IL TERRORE AUTORIZZATO

L’antiamericanismo e lo spettro dell’America


Matthias Zarbock

 

Non l’abbiamo chiesta noi questa missione, ma la porteremo a termine.
George W. Bush

Bruciare non è una risposta.
Rousseau (citato da Camille Desmoulins)

 

Molto prima che la "guerra al terrorismo" avesse raggiunto le rovine delle città afgane, ogni critica alla logica militare della politica estera degli Stati Uniti veniva bollata con lo slogan di guerra dell’"antiamericanismo". Si tratta del tentativo, più volte reiterato, di mettere a tacere, o di costringere in un isolamento politico, gli oppositori agli attacchi militari condotti “in the vital interest of the United States of America”.

"Antiamericanismo" è uno slogan di guerra, in quanto cerca di diffamare ogni posizione politica contraria, non per favorire un dialogo, bensì per eliminarlo. Gran parte di coloro che sono tacciati di “antiamericanismo” si considerano essi stessi estranei a qualsiasi intenzione antiamericana. Innanzitutto con “antiamericanismo” s'intende una convinzione indirizzata nel complesso contro gli Stati Uniti, nella quale traspare l’accusa di assumere un atteggiamento ostile alla popolazione statunitense (e non solo contro lo Stato americano). Ciò che sottende questo atteggiamento è una posizione ambigua ed indistinta, un risentimento di matrice quasi razzista. Quanti criticano la politica degli Stati Uniti sono di conseguenza avversari della nazione americana.

È forse superfluo ricordare che l'immagine degli avversari militari degli USA viene demonizzata proprio da coloro i quali chiamano in causa l’antiamericanismo ricorrendo a pregiudizi culturali, religiosi e razzisti espliciti o taciuti? Chi non prende parte a questa congiura delle schiere dei "buoni", è immediatamente un "cattivo"; chi non demonizza l’avversario, è considerato per lo meno un "liberale", se non un "intellettuale critico". La netta distinzione tra nero e bianco che emerge da queste argomentazioni si scredita da sé. Il non voler attuare dei distinguo si afferma come il principio di individuazione del nemico. Per evitare di venire indicato come antivietnamita, antiiracheno, antiafgano ecc., il governo americano dà alle operazioni di guerra dei nomi ad effetto poetico-patetici, che richiamano la polarità dei principi morali ("lotta contro il male/il terrore, "guerra per la pace") evitando in tal modo di dover nominare direttamente i popoli o gli stati nemici. Chi non condivide questi slogan propagandistici, indebolisce il grado di accettazione del regime politico (governo) da parte della società, svilisce il morale delle truppe, cancella il confine tra chi è amico e chi nemico e viene considerato alleato degli avversari, dato che mette in dubbio la storiografia ufficiale. Ed in questo l’unica superpotenza rimasta non si differenzia dal suo avversario di allora (si parlava di politica antimperialista, di guerra anticoloniale di liberazione dei popoli ecc., anche se ci si rifaceva ad un'altra realtà).

La Germania e gli Stati Uniti

"Soprattutto noi tedeschi", così si è spesso affermato, e si può leggere tuttora nelle dichiarazioni governative dei partner NATO, abbiamo l'obbligo di rimanere "incondizionatamente a fianco dell'America" (Schröder). L'America cui ci si riferisce è anche la nazione che ha sconfitto militarmente il fascismo tedesco nella Seconda guerra mondiale. Ma la stessa situazione storica obbliga forse "noi tedeschi" a un'incondizionata "fedeltà nibelunga" nei confronti di nazioni quali Russia, Francia e Gran Bretagna (solo per citarne alcune)? Non si può definire tutti come liberatori, ma l'America è la nazione che incarna un principio che possa essere accettato dagli sconfitti della II guerra. Lo slogan di guerra dell’“antiamericanismo” risulta qui molto chiaramente un’espressione tedesco-occidentale, così come servendosi del concetto di “anticomunismo” (capace di annebbiare le menti) da sempre si combattono i comunisti, e non solo quelli di stampo leninista.

Perché è stata criticata l’invasione sovietica in Afghanistan, se non per gli stessi motivi per cui si doveva rifiutare un attacco USA? Prima di tutto, cioè, secondo i principi sia dell’umanesimo, che rifiuta la violenza come mezzo di confronto, sia del diritto internazionale, che bandisce la guerra o vuole porle dei limiti (come ci suggerisce la logica militare)? L’atteggiamento bollato/screditato come “antiamericano” comprende quindi più di un semplice e vago risentimento.

Ma sono tutti gli aspetti connessi al “principio America” ad essere rifiutati da coloro che sono accusati di “antiamericanismo”?

Le interpretazioni “antiamericane” degli avvenimenti dello scorso anno, finora espresse pubblicamente, sono riflessioni per lo più innocue, che non hanno quasi trovato opposizione. Di fatto, è solo possibile individuare alcune connessioni fra la politica USA e gli eventi dell’11 settembre. Si è affermato che gli obiettivi dei terroristi sono stati l’aggressiva politica economica globale degli USA, tenendo conto del fatto che è stato attaccato il World Trade Centre; oppure l’ambizione a un’egemonia culturale, visto che è stata colpita New York, metropoli occidentale; ovvero “la difesa degli interessi americani con mezzi militari”, dato che è stato attaccato anche il Pentagono (del resto, se ci si attiene a questa logica, si può considerare anche la democrazia statunitense come obiettivo dei terroristi, poiché l’aereo precipitato a sud est di Pittsburgh era realmente diretto a Washington). Con cinica retorica, coloro che criticano la reazione militare a questi attacchi vengono assimilati ai simpatizzanti dei colpevoli; entrambi sono infatti “antiamericani”: sia coloro che hanno sferrato l’attacco terroristico, sia coloro che si interrogano sui motivi di questo attacco.

Antiamericano = No global?

Molte delle sopracitate interpretazioni sui reali obiettivi dei terroristi sono anche vere. Ciò che è stato criticato a coloro che le hanno formulate è di aver dimenticato le vittime umane. Le critiche all’ordine mondiale voluto dagli USA, al quale non si sono opposti con radicata ostilità unicamente i responsabili dell’attentato dell’11 settembre, sono state espresse solo dopo aver espresso il dolore e il cordoglio con formule di circostanza. Non avremmo dovuto assicurarci reciprocamente di non aver provato una “segreta soddisfazione” quando le torri si sono sbriciolate su se stesse? Non erano forse gli obiettivi dell’attacco diventati simbolo di un’insanabile radicalizzazione delle tristi condizioni in cui versa la nostra società? Ammettere questo odio verso se stessi, che tormenta molte coscienze di sinistra nel Primo Mondo, non equivale ad una giustificazione alla distruzione di questi simboli. Tuttavia bisogna certamente ammettere che per molti sarebbe stato più complicato rimanere indifferenti agli attentati se fossero stati ridotti in cenere solo degli edifici vuoti. Ma una simile strage di innocenti, anche se politicamente motivata, non troverà mai l’approvazione delle sinistre in linea con la tradizione dell’Illuminismo. Il fatto che gli autori degli attentati abbiano agito rifiutando qualsiasi forma di comunicazione, assume una dimensione antilluminista. Da ciò si può intuire chiaramente, più di quanto non si possa sapere con certezza, che lo spirito che ha nutrito tali eventi porterebbe il mondo in condizioni di barbarie.

Le sfumature di questa ambivalenza, la consapevolezza del nocciolo del proprio atteggiamento critico, sono stati quasi messi a tacere, attraverso l’accusa di antiamericanismo mossa a coloro i quali hanno fatto notare gli innegabili legami tra la globalizzazione e l’acuirsi dei conflitti politici. Quindi poteva anche non sfiorarci l’idea che ovviamente ci fossero avversari del nuovo ordine mondiale che non avessero però nulla da spartire con i critici della globalizzazione sostenitori del progresso e della democrazia; al contrario, si è parlato in termini generali solo di no global, realtà questa che il comune cittadino associa automaticamente agli scontri di piazza di Seattle, Praga, Göteborg e Genova. Una simile argomentazione infondata, frutto di premesse precipitose, ha messo in cattiva luce la recente presa di coscienza della Nuova Sinistra. Così le discussioni di carattere pubblico non sono andate oltre le premesse iniziali. E’ stato a lungo trascurato Il fatto che il nuovo ordine mondiale di impronta statunitense sia stato imposto solo a discapito degli interessi particolari di altre potenze mondiali, allo stesso modo possibili gestori e beneficiari dell’“ordine” stesso. Se ci si muove sul piano delle differenze culturali ed ideologiche, che nella fattispecie non sono altro che argomentazioni prese a pretesto, si deve riconoscere che l’imposizione generalizzata di “valori” occidentali non riconosce come nemico solo coloro che vogliono abbattere la democrazia reale e la cultura sociale progressista. “Oppositori della globalizzazione” possono essere anche quei capi di etnie che vogliono difendere le loro strutture di potere tradizionali e patriarcali dai moderni metodi di repressione.

Dato che gli USA, in quanto potenza militare ed economica, assumono il ruolo guida nel processo di globalizzazione del nuovo ordine mondiale neoliberalista, si corre il rischio di trarre delle conclusioni azzardate: dal rifiuto di questa nuovo (discriminante) ri-ordine mondiale all’ostilità contro gli USA. Tuttavia non si tratta automaticamente di “antiamericanismo”, o meglio, esistono vari tipi di quanto rientra nell’“antiamericanismo”. Il fatto che lo spirito critico, che vive “nel cuore della bestia” (Che Guevara), porti ora lo stesso marchio, risulta doloroso ma, considerato il terreno della discussione, inevitabile. Visto che lo slogan di guerra utilizzato scredita l’interlocutore quale uomo spregevole, subito escluso dal dialogo, risulta difficile portare avanti una discussione in ambito pubblico.

 

"Antiamericanismo" oppure "americanismo"?

What do you own the world?
How do you own disorder?
System Of A Down

 

Dunque si dovrebbe guardare in quale angolo si viene relegati. Quali critiche mosse agli USA giustificano l’accusa di "antiamericanismo"? Cos'è l’"America"? Cosa sarebbe l’"americanismo"? Da quale momento le sinistre non ha più considerato l’"America" un principio innovatore?

L’immagine dell’"America" è cambiata negli ultimi secoli. L’America, intesa come i futuri USA, era considerata da Friedrich Maximilian Klinger nel 1776 un luogo sicuramente non solo geografico "dove tutto è nuovo, tutto è importante". Goethe ne fa addirittura una nuova utopia: " L'America è qui o in nessun altro luogo". Ancora prima della Dichiarazione d'Indipendenza, non erano solo i tedeschi a nutrire il presentimento che l'epoca dell'egemonia europea fosse oramai giunta al termine: l’abate Ferdinando Galiani scriveva in una lettera a Madame d'Epinay del 18 maggio 1776: "Siamo oramai giunti al momento del completo decadimento dell'Europa e dobbiamo aspettarci un'emigrazione verso l'America. Tutto qui […] andrà in rovina, la religione, le leggi, le arti e le scienze, e tutto questo tenderà al proprio rinnovamento in America". Friedrich Schlegel vide nell'America la possibilità di una "maturazione" della "civiltà umana". Wieland affermò che il popolo americano era ancora fermamente convinto degli "irrinunciabili diritti dell'umanità", indicando con ciò un mito ancor oggi fondante, che appartiene all’autocoscienza della società statunitense. Oggi siamo consapevoli del dubbio eroismo dei combattenti per la libertà del Nordamerica, i quali combatterono per la libertà dell'uomo bianco sterminando le popolazioni native.

La diversità del Nordamerica e, allo stesso tempo, il suo legame con l'Europa non affascinò solo coloro che vedevano negli ideali della Rivoluzione francese una speranza inappagata. Già con Nietzsche sembra essersi consumata la speranza nelle possibilità dell'America, e il prevalere dello scetticismo nei confronti delle innovazioni civili che l'America era in grado di attuare: "L'America […] figlia della nostra civiltà"; ciò che di moderno ha l’America trae le sue origini dall’Europa. Le utopie si sono sfaldate in fretta di fronte ad una realtà priva di utopie, prima che la Prima guerra mondiale seppellisse il sogno umanistico di una cultura europea. Un passaggio qualitativo è segnato da America di Kafka: nel contempo una società massificata, una colonia penale e una società liberale.

Dopo la Prima guerra mondiale, quando gli ex partecipanti al conflitto, in debito nei confronti degli USA, non poterono più considerarsi vincitori o vinti, ebbe inizio ciò che nella storia della letteratura venne chiamato "americanismo". L’"oggettiva" e "pragmatica" America, che nell'economia, nella politica e nella cultura sembra contrapporsi al progetto "ideologicizzato" della Russia sovietica, viene considerata con una sorta di amore-odio, associato anche ad aspetti disdicevoli, garantendo, però, la libertà di poter definire negativi questi fenomeni nella loro natura "moderni”. La borghesia tedesca non si è mai accomiatata dalla "sua" America, e il proletariato non si è mai opposto alla sua Germania sovietica. Determinante rimane, quindi, la critica borghese-democratica. Il quasi barbarico regno orientale di Lenin, tendente alla trasformazione radicale, sarà considerato solo da pochi analisti come una reale alternativa per il futuro. Vista sul piano della simpatia, la figura (terrificante) del dittatore Stalin non aveva alcuna chance di successo rispetto a quella dei grandi presidenti degli Stati Uniti, e, per più di mezzo secolo, doveva essere la vergogna della sinistra democratica.

Se è vero che, nella guerra contro la Germania di Hitler, gli USA hanno rappresentato una speranza per i poeti e i pensatori antifascisti, l'inizio della Guerra fredda ha altresì determinato in essi una svolta decisiva. La glorificazione della prassi americana incontra qui tutt'a un tratto lo scetticismo verso l'America. Arno Schmidt vede nel "Gelernten Republik” (La repubblica dei dotti), pubblicata nel 1957, il pericolo della nascita di una "in-cultura" simile a quella sovietica. Aveva in ciò di certo presente anche l'anticomunismo ostinato e antidemocratico di McCarthy, il quale aveva dolorosamente danneggiato l'immagine degli USA quale patria della libertà.

Quando il Senatore statunitense J. W. Fulbright affermò: " Nel bene come nel male siamo una società profondamente conservatrice", la volontà di progresso nei circoli politici degli USA era finita già da un pezzo ed egli dovette dispiacersi anche nel riconoscere che "lentamente, ma in modo evidente, stiamo soccombendo all’arroganza del potere". Fulbright è anche un epigono dei critici della politica degli Stati Uniti, e quindi sa con quale metro l'America "senza storia" deve misurarsi e con quale risultato: "Non è un'offesa, ma un elogio se si afferma che l’America merita di essere criticata". Quella che Hermann Broch ha definito come "la più progredita nazione del mondo" è divenuta, con le crescenti conoscenze della repressione razzista di una parte importante della propria popolazione, e più tardi con la guerra del Vietnam, uno stato nel quale i cittadini si dovrebbero riconoscere quali parte di un sistema criminale: "siamo tutti assassini", affermò nel 1967 il chimico Linus Pauling, premio Nobel per la pace. Da ciò non deriva solo una rigidità morale che accetta l'esistenza di una colpa collettiva, ma anche ciò che rimane di una consapevolezza della responsabilità, di tutti gli appartenenti ad una società, verso la politica di uno stato nato dagli ideali democratico-borghesi di ordine radicale. È il metro più critico che si possa applicare quando si vogliono mettere in discussione gli Stati Uniti. L'immagine ideale democratico-borghese degli USA, la cui validità è a tutt'oggi ancora mantenuta in vita, prendendo John F. Kennedy ad esempio di presidente virtuoso, aveva un contenuto concreto e serve (o serviva) al contempo alla proiezione delle speranze democratiche.

Idealmente l'immagine positiva del cosiddetto "sogno americano" sopravvive nonostante tutto. Un riverbero debole e confuso si trova ancora oggi sulle magliette e sugli accessori dei giovani della Germania dell'Est, per i quali la bandiera a stelle e strisce non è solo utilizzata come un elemento decorativo di moda. Forse è anche l'ammirazione per i più forti, per un popolo dalla coscienza indomita. Si deve d'altro canto constatare che i grandi movimenti di protesta sociale che hanno cambiato la quotidianità negli USA, siano essi movimenti per i diritti civili, per la pace o degli omosessuali, hanno sempre portato la bandiera statunitense. Essi guidarono e guidano ancora la battaglia per l’"America autentica" e si richiamano ad una costituzione che un tempo era il modello per gli stati democratico-borghesi. Anche da questi ambienti giungono le voci critiche alla reazione militare al "nine eleven". La differenza tra l'immagine ideale dell'America - il liberalismo all'interno - e la realtà della politica mondiale - la tendenza aggressiva all'egemonia - diverrà inequivocabilmente palese. Ed è una violazione continuamente praticata contro la propria costituzione, se gli USA intraprendono azioni militari unilaterali contrarie alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Ma anche negli USA ogni critica alla propria politica estera viene giudicata espressione della mancanza del “senso di patria". A coloro i quali hanno indicato una matrice interna nel retroscena degli attentati è stato chiesto perché non se ne vanno da uno stato che odiano in tal misura. Il patriottismo, tenuto in vita dal senso della comunità di stampo liberale, richiede un'accettazione acritica della politica estera degli Stai Uniti. A partire da McCarthy, se non prima, sappiamo che un americano può appoggiare un "comportamento antiamericano". Secondo la logica dell'"antiamericanismo" anche uno statunitense è capace di pensieri "antiamericani". Con ciò si chiude il cerchio in una argomentazione in sé contraddittoria.

Rafforzare l’Europa?

Ora che si sono combattute le prime battaglie della “guerra contro il terrore”, si sente dire che le alternative risiederebbero in un’azione politica che prenda avvio dall’Europa. Tuttavia questo può avvenire solamente se tale politica si differenzia profondamente da quella degli USA.

Un atteggiamento più debole e meno aggressivo, come risulta dalla logica interna dell’amministrazione Bush, sortisce il solo effetto di rallentare il processo di dissoluzione del proprio potere nel mondo, senza però riuscire ad invertirlo. Insieme alla globalizzazione neoliberale sono sorte paradossalmente anche le macchie bianche sulla carta geopolitica: se ai tempi della contrapposizione tra i due blocchi era ancora possibile raggiungere qualsiasi località del mondo adattandosi unicamente ai rapporti dominanti (pro sovietico oppure pro americano) - come sostiene Rufin in “L’empire des nouveaux barbares” 1991 - solo pochi anni dopo risultava impossibile per uno straniero recarsi in zone teatro di guerre civili. È trascorso molto tempo prima che la politica estera degli USA reagisse alla fine della Guerra fredda. Il “Nuovo Ordine Mondiale” è esistito per anni soltanto sotto forma di slogan e strategia contraddittoria. In alcuni Paesi si è altresì verificato che azioni di resistenza all’espansione dell’“Impero Romano Statunitense”, all’inizio individuabili solo localmente e ai margini della società, arrivassero a determinare le linee guida della politica di governo. Quale doveva essere la reazione degli USA? La creazione di un “limes” attorno alla propria zona di influenza costituisce un appiglio per gli attacchi dall’interno e dall’esterno ed aumenta – in tempi di armi a lunga portata e contatti di dimensioni mondiali - la minaccia di quella zona delimitata dal baluardo. Oltretutto la zona di influenza che gli USA si trovavano in quel momento a dover gestire era così vasta che si poteva tranquillamente parlare di una espansione esagerata. Soltanto il controllo assoluto, su scala mondiale, degli interessi americani impedisce che le “truppe di frontiera” si logorino portando alla creazione di una nuova forma di strategia militare: le forze mobili di intervento - come di fronte alla liberazione insurrezionale all’interno di uno Stato – giocano un ruolo di primaria importanza. Il mondo è costituito da un lato da protettorati pacifici, dall’altro da Stati che si negano ai dettami degli USA e rappresentano quindi potenziali zone di guerra. Un tale rifiuto può anche consistere nella volontà di uno Stato di gestire personalmente lo sfruttamento delle proprie risorse. Tuttavia un protettorato che non ostacola gli interessi economici e militari degli Stati Uniti può tranquillamente infrangere le “regole del gioco democratico”.

Nella nuova situazione mondiale i governi dell’Europa occidentale e centrale hanno perso l’occasione di un nuovo posizionamento. Nel corso dei conflitti nella ex Jugoslavia, gli Stati Uniti pretesero il sostegno dell’Europa ai loro obiettivi strategici, che andavano in direzione opposta a quelli degli alleati europei. Solo ora si inizia a riconoscere che la politica statunitense in realtà mirava ad un indebolimento della posizione dell’Europa. Fino ad oggi non è stata possibile un’emancipazione dalla politica estera degli Stati Uniti nella misura in cui sarebbe necessaria. In questa situazione di scarsa sovranità hanno avuto luogo gli attentati terroristici che hanno costretto anche l’Europa a prendere una posizione chiara. Mentre i governi europei si preoccupano delle questioni del continente, per avere un ruolo “critico e solidale” nel processo iniziale di un’azione militare contro i nemici dell’America, la Gran Bretagna cerca invece di sottrarsi al dilemma per la sua vicinanza agli Stati Uniti. La rassicurazione precipitosa di Schröder riguardo ad una “totale solidarietà” fa fare alla politica tedesca un passo indietro nella storia, riportandola alla fedeltà vassalla dell’Europa durante la Guerra fredda, quando gli “interessi occidentali” combaciavano. Questo è indice di insicurezza. Che fine ha fatto l’Europa? L’Europa in sé come comunità allargata e veramente più unita si definisce sia nel suo insieme che nella sua delimitazione verso l’esterno. Ciò non significa che si voglia o si possa creare un sistema autarchico capace di rinunciare ai rapporti e allo sfruttamento del resto del mondo. Le alternative sono possibili solo se radicali e, per questo, in fondo, impensabili: con un mercato neo-liberale e globalizzato non potrà esistere un’economia confinata solo ad alcuni stati, la quale, se fosse totalmente isolata (praticamente impossibile), porterebbe ad un effetto inibitorio sull’economia stessa. L’accettazione di un’effettiva economia globale insieme al rifiuto di tutte le conseguenze negative per il resto dei paesi concorrenti in alcune sfere di influenza (i prezzi sul mercato mondiale e la disoccupazione) è veramente una forma di contraddizione. Coloro che ambiscono alla concorrenza e alla corsa al profitto non rinunceranno allo sfruttamento e alle lotte di potere. Solamente chi non è imperialista ed egemonico, chi non agisce in nome dello sfruttamento ma promuove un equo scambio economico e culturale evita conflitti con i partner. Non si potranno escludere ancora a lungo i conflitti, se anche gli altri non rinunceranno alle regole del capitalismo. È quindi auspicabile un’Europa autosufficiente che non si interessi alle parti del mondo in cui regnano lo sfruttamento, la guerra, il genocidio? Si vuole lasciare agli Stati Uniti il ruolo di “poliziotti del mondo” e comportarsi da buoni cittadini di fronte al potere dello stato? Ciò significherebbe starsene solamente a guardare come una politica rivolta all’imposizione degli interessi economici e di sicurezza dell’America rafforzi il suo primato tramite le azioni militari.

La subordinatezza dell’Europa all’America e l’autolimitazione all’amministrazione all’interno dei confini europei sono entrambe posizioni non attuabili. Chi evoca una visione europea che non rappresenta alcun reale e coerente nuovo orientamento, ma soltanto un inganno, un errore concettuale, non ha dinanzi agli occhi una “visione europea”, ma solamente una non più efficiente copia di un ordine pre-moderno e pre-globale.

Come alternativa alla globalizzazione del neoliberalismo economico vi è solamente un agire globale realmente responsabile. Le grandi sfide – la reale distruzione della terra dal punto di vista ecologico, attuata attraverso la follia capitalista di produzione e annientamento, ne è solo un esempio – non si possono risolvere se si vuole a tutti i costi conservare il patrimonio rappresentato dal bottino di un prolungato colonialismo. Un’alternativa europea non è possibile senza un radicale dietro front verso un federalismo globale tra partner paritari.

USA today

Quelli che per alcuni sono difensori della libertà,
per altri sono terroristi.
Ronald Reagan

 

Una democrazia vitale si può così definire solo se si inserisce in un processo continuo di accrescimento della libertà personale dei cittadini. Se tuttavia un sistema politico si basa sull’inerzia della massa disinteressata all’impegno sociale e tollera, oppure costruisce da sé, una sfera libera da influssi democratici, perde la sua essenza democratica, naturalmente senza mai spogliarsi della denominazione di democrazia. Aspira piuttosto al rafforzamento, reprime la discussione sui diritti dei cittadini e cerca la vitalità soltanto nel dominio dell’economia avulsa dagli interessi della comunità.

Il fatto che il diritto e soprattutto gli obblighi internazionali derivanti da norme basilari siano ancora d’intralcio, è ben risaputo negli USA e in altre cosiddette democrazie. L’esempio più attuale è costituito dall’ostacolo ai lavori di un tribunale penale internazionale. Poiché i controlli democratici e giuridici della politica estera statunitense all’interno degli stessi USA non sono mai stati efficaci (basti pensare ai processi per i crimini di guerra degli USA in Vietnam), la casta politica statunitense può tranquillamente nascondersi dietro la competenza della giurisdizione nazionale.

Per essere chiari, basta solo definire come “terrorismo di stato” le discutibili attività di diritto internazionale della maggior parte dei servizi segreti mondiali, oppure bisogna proprio dilungarsi in una descrizione dettagliata dei pochi scandali svelati? Occorre descrivere gli intrecci della politica statale e gli interessi economici dei gruppi industriali statunitensi, oppure si può semplicemente far notare come gli USA si presentino quali nemici delle riforme economiche ed ecologiche globali? Bisogna forse sottolineare che gli effetti della politica USA, oltre a pregiudicare il futuro, mettono in pericolo anche gli interessi della maggior parte dei cittadini statunitensi?

Ciò che sappiamo delle azioni criminali dei servizi segreti statunitensi suggerisce l’assurda ipotesi secondo la quale il presidente George W. Bush, quando ha annunciato “la crociata” contro il terrorismo, intendesse in realtà un’autodistruzione degli USA, un autodafé in cui l’inquisitore stesso si definisce eretico. Non vi è nessuno stato – almeno dal crollo del blocco sovietico – che sia stato coinvolto in un numero così elevato di azioni dei servizi segreti a tutt’oggi poco chiare, abbia interrotto lo sviluppo della democrazia allorché minacciava i “propri interessi economici”, abbia sostenuto regimi criminali, arrivando talvolta a dichiarare loro guerra quando entrano in gioco i propri interessi. Se il nuovo ordine mondiale può avere un volto, allora il suo volto è questo. E proprio per questo, è per noi di vitale interesse la critica alla politica USA, perché ha un atteggiamento aggressivo verso l’esterno e attua guerre “calde” e “fredde”, compromettendo così anche la vita dei cittadini non statunitensi. Fortunatamente sempre più persone riconoscono il fatto che in questa guerra non c’entra l’affermazione di principi democratici.

Dovrebbe essere ormai chiaro sia che lo stesso termine “antiamericanismo” è uno slogan di guerra risalente ai tempi della Guerra fredda, sia il significato che esso assume oggi, sia il motivo per cui dobbiamo ammettere che siamo davvero contrari alla politica USA. Ma a cosa gioverebbe tutto ciò?

Come avversari della politica imperialistica USA e dei suoi alleati e come esseri raziocinanti, ci si vede in quanto abitanti di questo globo nel ruolo di “ostaggi” di quegli stati che non mirano a proteggere il bene comune dei propri cittadini e che sacrificano in maniera massiccia i diritti fondamentali della popolazione mondiale. Al contrario, i “governi eletti dal popolo” rappresentano per lo più gli interessi di un’economia onnipotente che non può e non vuole desistere dalla propria corsa sfrenata al profitto.

L’egemonia economica e militare degli USA al giro di boa del millennio è uno degli indizi che ci fanno capire che gli ideali della Rivoluzione Francese non si sono realizzati. Coloro che in questa situazione riconoscono la “fine della storia” avrebbero condannato anche Gracchus Babeuf, secondo il quale essere a servizio del bene dei cittadini è l’obiettivo di tutti gli organi statali. Oggi questo sembra quasi un appello sovversivo. Come conseguenza del degrado dello Stato, che diventa strumento degli interessi dell’economia privata, se si salvaguardano questi diritti si diventa statalisti fuori dal mondo o addirittura anarchici. Con manifesti simili anche gli “avversari della globalizzazione” diventano l’obiettivo della repressione statale. E di fatto il “Discorso sulla legittimità della resistenza” di Babeuf del 1797 sembra ancora un manifesto rivoluzionario, mentre è in realtà un “discorso di difesa” di un sostenitore dei diritti umani, al quale è stata mossa l’accusa di “cospirazione contro la sicurezza interna”. Neanche i più moderati avversari della globalizzazione neoliberale hanno potuto dimostrare che ciò che viene messo in discussione non è tanto un reale riassetto delle relazioni esistenti, neppure se essi si concentrano sul “fattibile” (Tobin-Steuer).

Inoltre il termine “avversario della globalizzazione” è fuorviante anche perché i critici dell’ordinamento neoliberale che coinvolge l’economia mondiale hanno riconosciuto che possono esistere soltanto soluzioni globali determinate da ciò che si potrebbe chiamare “solidarietà internazionale”. Quindi ciò che una tale politica esige non è affatto solo un atteggiamento di fondo di carattere etico, ma un precetto della ragione di fronte agli urgenti problemi dell’umanità.

Una lunga crociata

 

Of war / we don’t speak anymore/of war
We will fight the heathens
System Of A Down

 

Come se non esistessero alternative: il “nostro” governo, del tutto assente, ci conduce con lucidità verso “tempi durissimi” (J. Fischer), rinunciando ad una propria autonomia verso l’esterno e soffocando all’interno la capacità operativa degli organi federali.

Di fatto questi governi dominati dal principio del centralismo non sono in grado di offrire alcuna soluzione a compensazione dei diversi interessi. In questo modo trovano riparo nell’assoluta ubbidienza sotto la protezione di un potere centrale.

 

Ma finora è andato sempre tutto bene? Non sono forse svaniti l’incubo e l’eccitazione che dopo gli attentati hanno spinto gli uomini a riflettere sulle loro vite? Non è rimasto tutto come prima? Di fronte a questa realtà normalizzata, non dovrebbero dunque tacere coloro che all’inizio del conflitto Nato in Afghanistan dipingevano il futuro a tinte fosche?

Anche se può sembrare cinico, ciò che più conta negli avvenimenti dell’11 settembre sono le conseguenze dell’attentato e in primo luogo l’eccessiva militarizzazione della politica. Con l’aumento della spesa per gli armamenti gli USA hanno iniziato per primi una corsa in avanti, e chiunque abbia qualcosa che possa essere messo in gioco – alcuni la chiamano “libertà”, ma spesso si tratta piuttosto del desiderio di avere un lettore DVD – si troverà a seguirli. Quello che risulterà dall’annientamento dell’ingente patrimonio sociale accumulato attraverso la produzione di armi di distruzione e dal passaggio dal capitale sociale alla proprietà privata, sarà l’indebolimento del “fronte interno”. I cittadini degli stati maggiormente sviluppati si accorgeranno infatti dove verrà a mancare il denaro, avvertiranno un incremento delle migrazioni ed una maggiore riduzione dell’apparato sociale, accompagnati da una riduzione delle misure necessarie per arginare i danni ecologici. Ci accorgeremo che la “sicurezza interna” ed il benessere sociale verranno sacrificati per mantenere globalmente in vita un ordine mondiale criminoso e distruttivo dal quale sempre meno la gente comune potrà direttamente o indirettamente beneficiare. Il fatto che verrà sacrificata non solo la civiltà, ma anche la cultura dell’Umanesimo e i bisogni primari materiali dell’uomo, anziché affrontare effettivamente la situazione, non produrrà soltanto uno stato di letargia delle nostre coscienze sporche. Per sapere da dove saranno sottratti i soldi per le armi, sarà sufficiente leggere il bilancio dell’amministrazione Bush. Per non parlare poi delle restrizioni ai diritti dei cittadini. Anche se si deve ancora accertare se l’introduzione delle “norme di sicurezza” abbia incontrato veramente un’opposizione solo marginale. Tali norme non fanno altro che dare il via libera all’abuso di stato, e non hanno di fatto nessun’altra funzione, dato che non offrono alcuna soluzione concreta agli attentati suicidi. Ma alla percezione umana del vissuto manca la capacità di guardare le immagini in rapida sequenza, e quindi il singolo non percepisce in modo drammatico o ravvicinato i cambiamenti che l’11 settembre ha apportato alla sua quotidianità. Si è tornati così ad una quotidianità nella quale si è insediata la possibilità di attentati terroristici e di guerre. Forse sarebbe stato meglio non tornarvi in modo così repentino.

Cospirazioni e giuramenti

È rimasto un dubbio sulla presentazione ufficiale dei fatti dell’11 settembre 2001, ed un’insicurezza rispetto a ciò che ancora verrà. Tutto ciò si manifesta nella persistenza di teorie di cospirazione che tentano di spiegare ciò che “risulta caotico e sembra essere al di là di ogni comprensibilità umana” (R. A. Wilson). In realtà, tali teorie possono essere di due tipi: 1) I detentori del poterei negli USA (o alcune parti del potere centrale) hanno sacrificato nell’11 settembre i propri cittadini perché intendevano raggiungere precisi obbiettivi sfruttando gli attentati terroristici. Questa teoria si basa sul presunto oscuramento da parte delle autorità inquirenti e sul fatto che i servizi segreti erano già in possesso di informazioni precise sugli imminenti attentati. 2) Per mancanza di “informazioni attendibili”, molti ricorrono rapidamente alle teorie di cospirazione già esistenti. E così questa teoria si sintetizza nel motto “La colpa è degli ebrei”. Ciò che accomuna queste teorie è l’affermazione che gli autori dell’11 settembre 2001 non sono i “veri autori”. Sembra difficile poter capire il grado di cecità degli attentatori suicidi. E così ritorna in voga un’ostilità irrazionale nei confronti dei potenti degli USA, oltre che del tradizionale antisemitismo. A ciò può anche, ma non solo, aver contribuito la tabuizzazione della critica alla politica americana e israeliana. Tuttavia bisognerebbe fare una distinzione tra la possibilità di un criticabile coinvolgimento dei servizi segreti americani e israeliani e i successivi attacchi alle rispettive comunità. Proprio per questo si deve porre fine al processo di tabuizzazione: il travestimento del risentimento nazionalista, revanscista e razzista riesce solo poiché un dibattito aperto viene impedito dalla diffamazione aprioristica di ogni critica.

Anche la discussione sulle alternative alla politica attuale è prigioniera di schemi fissi. Sembra che sia possibile parlare di “civiltà“ solo mantenendosi al seguito dell’America. Ma la questione non è preferire una barbarie civile sotto il dominio degli USA ad una barbarie di fondamentalisti ostili al progresso. Deve pur essere possibile condurre un dibattito nel quale l’“America“ non rappresenti l’unico metro di giudizio valido. Non si tratta certo di autoaffermazione di altri interessi nazionali, né di “finlandizzazione” del mondo.

Si tratta di non diventare ostaggi di una superpotenza che impedisce di attuare trasformazioni necessarie, sia nel campo del diritto internazionale che nella struttura dell’economia mondiale. Ed è bene ricordare che in ogni decisione presa a livello statale è il grado di utilità per il benessere della collettività a dover fungere da metro di misura. Così come si è assistito ad una crescita della consapevolezza sociale sul carattere globale dei processi mondiali, così come i problemi, i conflitti e le minacce vanno affrontati oggi più che mai in prospettiva globale, alla stessa stregua è cresciuta la necessità di un’azione globale. E’ un’affermazione del pensiero e dell’azione globale che esige altre strategie. Dire che non esistono alternative è un’enorme menzogna, a meno che la comunità umana non abbia stabilito di aggrapparsi a tutti i costi all’ordine costituito anche al prezzo del proprio declino. Se il capitalismo ha vinto il confronto tra i sistemi economici possibili, non significa che debba essere infallibile fino alla fine dell’umanità.

La maggioranza degli esseri umani che vivono sul nostro pianeta è scarsamente disposta a dare la vita per gli interessi economici di pochi o per la difesa di un ordine repressivo.

Se solo dopo gli atti terroristici dell’11 settembre è apparso in tutta chiarezza quanto sia a rischio la pace mondiale, allora vale la pena di chiedersi se non sia così perché sono gli USA a decidere le regole della convivenza. Allora sarebbe un comportamento suicida incatenarsi a questa superpotenza. Forse è necessario esercitare una maggior pressione sull’amministrazione USA affinché essa rinunci alla militarizzazione della politica e alle pretese egemoniche. Anziché rispondere al terrore con la guerra ed il terrore, occorrerebbe insistere sul fatto che il terrore deve cessare affinché esso possa cessare veramente.


(Traduzione a cura di:
Belfiore Anna, Bonato Elena, Brenko Luana, Chemello Benetta, Dalla Vecchia Sara, Fasolo Laura, Galvan Michele, Mattiello Gianpaolo, Mauro Maria Teresa, Mettifogo Giorgia, Rebeschini Valentina, Righele Chiara, Russo Romina, Zaffonato Anna, allievi del corso di Traduzione dal Tedesco III presso la "Scuola Superiore Universitaria per Traduttori e Interpreti" di Vicenza, con la supervisione del Prof. Bruno Persico)





        Successivo      GEGNER - L'AVVERSARIO     Copertina