in Verso quale casa. Storie di ragazze migranti, a cura di M.C. Patuelli, Bologna, Giraldi, 2005.

20 L. Queirolo Palmas, Prove di seconde generazioni. Giovani di origine immigrata tra scuole e spazi urbani Milano, F. Angeli, 2006, p. 74 e sgg.

21 F. Balsamo, Famiglie di migranti. Trasformazione dei ruoli e mediazione culturale, Milano, Roma, Carocci, 2003, pp. 40-43; S. Palidda, il cap. Una paternità inopportuna, nel suo vol. Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Milano, R. Cortina, 2008, pp. pp. 146-154.

22 M. Ambrosini, Italiani col trattino. Identità e integrazione tra i figli di immigrati cit., p. 33.

23 G. Della Zuanna, P. Farina, S. Strozza, Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese? cit., pp. 62-63.

24 Ivi, p. 63. Non a caso Jasmine, la protagonista del romanzo di Ghazy (analizzato in seguito) «sa sempre il nome degli altri, ma il suo non lo svela mai. […] evita di essere inserita in una categoria», Generazione ed evoluzione della scrittura. Intervista a Randa Ghazy di L. Conte, in G2 Generazioni alla seconda, cit., p. 3; sfuggendo così al meccanismo di Nominazione e violazione, cfr. P. Calefato, Nomi, imperi, traduzioni, in Ead., Che nome sei?. Nomi, marchi, tag, nick, etichette e altri segni, Roma, Meltemi, 2006, pp. 145-169: 145-148.

25 G. Parati, Living in Translation. Thinking with an Accent, in «Romances Language Annual», VIII, 1996, pp. 280-286, cfr. E. Giunta. Writing with an Accent. Contemporary Italian American Women Authors, New York, Palgrave, 2002.

26 Cfr. H.K. Bhabha, Sull’imitazione e l’uomo. L’ambivalenza del discorso coloniale, in I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, pp. 123-132.

27 «L’Italia che descrivono gli scrittori, anzi le scrittrici migranti di seconda generazione […] è una sorta di Repubblica delle Banane», R. Sangiorgi, Noi ‘spaesati’, Introduz. a La seconda pelle, a sua cura, S. Giovanni in Persiceto (BO), Eks&Tra Editore, 2004, pp. 7-11: 8-9.

28 Con un significato del tutto diverso, anzi di netta distinzione, rispetto alla spontanea acculturazione a provenire da lingue altre, locali e coloniali, per i migranti scrittori di prima generazione, come più volte testimoniato ad es. da Pap Khouma, Eurostranieri ed afroeuropei, in Scrittura e migrazione. Una sfida per la lingua italiana, a cura di L. Barile, D. Feroldi, A. Prete, Siena, Edizioni dell’Università, 2009, pp. 103-123: 104-108.

29 S. Abdel Qader, Porto il velo, adoro i Queen. Nuove italiane crescono, Milano, Sonzogno, 2008.

30 Opinabile la sua evocazione di affinità linguistica rispetto a strati popolari e agricoli, in realtà succubi dei media, privati di voce originale, e costretti nella marginalità a una contrapposizione con gli stranieri secondo la regia micro-borghese leghista, cfr. M. Ognisanti, Scrivere come cura del sé: intervista a Gabriella Ghermandi, in Letterature migranti e identità urbane. I centri interculturali e la promozione di spazi pubblici di espressione, narrazione e ricomposizione identitaria cit., pp. 166-170: 167. In effetti questa comunanza solidale poteva valere per la stagione degli anni Ottanta, testimoniata dal peso del romagnolo, e di altri dialetti padani, nei testi di Tahar Lamri, cfr. I sessanta nomi dell’amore cit.

31 Cfr. M. Yegenoglu, From Guest Workers to Hybrid Immigrant: Changing Themes of German Turkish Literature in Migrant Cartographies. New Cultural and Literary Spaces in Post-Colonial Europe cit., pp. 137-149: 144-145, sulle seconde generazioni estraniate dallo spazio domestico anche attraverso la dimensione del linguaggio; e per l’Olanda R. Buikema, A Poetic of Home: On Narrative Voice and the Deconstruction of Home in Migrant Literature, ivi,, pp. 177-187.

32 Ovvio il riferimento anche al suo ultimo romanzo, titolato appunto Due volte, Rom a, Edizioni e/o, 2009.

33 Intervista a J. Gangbo, In terra di nessuno, http//www.alf-fvg.it/immigrazione/temi/culture/2003/gangbo.pdf

34 Milano-L’Aquila, Lupetti e Fabiani, 1999.

35 Ivi, p. 117.

36 Ivi, pp. 30-31.

37 Ivi, pp. 165, 135.

38 L. Domaneschi, Nuovi consumatori? Identità etnica e rappresentazioni visuali del gusto in un gruppo di giovani immigrati di seconda generazione, in «Mondi Migranti», 3, 2008, Consumi e identità cit., pp. 81-100: 81.

39 J.M. Gangbo, Com’è se giù vuol dire ko, in Italiani per vocazione, a cura di I. Scego, Firenze, Cadmo, 2005, pp. 137-185. Il titolo riprende un verso dal testo Solo fumo del rapper bolognese Neffa.

40 L. Queirolo Palmas, il cap. Disvelare gli invisibili. Prove di seconde generazioni in Italia, in Prove di seconde generazioni. Giovani di origine immigrata tra scuole e spazi urbani cit., pp. 181-189; cfr. B. Caggiati, Gli immigrati di seconda generazione, in Tra luoghi e generazioni. Migrazioni africane in Italia e in Francia, a cura di C. Landuzzi, A. Tarozzi, A. Treossi, Torino, L’Harmattan Italia, 1995, pp. 131-150.

41 Interessante testimonianza di quelle abbozzate costruzioni spontanee di ethnoscapes, con riferimenti a immaginari, forme culturali, linguaggi esistenziali che travalicano le distinzioni di vecchie nicchie nazionali (L. Queirolo Palmas, Prove di seconde generazioni. Giovani di origine immigrata tra scuole e spazi urbani cit., p. 182), e pertanto fanno ricorso alla sfera del consumo come legame intragenerazionale sovra etnico, cfr. L. Leonini, Consumatori, risparmiatori, imprenditori. I nuovi italiani e il mercato, in «Mondi Migranti», 3, 2008, Consumi e identità cit., pp. 33-37; Ead., Giovani immigrati di seconda generazione: stranieri o italiani? Il ruolo dei consumi nella costruzione dell’identità, in Cum sumo. Prospettive di analisi del consumo nella società globale, a cura di E. Di Nallo e R. Paltrinieri, Milano, F. Angeli, 2006, pp. 125-144.

42 J.M. Gangbo, Com’è se giù vuol dire ko cit., p. 149.

43 Ivi., p. 176.

44 Ivi., p. 179.

45 Pecore nere. Racconti, a cura di F. Capitani-E. Coen, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 109-138.

46 I. Scego, Salsicce, in Pecore nere cit., pp. 23-36. Cfr. M. Hanna, «Non siamo gli unici polemici». Intersecting Difference and the Multiplicity of Identity in Igiaba Scego’s Salsicce, e C. Siggers Manson, Sausages and Cannons. The Search for an Identity in Igiaba Scego’s Salsicce, in «Quaderni del ’900», IV, 2004, La letteratura postcoloniale italiana. Dalla letteratura d’immigrazione all’incontro con l’altro, pp. 67-75, e 77-85.

47 L. Wadia, Curry di pollo, in Pecore nere cit., pp. 39-52.

48 Ivi, pp. 50, 51; cfr. sul tema dell’interculturalità del cibo, interessanti i testi di Mondopentola, a cura d L. Wadia, Isernia, Cosmo Iannone Ed., 2007. Nella ricca bibliografia critica almeno Cibo, cultura, identità, a cura di F. Neresini e V. Rettore, Roma, Carocci, 2008; S. Cinotto, La cucina diasporica: il cibo come segno di identità culturale, in Migrazioni, a cura di P. Corti e M. Sanfilippo, Annali, 24 della Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009, pp.653-672.

49 Cfr. S. Ahmed, Strange Encountres. Embodied Others in Post-Coloniality, London and New York, Routledge, 2000,; e almeno i saggi raccolti in Place throgh the Body, ed. by H.J. Nast and S. Pile, London-New York, Routledge, 1998; oltre a L. Curti, La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, Roma, Meltemi, 2006.

50 I. Scego, «Dismatria», in Pecore nere cit., pp. 5-21: 12. Preziosa la lettura di L. Quaquarelli, Salsicce, curry di pollo, documenti e concorsi. Scritture dell’immigrazione di “seconda generazione”, in «Narrativa», n.s., 28, 2006, Altri stranieri, pp. 53-854.

51 L. Curti, Vicino a casa, lontano da casa: voci da un impero minore cit., p. 211.

52 A. Sayad, Il foyer dei senza famiglia, in Id., L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del provvisorio, Verona, ombre corte, 2008, pp. 49-75: 56.

53 I. Scego, «Dismatria» cit., pp. 19-20.

54 Racconti, sguardi, ricordi tra Milano e l’India. Intervista a Gabriella Kuruvilla di A. Cocco, in G2 Generazioni alla seconda cit., p. 2. Sull’utilizzo dell’ironia, appaiono però approssimate le posizioni teoriche espresse da I. Mubiayi Kakese, Uno sguardo “al contrario”: l’ironia come strategia letteraria, e G. Kuruvilla, Intorno all’autobiografia. L’uso dell’ironia nella rappresentazione di sé e degli altri, in Lingue e letterature in movimento. Scrittrici emergenti nel panorama letterario italiani contemporaneo, a cura di S. Camilotti, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 89-105 e 107-123; un'altra dichiarazione di poetica sul tema Generazione ed evoluzione della scrittura. Intervista a Randa Ghazy di L. Conte, in G2 Generazioni alla seconda, cit., p. 1.

55 G. Kuruvilla, India, in Pecore nere cit., p. 82. Cfr. A. Djouder, Disintegrati, Milano, il Saggiatore. 2007, p. 110: «La nostra identità è in mille pezzi. Non potete immaginare fino a che punto. […] L’identità è una cosa fragile. Assomiglia a un puzzle. Se hai il numero giusto di pezzi, però provenienti da puzzle diversi, per quanto provi a metterli insieme, non verrà fuori niente, la tua immagine non somiglierà a niente».

56 V. Chandra, Media chiara e noccioline, Roma, DeriveApprodi, 2001.

57 Ivi, p. 71.

58 Ivi, p. 81.

59 Ivi, p. 126.

60 La casa insomma non riesce a divenire «place to secure the roots and routes of one’s destination», S. Ahmed, Home and away, in Strange Encountres. Embodied Others in Post-Coloniality, cit., p. 77.

61 V. Chandra, Media chiara e noccioline cit., p. 148.

62 G. Kuruvilla, È la vita, dolcezza, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008.

63 Sarebbe di grande interesse sperimentare la sovrapposizione fra le collocazioni abitative dei personaggi, e i profili estremamente fluidi delle loro identità, che si è tentato di ricondurre entro gli atteggiamenti fondamentali di rivendicazione, reinvenzione, difesa, contrapposizione, metà e metà, sospensione; cfr. E. Caneva, Giovani di origine straniera e strategie identitarie : il ruolo delle pratiche di consumo nella costruzione di sé, in «Mondi Migranti», 3, 2008, Consumi e identità cit., pp. 63-80: 74.

64 G. Kuruvilla, Intorno all’autobiografia. L’uso dell’ironia nella rappresentazione di sé e degli altri cit., p. 118.

65 G. Kuruvilla, La casa, in È la vita, dolcezza cit., pp, 33-39.

66 G. Kuruvilla, Nero a metà, in È la vita, dolcezza cit., pp, 21-32.

67 G. Kuruvilla, Fratelli, in È la vita, dolcezza cit., pp, 111-124.

68 G. Kuruvilla, Badante, in È la vita, dolcezza cit., pp, 91-103.

69 G. Kuruvilla, Colf, in È la vita, dolcezza cit., pp, 67-77.

70 G. Kuruvilla, È la vita, dolcezza, in È la vita, dolcezza cit., pp, 141-151.

71 Ivi, p. 141.

72 R. Ghazy, Sognando Palestina, Milano, Fabbri, 2002.

73 R. Ghazy, Oggi forse non ammazzo nessuno. Storie minime di una giovane musulmana stranamente non terrorista, Milano, Fabbri, 2007.

74 A. Jabbar, Frizioni e confini: parole di seconde generazioni, in Letterature migranti e identità urbane. I centri interculturali e la promozione di spazi pubblici di espressione, narrazione e ricomposizione identitaria cit., pp. 106-118: 112; forse l’unico sociologo ad utilizzare un testo letterario, appunto il lavoro della Ghazy, pp. 113-115.

75 R. Ghazy, Oggi forse non ammazzo nessuno cit., p. 137. Di grande utilità, per gli aspetti di genere e religiosi, R. Salih, Gender in Transnationalism. Home, Longing and Belonging among Moroccan Migrant Women, New York-London, Routledge, 2003, in part. Il cap. 3, Constructing self and home between Italy and Marocco, pp. 54-80.

76 «La coscienza della diaspora vive la perdita e la speranza come motivi di una tensione distintiva», J. Clifford, Diaspore, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX , pp. 299-342: 316.

77 R. Ghazy, Oggi forse non ammazzo nessuno cit., pp. 148-149.

78 R. Salih, Attraversare confini: soggettività emergenti e nuove dimensioni della cittadinanza, in Quale storia per una società multietnica? Rappresentazioni, timori, aspettative degli studenti italiani e non italiani: un percorso di ricerca, a cura di E. Guerra-E. Rosso, Bologna, Regione Emilia Romagna, 2005, pp. 117-140: 125.

79 R. Ghazy, Oggi forse non ammazzo nessuno cit., p. 177.

80 I. Mubiayi e I. Scego, Equilibristi dell’essere, Introduzione a Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano, a loro cura, Milano, Terre di mezzo, 2007, pp. 5-9.

81 E.W. Said, Riflessioni sull’esilio, in «Scritture Migranti», 1, 2007, pp. 127-141: 140.


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