MAEMI

Guia Risari



Pensava che piovesse oro, un tempo, da giovane, quando ancora viveva a Kyongju e passava le domeniche a meditare al tempio di Kirimsa. Il padre questo gli concedeva: lavorare e pregare, guadagnarsi il presente e prepararsi al futuro, ingraziandosi gli dèi.
La vita era dura, le distrazioni poche: giusto quelle lunghe marce sotto il sole, con l'aria umida che gl'impregnava la camicia e il cappello di paglia che disegnava un cerchio d'ombra sull'asfalto.
Jin Woo camminava lento, senza fermarsi, cercando le strisce di strada più piana, invocando le nuvole e la pioggia. E quando pioveva, la felicità era tale che avrebbe danzato, incurante dei pellegrini e dei monaci silenziosi. Si conteneva, invece, e si esercitava a danzare dentro, negli spazi infiniti della mente, nelle praterie che un volo d'uccello non riesce a percorrere tutte. Questo era l'insegnamento e questo Jin Woo faceva, ricevendo le gocce sul dorso delle mani e bagnandosi piedi, gambe, schiena. Il cielo diventava bianco e la pioggia, ingiallita dalla polvere, pareva oro fuso.
All'ingresso del tempio, si fermava davanti ai guardiani di legno che lo fissavano con occhi di fuoco, prendeva fiato e lasciava che l'armonia dei colori sbiaditi dal tempo lo colmasse. I guardiani tenevano ai loro piedi servitori atterriti, con teste che fuggivano il corpo. Ma Jin Woo non s'impressionava: bianco come il metallo, giallo come la terra, verde come il legno, nero come l'acqua, rosso come il fuoco. Da questa mescolanza era nato.
Prostrato davanti alla statua di Bodhisattva, Jin Woo seguiva il ritmo del sangue e dei respiri. Le braccia stese avanti, i palmi rivolti in alto offrivano tutto a Dio, poi Jin Woo riuniva le braccia al petto e si rialzava, con la forza ricevuta dalla divinità, a fronteggiare la vita di mortale e qualche secondo dopo, di nuovo, si piegava al suolo, con la fronte a terra e le mani allungate sul cuscino.
Una vecchia aveva conficcato un bastoncino d'incenso in una ciotola di riso e un filo di fumo circondava le offerte come un fiume. Jin Woo non aveva che uva. Grappoli neri e lucenti come sassi, dai chicchi dolci e tenaci. Nella capitale si vendeva cara; lì valeva poco, ma Jin Woo non si vergognava: la povertà non era un vizio.
Anni dopo, a Busan, pensava con nostalgia al tempio; le montagne, i cinque pozzi sacri, le ore di marcia che dilatavano i pomeriggi e il sorriso breve e fermo del padre al suo ritorno. La speranza. "Sei stato a Kirimsa, figlio?"
"Sì."
"Bene". Come se davvero fosse soddisfatto, come se si attendesse finalmente un buon raccolto, come se la moglie potesse risvegliarsi dal lungo sonno che l'aveva rapita, come se l'infermità che saliva ogni anno sul suo corpo, conquistandosi porzioni più grandi, affondandogli spine velenose nella carne, si fosse arrestata.
Alla morte del padre, la malattia aveva raggiunto anche Jin Woo, come un vento caldo che non conosce confini e tutto penetra colla sua forza. Era partita dai piedi e per un lungo periodo pareva si contentasse di quelle radici per succhiare il suo nutrimento. Poi aveva cominciato a guadagnare terreno: i polpacci divennero duri come marmo e le ginocchia rigide come i pilastri di un palazzo. Finiti i pellegrinaggi, i lavori nei campi, le corse al mercato per occupare un buon posto e incitare all'acquisto con balzi, da una gamba all'altra, cantando il suo richiamo.
"Dutnuda, shipshiyo", ascoltate, per favore. E la gente spesso si fermava, se non a comprare l'uva, a guardarlo danzare. Cicala, maemi, lo chiamavano.
"Vado a comprare l'uva da maemi."
"Allora aspetta che abbia finito di saltare, prima di farti servire. Altrimenti non avrai che succo d'uva."
"Ah, ah! Hai ragione."
Jin Woo aveva capelli spessi incollati al viso e una peluria sottile che non si decise a diventare barba che tardi, quando aveva quarant'anni e non poteva più camminare senza stampelle. Ma allora, il corpo assottigliato era ancora elastico come una pianta di vite, capace di torcersi, piegarsi, snodare le membra su qualunque pendenza.
Le donne ridevano di lui e lo trattavano con familiarità; spingevano le figlie avanti, obbligandole a un saluto rispettoso, ma quelle, spaventate dalla sua vitalità, lo sfuggivano. Orfano di madre a sette anni e di padre a venti, come poteva ancora ridere e dimenarsi a quel modo?
La casa di Jin Woo si trovava sulle colline di Songon-ri, a ovest di Kyongju, inerpicata su un terreno rosso che pareva irrigato di sangue. D'autunno, le foglie volavano come farfalle e mille colori decoravano la casa di Jin Woo. Un pittore non avrebbe avuto più abilità della natura: c'erano sfumature di giallo che mimavano l'alba, altre scintillavano oro e imitavano l'ombra scura della tigre. C'erano gialli poi che Jin Woo ritrovava solo nelle foglie, gialli che aveva visto solo là, attorno alla sua casa alla fine dell'estate.
Quando il padre era morto e la malattia era rimasta sospesa nell'aria come una minaccia, ma ancora lontana, Jin Woo era partito. Aveva sentito dire che in Marocco coltivavano l'uva e che in una regione chiamata Miknès la terra e il clima potevano paragonarsi a quelli di Songon-ri.
Per i coltivatori, il Ministero dell'Agricoltura organizzava brevi soggiorni all'estero e Jin Woo presentò la sua domanda, indicando la regione che intendeva visitare e il tipo di coltura alla quale, da sempre, si era dedicato. Un funzionario lo ascoltò, con le braccia incrociate sul tavolo, davanti a un registro coperto di macchie. Aveva un viso intelligente, occhiali quadrati e capelli lucidati da un colpo di pettine. Il vestito un po' consumato mostrava che la sua carica non era ben remunerata e questo pareva renderlo più comprensivo. Nessuno chiedeva di andare in Marocco; le destinazioni più comuni erano il Giappone, Taiwan, molti domandavano la California. La stranezza e la modestia di Jin Woo convinsero il funzionario che alla fine assentì.
"Il tuo progetto mi sembra valido" disse. "Aspetta la convocazione. Annyong hika shipshiyo," aggiunse e rispose all'inchino di Jin Woo con un cenno amichevole della testa.
Jin Woo ricevette la lettera del Ministero la settimana dopo. La partenza teneva conto dei ritmi della terra. Era fissata alla fine di agosto. Jin Woo era al settimo cielo. Per la prima volta non pensò ai genitori defunti, alla solitudine, alla miseria che aveva sopportato. Per una volta guardò avanti, senza voltarsi e quel giorno la terra gli sembrò fatta di burro e le piante avevano foglie di seta. Davanti al sole che tramontava, Jin Woo si inginocchiò per ringraziare il cielo di tanta fortuna e uscì a festeggiare.
C'era un'unica taverna nel villaggio. Serviva baekban, riso e zuppa, e kimchi, verdure fermentate. Jin Woo ordinò anche una bottiglia di peksejo. Il proprietario pensò che Jin Woo volesse dimenticare i propri guai e gli si avvicinò per consolarlo. Lo conosceva fin da piccolo, quando lo chiamavano anguilla, jango, piccola rana, kaeguri e poi cicala, maemi. Alla taverna non veniva che raramente e mai per bere.
"Che cosa ti succede, figliolo?" chiese, sedendogli accanto, come un padre preoccupato.
Jin Woo scoppiò a ridere e gli spiegò come stavano le cose.
"Bevo per festeggiare, non perché tua figlia non mi guarda" concluse.
Il vecchio non poté trattenersi da una risata e afferrato il bicchiere che Jin Woo gli porgeva lo levò sopra il capo.
"Al tuo futuro. Wy ha yo!"
"Wy ha yo! " e bevvero tutta la notte, finché la testa di Jin Woo divenne pesante come una roccia.
Prese l'aereo di mattina presto. Si era vestito bene, per far buona impressione sul suo ospite.
Al momento del decollo, trattenne il fiato e cercò di zittire il cuore: "Silenzio, tu, incosciente! Sei un muscolo: devi mostrare coraggio!".
Era il suo primo volo. Vide le nuvole, il cielo, la terra tra le braccia dell'oceano, i pesci e migliaia di creature invisibili nell'aria. "Allora è questo, volare?" e si sentiva libero, un corpo con le ali. Il viaggio fu lungo, ma anche se non fosse più finito, Jin Woo non si sarebbe lamentato.
Arrivato a Rabat, un uomo alto, barbuto, con un vestito bianco e la giacca appesa al braccio sembrava aspettarlo. Sollevò un cartello e lo guardò interrogativo. Jin Woo, a fatica, decifrò: "J-I-N W-O-O K-I-M K-O-R-E-A?"
"Sì, sono io!" esclamò e sventolò le mani in alto, come aveva visto in tanti film. Era così che si salutavano all'estero e fu sorpreso che l'uomo gli rispondesse con un cenno del capo composto.
"Agnong haseyò" fece l'uomo.
"Agnong haseyò" rispose lui, tanto sbalordito da dimenticare ogni espressione.
Conobbe Zubir in quella settimana. Lavorò con lui la terra e mangiò con la sua famiglia. Bevve l'acqua del suo pozzo e studiò il sistema d'irrigazione e di raccolta. Vide che anche in Marocco si mangiava il peperoncino e si sorseggiava tè. Imparò che il saluto più gradito fra uomini era una stretta di mano e che la stessa mano si toccava il cuore per significare lealtà.
A differenza di Jin Woo, Zubir era sposato. Sua moglie aveva capelli neri che le arrivavano alla vita e abiti sgargianti. Bracciali dorati le si attorcigliavano ai polsi e orecchini come lanterne tintinnavano a ogni suo movimento.
A gesti Jin Woo si complimentava. Aveva una bellissima moglie, era fortunato. Zubir annuiva, ma faceva intendere a Jin Woo che essere libero aveva i suoi vantaggi.
Lo portò una sera in città per fargli bere del Boulâouane e mostrargli la danza del ventre. Jin Woo si era vestito col suo unico paio di jeans e la camicia americana. Quando la ballerina oscillò i fianchi accanto a lui, non seppe cosa fare. Gli altri battevano le mani e cantavano. Ma lui non aveva mai visto una donna con tante curve. La tentazione fu più grande del pudore. Jin Woo allungò la mano e toccò là dove la vita finiva e l'anca cominciava ad allargarsi come un'anfora. Pensò che neanche i petali di rosa avevano quella dolcezza, pensò che quella donna era di latte e fuoco. Sospirò come un innamorato, mentre la ballerina faceva saltare la cavigliera.
Le foto avevano questo potere, risvegliavano il passato e lo accompagnavano di musiche e colori. Le immagini sbiadivano, coprendosi di macchie gialle, ma la giovinezza brillava in quelle ombre come un raggio. Non le guardava spesso. Gli mettevano troppa nostalgia. Anche quelle incollate sul quaderno appeso al petto non faceva che mostrarle agli altri, mentre lui scrutava donne, uomini, bambini per trovare chi lo ascoltasse.
"Dutnuda, shipshiyo", ascoltate, per favore, come recitava una volta, ma adesso vendeva la sua storia.
In metropolitana, i passeggeri si annoiavano, avevano tempo e non sapevano come sfuggire a se stessi. Portavano scarpe all'ultima moda: gli uomini, finto cuoio, punta affusolata e quattro, cinque numeri più grandi del necessario; le donne, sandali con tacchi a spillo e cinghietti tra le dita. Alcuni dormivano, sprofondati nel sonno come in una morte volontaria. Molti giocavano con telefonini colorati non più grandi del palmo della mano.
Jin Woo lo sapeva. Era difficile catturare i loro sguardi, ci voleva la disperazione pura. La gente poteva distinguere tra un vero e un falso mendicante.
In ogni modo, Jin Woo non era un mendicante, era un cantastorie che, tra tutti i racconti letti e ascoltati, aveva scelto il proprio. La conosceva bene la sfortuna e poteva cantarla in rima, citando re, poeti, guerrieri.
Manovrando con abilità le stampelle, Jin Woo si fermò davanti a una signora che non distoglieva gli occhi dal suo corpo di storpio. Con una mano sollevò la copertina del quaderno e mostrò la prima foto. Una campagna bagnata di pioggia, con grandi foglie di cavolo e risaie verdi; una vecchia casa circondata di viti e di foglie gialle… Era lì ch'era venuto al mondo una giovane-anguilla, jango, piccola rana, kaeguri, cicala, maemi, che poi restò senza gambe.
"Dutnuda, shipshiyo", ascoltate, per favore, e la donna, meno triste dopo il suo arrivo, lo ascoltò.





Guia Risari è nata a Milano nel 1971. Laureatasi in filosofia, si è specializzata in studi ebraici e letteratura in Inghilterra. Nell'agosto 2000 ha seguito il corso intensivo di scrittura creativa di Julio Monteiro Martins. Attualmente, vive a Tolosa dove si occupa di letteratura, traduce e scrive.
Tra le sue pubblicazioni, due saggi: The Document Within the Walls. The Romance of Bassani, (Troubador Publishing, 1999) e Jean Améry. Il risentimento come morale, (Franco Angeli, 2002, I premio Il Viaggio itinerante, I premio Marengo d'oro, Premio del Parlamento Europeo).
Tra i racconti, Digestione (Sagarana, n. 2, gen. 2001), Natale 1998 e Il vestito di Juanita (Nuova Prosa, n. 31, giu. 2001), Il segreto di Miguel la Lune (I premio Cioccolato… passione, www.garzantilibri.it/articoli). In francese, ha pubblicato il racconto Nuit Palestinienne e la poesia J'ai vu (http://toulouse-palestine.org/doc).



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