LA SOLUZIONE

Luiz Ruffato

Helia sorvegliava afflitta l’ingresso del reparto. Tutti si erano già dati il cambio, e la Giulia niente, non arriva! Che odio! Che ooodio! Il grembiule di tela grezza arrotolato nella mano destra, aveva portato già diverse volte l’indice in bocca per rodersi l’unghia, ma poi si era ricordata dello smalto, di quello smalto rosso, non voleva scheggiarlo, no, doveva durare intatto fino a sabato… Il roco ronzìo dei telai turbinava nella sua testa. Ma dove cavolo è andata a finire quella stronza? Stronza! Puttana! Oh no, finirò col perdere l’autobus! La  rabbia schiumava nelle contrazioni delle sue palpebre, Disgraziata! Ah, eccola lì, con la faccia da santarellina, come se niente fosse!, si strappò il fazzoletto dalla testa, lo passò a Giulia, non le disse neanche ciao, la incenerì con lo sguardo, Giulia tentò di trovare una scusa, farfugliò qualcosa  che non si sentì neppure, il rumore delle macchine sovrastava la sua voce. Nel bagno, Helia pettinò i corti capelli notturni e si tolse di dosso i filamenti di cotone rimasti attaccati alla camicia di fustagno blu e alla minigonna bianca. Nel cortile vuoto, l’improvvisa folata di calore le fece accapponare la pelle. Porca miseria!, mi verrà di nuovo il mal di pancia…Timbrò il cartellino e, Merda! ecco che le veniva voglia di piangere, e adesso cosa faccio? L’autobus era appena passato, e a quest’ora poteva dire addio al passaggio in  bicicletta. L’unica  era  tornarsene a casa a piedi, con quei lenzuoli di nuvole  bianche che oscuravano il sole delle dieci e venti di febbraio, Ah! a quest’ora il Clube do Remo sarà strapieno, Ahi, cosa non darei per essere lì! volesse Iddio! Pensa se adesso  passasse  un tipo biondo, muscoloso, con gli occhi azzurri, a cavallo di una vespa argentata, Ciao, angelo, da che parte vai? Ah sì,  è proprio sulla mia strada, sali su, che ti ci porto io. Tieniti bene, stringimi forte, così non cadi! Sì, col cavolo! invece mi sa che mi dovrò  consumare le suole degli zoccoli nuovi su questi parallelepipedi infuocati. Ahi, dio mio, come sono stufa di tutto questo! stufa marcia!

Tuffò le mani nella bacinella verde, nell’acqua mescolata a detersivo in polvere, e appoggiò il piede sinistro in grembo a Toninha, seduta su uno sgabello. Toninha cominciò a spingere indietro la cuticola dell’alluce con un attrezzo, Ahia, sta attenta, mica mi vuoi fare i piedi  a fette, ueh! Questo, sì questo qua, viola melanzana. Sì, di nuovo, proprio, adoro questo colore, mi sta troppo bene addosso, non trovi?, E allora? E Maripà[1], Helia?, chiese Marcia. Chi? Plinio?, Helia faceva finta di non capire. Ohé, Toninha, ma cosa stai facendo? così mi fai male, cristosanto! Ah, cara la mia  Marcia, te l’ho già detto, no?… non voglio saperne niente io di quello lì. Ma se è un tipo fantastico, Helia, disse Toninha. Fantastico? quello lì il giorno che cade non sa neanche dove andare a sbattere! Può darsi, ma è uno con la testa a posto, disse Marcia. Sì, è vero, è proprio un tipo ok!, aggiunse Toninha. E per giunta sembra   proprio cotto  di te.  Helia rise, Lo sai come la chiama lui la finestra?  Ginestra!Ginestra? E Toninhae Marcia scoppiarono in una risata rumorosa. Sì, proprio, lo sai come dice a mia madre? Chiuda la ginestra, dona Zulmira, che sta arrivando una timpesta! timpesta? sì, proprio, lo chiama così il temporale, timpesta. E la conga? sai come chiama la conga[2]? tiburço. Dài, Helia, smettila… giuro, oh! E si azzittirono. Toninha brandendo il bastoncino di legno di arancio toglieva l’eccesso di smalto dal contorno delle unghie dei piedi di  Helia. Marcia si sporse dal cornicione della finestra, Tiburço…buona questa! Nel frattempo i suoni del vicolo di un sabato pomeriggio si insinuavano dentro alla stanza: bambini accoccolati che giocavano a biglie; ragazzine che giocavano a palla avvelenata, Bibica che correva dietro a Marquinho, Marquinho! o Marquinho! ah, se lo becco quel delinquente!, la musica che irradiava dalla casa di dona Olga; le rapide del Rio Pomba, i discorsi di due vicine che raccoglievano i panni stesi sul filo. In fondo in fondo mi fa pena, disse Helia. Come? disse Marcia girandosi. Toninha allontanò i piedi di Helia dal suo grembo e le disse, puoi tirare fuori le mani dall’ammollo. Pena, sì, proprio, ci credete? Non ha un lavoro…non sa fare un tubo…quei pochi spiccioli che riesce a tirar su, se li brucia comprando vestiti… profumi… facendo regali…E’ proprio un…un fesso, sì…buono e fesso…Qualcuno passò sotto alla finestra, parlando ad alta voce. E io…io mi voglio sposare con un uomo… un uomo che sia…che sia ricco…qualcuno che mi tiri fuori da qui…che mi porti via  da questo buco… Beh,  quello  però  piacerebbe  anche a me, disse Marcia. E a chi non piacerebbe? disse Toninha, concludendo: il difficile è trovarlo. Ma io lo troverò, vedrete! Sono stufa…stufa di stare in questa casa…in questo casino…non ho neanche una stanza tutta per me…E ne ho le palle piene della fabbrica… di svegliarmi presto… di sopportare quello Jacy… Jacy è il sottomastro? chiese Marcia. Sì, quello con quelle arie da gran seduttore. Seduttore? insistette Toninha, ma Helia non le dava già più retta, Troverò un uomo ricco, ricchissimo, disse, alzando gli occhi verso le ragnatele che ricoprivano le tegole annerite.

Quella stessa sera, uscì con Maripà. Mano nella mano, in silenzio, fecero tre volte il giro della piazza Rui Barbosa, si fermarono ad osservare i cartelloni dei film in programma al Cinema Edgard, comprarono un sacchetto di popcorn, si sedettero su una panchina davanti al Bar Elite. Helia respirò profondamente e disse, Plinio, devo dirti una cosa…. non voglio che ci rimani male, che mi metti il muso…ma… non voglio illuderti… tu sei così buono… così a posto… Lui accartocciò il sacchetto di popcorn ormai vuoto, vuoi che ci lasciamo? Sì… vedi… io ho soltanto quindici anni… tu ne hai venti… è un po’ presto per un vero fidanzamento… magari noi… più tardi…. magari un giorno, chissà, ci reincontriamo… e poi… nella vita a volte le cose cambiano…. magari finisce che ci sposiamo…chissà? A volte  succede,  sai… c’è  un’amica  di mia madre che… Maripà si alzò, le si piazzò bene di fronte e le disse, Smettila  di  girarci  intorno, Helia!  so dove  vuoi  arrivare.  Io  non  ti piaccio. Non ti piaccio perché sono povero. Non sono abbastanza per te…anzi, nessuno è abbastanza. Bene, non c’è problema. Sul serio, non c’è n’è, di problemi! Mi dispiace solo per te. Mi fai pena. Voglio solo dirti una cosa: chi spiluzzica troppo, salta il pranzo. Tu ti credi di più di quello che sei. Ma non lo sei, no, Helia, non lo sei! Sta’ attenta, ché la vita potrebbe deluderti. Sta’ attenta! Le girò le spalle, scaraventò la pallina di carta nella strada, con rabbia, e scomparve in mezzo alla folla. Toninha e Marcia si avvicinarono, eccitate. Abbiamo visto tutto! Tutto! E ridevano come delle matte, Dài, racconta! racconta come è andata! Beh, disse Helia, si è arrabbiato come una biscia, pensa che mi ha detto così (e si mise in piedi, per imitarlo meglio): Chi spiluzzica troppo, salta il pranzo. Spiluzzica? E le tre quasi svenivano dalle risate. E poi mi ha detto così, che io credo di essere di più di quello che sono e che… Questo è vero, disse Toninha. Cos’è che è vero? le domandò Helia. Beh, questa storia… tutti pensano che te la tiri. Tutti chi, Toninha? chiese ancora Helia, fuori dai gangheri. Beh, tutti tutti. Nel quartiere… Oh, Toninha, la vuoi smettere o no? berciò Marcia. Ok, ok, come non detto…..

Spiluzzica…. Adesso, giovedì, quell’ addio non le sembrava più tanto divertente. Poveraccio! Era solo un ragazzo… e armato delle migliori intenzioni….. Se è soltanto questo… Dimenticalo… Era stato il primo tra i suoi… ah! aveva perduto il conto… ma era stato il primo dei suoi ragazzi a volere, sinceramente, conoscere i suoi  “suoceri”, che  avevano  mostrato di gradire quel giovane dalle spalle larghe, con la faccia quadrata, le mani da lavoratore, che parlava bene, sveglio, accattivante, che si era commosso a dovere quando aveva saputo che suo padre aveva il baracchino nelle Piazza Rui Barbosa, Sul serio, signor Marlindo, che coincidenza! quanti popcorn ho comprato da lei! e che la madre lavava e stirava a domicilio, Dona Zulmira, dona Zulmira, le troverò dei lavaggi di vestiti, non si preoccupi! Ma soprattutto erano stati conquistati dai suoi capelli, lunghi, neri neri, ricciuti,  Mica li vorrai tagliare, sono così belli! Però, a pensarci bene, no, tutta quella familiarità non le piaceva…Voleva dimenticare di avere una famiglia, voleva scordarsi di quei genitori sempliciotti, Ah! se solo potessi cancellare il mio passato! No, mia madre è morta di parto, poveretta, e mio padre quando avevo soltanto sei anni… Sono stata allevata da una lontana parente, molto ricca…Sì, quello che sentiva era  vergogna, pura vergogna…. Per questo, quando arrivava dalla strada con un filarino trovava un modo per salutarlo prima di avvicinarsi al Vicolo di Zé Pinto, Non ti preoccupare, tesoro, sono praticamente arrivata, sono a due passi, No, è meglio se ci salutiamo qui, non conosci mio padre, è una belva, se ci vedesse insieme… Madonna santa! non sai che macello! Se avessero soltanto immaginato che abitava in quella specie di condominio di baracche una appiccicata all’altra, tristi, vicino al fiume.. E se fosse caduto il sipario e avessero  scoperto  che la madre era una… era una… lavandaia… e per giunta anche analfabeta… e che  il padre non era niente più che un… venditore di popcorn… Dio ce ne scansi e liberi!

E iniziò a consumarsi. Due mesi? Un’eternità! Avete chiuso? Era troppo pieno di sé, mà. Ma, Helia, pure tu, mai uno che duri appena un po’di più, mai nessuno che ti vada bene …. Ih, mà, non comincerai mica? Mollami…. Due mesi l’ho sopportato quel… quel cafone. Oltre che cafone, anche geloso. E’ finita, meglio così, è finita. Finita! Si è girato, ha buttato la pallina di carta nella strada, con rabbia, ed è scomparso in mezzo alla folla… Poveretto! Ma…è stato meglio così… Non avrebbe funzionato. Perché girarci attorno? Metti che gli avessi dato corda …. no, non avrebbe mai capito… Se il fidanzamento fosse diventato serio, cosa sarebbe successo? Avrebbe dovuto continuare a sopportare quello spudorato di Jacy, che per qualsiasi stupidaggine veniva a sbraitarle nelle orecchie, che ogni due per tre se ne usciva con quei discorsetti, gnegnegné, bisognava proprio essere deficienti per non accorgersi di quello che voleva, e lei doveva fare la finta tonta, perché aveva bisogno di quel lavoro, a fine mese il padre contava su quella busta di carta bruna, Anche tu però, perché ti metti sempre così in mostra, con quella minigonna? ribatteva Miriam, sua collega di reparto. Bastardo! E’ pure sposato, se li risolvesse in casa i suoi problemi! Invece no: l’occhio vigile sui telai, attente alla navetta, attenzione alla spoletta, attente a non rovinare l’occhiello, attente, attente, attente!

Domenica pomeriggio: sdraiate su due letti singoli affiancati uno all’altro,  coperti  da  un copriletto rosa, Toninha,  Marcia e  Helia  si scambiano confidenze. E Lalado?, chiese Helia. Lalado? Non te l’ho raccontato? Abbiamo chiuso, rispose Marcia. Avete chiuso? Chiuso, sì. Marcia infilò la mano nel reggiseno e ne estrasse una sigaretta mezza schiacciata, accendendola. Ehi, da quando fumi?, domandò Toninha, spaventata. L’ho presa dal pacchetto di papà, non vorrai mica fare la spia, vero Toninha? Io? Io no di certo!, ma se entra qui adesso… Ma no che non entra, Toninha …. Ma…e se la mamma sente la puzza? Ih, Toninha, smettila, dissse Marcia, soffiandole il fumo in faccia. Perché vi siete lasciati, Marcia? chiese Helia, sdraiata bocconi sul letto. Perché? E aspirò il fumo della sigaretta. Perché è un… un idiota! Pensa che martedì quell’asino è venuto a prendermi alla fabbrica dopo il  turno di notte, ero seduta sul portapacchi, incollata alla sua schiena, poi, quando siamo arrivati, sono scesa giù, lui ha appoggiato il pedale della bicicletta sull’orlo del marciapiede e si è messo ad abbracciarmi, a stringermi, spingendomi contro la parete del garage del sor Zé Pinto, cercando di baciarmi in bocca, quasi a forza, e io l’ho lasciato fare, così dopo lui mi ha messo la mano sul seno e io gli ho detto, Togli la mano di lì, Lalado, per chi mi hai presa? E sapete cosa ha fatto quell’animale? Ha chiesto scusa e se n’è andato via! Le tre scoppiarono a ridere. Marcia si alzò, aprì l’armadio, prese un flacone di van ess[3]e lo spruzzò in giro per la stanza. Toninha prese un fotoromanzo.  Helia si avvicinò allo specchio, si passò le mani sui capelli, si valutò di davanti, di schiena, di profilo. Mi trovate brutta?  Brutta?  ma smettila  di dire stupidaggini,  Helia,  disse Marcia.Toninha infilò il naso nella rivista. Helia si sedette sul letto, A volte penso che non ci riuscirò mai… E’ tutto così difficile! Riuscire a fare che, Helia? le chiese Marcia. A uscire… a uscire da questo buco… da questa… questa vita… Toninha, tu… tu non ci pensi mai a… ad andartene via da qui? Toninha scaraventò il fotoromanzo a terra, con violenza, Merda, ti piace proprio rompere, eh?

Quasi le 11, e Helia se ne stava ancora davanti alla stazione. Il sudore le bagnava il viso, i piedi, le ascelle, incollandole gli abiti alla pelle appiccicosa. Camminava piano, gli armadietti vuoti, i cassieri sulla soglia, appoggiati a cavalletti, carrozze ferme dall’altra parte della passeggiata, l’odore forte di urina e di escrementi di cavallo, mosche che volavano, rare automobili ed autobus che circolavano pazienti per le strade, biciclette sonnolente, una coppia che si attardava guardando una vetrina, il sole che abbracciando il letto del treno, raggiungeva la Rua do Comercio, e lei che trascinava i passi, sorda, muta, incrocia un gruppo di fanciulle provenienti dal Collegio delle Sorelle, in camicetta di jersey bianco, gonna blu a pieghe sotto il ginocchio, calzettoni bianchi, scarpe nere, capelli raccolti in nastri di satin, che ostentavano una felicità aggressiva, Puttane! Mostri! Ed ecco arrivare di nuovo quella voglia di piangere, affrettò il passo, voleva arrivare presto, ma… arrivare dove? No, non voleva andare a casa, scendere le scale del vicolo,  entrare in quella cucina dove il suo piatto smaltato stava al caldo in un angolino della cucina economica, con  il tavolo di  compensato  verde scuro  coperto da una tovaglia di plastica color crema, le padelle nere appese allo scolapiatti, le zanzare che volteggiano nell’aria, la madre che strofina i vestiti nella vasca, gli occhi senza più colore, la pella scurita dal troppo sole, Ce ne hai messo, figlia mia, è successo qualcosa?, mangiare controvoglia, accendere la radio, bere un sorso di caffè riscaldato, sdraiarsi sul letto, masticare i minuti in attesa del momento di tornare in fabbrica, prendere l’autobus, smontarne, scambiare due parole con una collega o l’altra, sentire la sirena, timbrare il cartellino e sotterrarsi di nuovo nell’aria umida della tessitura, tutti i giorni, tutti i mesi, tutti gli anni, fino alla fine dei tempi… no, non voleva tornare a casa. Passò per la piazza Rui Barbosa, incrociò la Rua da Cadeia ed imboccò il Ponte Nuovo.

Marcia insistette, Si va a messa, si fa qualche giro attorno alla fontana illuminata, se fa brutto tempo andiamo a cuccare in Piazza Rui Barbosa, poi si va a casa, ma Helia non voleva, Uscire con Toninha, io? no no, non ci penso nemmeno. Quella invidiosa… quella mulatta candeggiata… Marcia cercò di convincerla, E piantala, guarda che Toninha ti vuole bene, ma Helia si impuntò. Preferiva restare in casa, da sola. Papà e mamma erano per strada a vendere popcorn. Il fratello minore probabilmente stava giocando a pallone, o a ce l’hai… L’oscurità si impossessò della sua stanza palmo dopo palmo. Girò l’interruttore della lampada, e la luce le esplose in faccia. Andò verso l’armadio, passò in rivista gli  appendini,  una,  due,  tre volte, soffermandosi sul tubino rosso di popeline  annodato  davanti,  quasi  un palmo sopra al ginocchio, che aveva confezionato durante il corso di Taglio e Cucito di Dona Marta, e che non usava quasi mai, Un’indecenza!, dicevano i genitori. Indossò i sandali neri, gli orecchini a clip con i fiorellini rossi, si mise cipria e rossetto e con la mano a conchiglia sparse dell’essenza di sandalo su nuca, ascelle, braccia, gambe e capelli. Tirò fuori da una scatolina nera un anello placcato oro, con una perla solitaria, regalo di uno dei suoi fidanzati, e la catena con il crocefisso d’oro che suo padre aveva trovato per terra, vicino alla Prefettura. Spense la luce. Helia è ad una festa. Ad un Ballo delle Debuttanti al Clube Social. Cammina lentamente, impollinando i tavoli con la sua grazia e simpatia, lasciandosi alle spalle sguardi colmi di invidia e di desiderio. Sussurri. Chi è quella ragazza? Madonna, quanto è bella. Helia ondeggia, coperta di ammirazione dalla testa ai piedi. Un ragazzo alto, biondo e con gli occhi azzurri si alza, spinge una sedia e la invita a sedersi, Grazie. Mio Dio, chi sei, da quale regno sei fuggita?

Helia, in estasi, sente urlare, Ti ammazzo, disgraziata!, e grida, grida di donna, e rumore di stoviglie che cadono a terra, e un colpo, poi un altro, la donna si divincola, corre fuori, i bambini piangono, Lascia la mamma, papà! Lasciala!, è Ze Bundinha, madonna santissima!, il cuore che batte all’impazzata, le gambe molli, lui la raggiunge, Aiuto, aiuto, mi sta ammazzando! Lascia la mamma, papà, lasciala! Basta, Zè Bundinha, basta! La polizia, chiamate la polizia! Fermati, Zè Bundinha! Chiamate la polizia! Sta ammazzando Dona Brenda! Helia spia dalla veneziana. Zito Pereira riesce ad immobilizzare Zè Bundinha mettendogli il braccio dietro alla schiena, entrambi cadono sopra la staccionata di bambù, Zè Pinto appare all’improvviso, con la pistola in pugno, Che succede qui, eh, che succede?, le donne si spaventano, ricominciano a gridare e a piangere, Per l’amor di Dio, sor Zè Pinto, non c’è bisogno di tanto, non ce n’è bisogno, Avevo avvisato che non voglio casini da queste parti, non è vero? Helia fa scivolare il corpo sul divano di vinilpelle rosso. Calma, raccoglie le gambe al petto, le abbraccia e incastra il mento tra le ginocchia. Poco a poco, le voci si dissipano, il silenzio riconquista ogni rilievo del vicolo. Helia si alza, accende la luce nella stanza, scaglia coi piedi i sandali neri contro il muro, si strappa rabbiosamente gli orecchini a fiorellini rossi, l’anello placcato oro con perla solitaria e il cordone con il crocefisso d’oro, e butta tutto, in qualche modo, dentro all’armadio, si toglie con furia di dosso il tubino rosso di popeline annodato davanti, un palmo sopra al ginocchio, e lo scaglia sul letto del fratello. Poi si infila la camicia da notte bianca, e si sdraia bocconi, il cuscino sopra alla testa. E allora un tremito le squassa il petto, un fiume in piena trattenuto da troppo tempo si espande selvaggio, il corpo macerato che esplode in convulsioni.

Nel bel mezzo del Ponte Nuovo, si ferma. Si sporge dal muretto e rimane ad osservare le acque fangose del Rio Pomba che, lì davanti, quasi nella curva di Vila Teresa, ricevono le acque sporche di soda e tintura del Rio Meia-Pataca. Sulla riva sinistra, sul retro del patio delle case della Rua  Pomba, sapotiglie, ingà, alberi  di melissa. Sulla riva destra, soltanto mato, mato, mato[4] . La Casa di Cura. Sul fondo, la cava di pietra e sulla collina malfamata, il Casas Pernambucanas[5]. Le acque fangose. Due barche piene di sabbia. E ancora quelle acque fangose. Se avesse guardato dietro di sè, le sarebbe mancato il coraggio, vedendo ragazzi e ragazze che prendevano il sole sul bordo della piscina del Clube Remo. Il sole caldo le arrostisce il cervello. No, non ci sarà mai nessun principe azzurro…Gli occhi fissi nei mulinelli che si formano in mezzo al fiume. Il fragore liquido. I mulinelli. L’acqua fangosa. Il sole sulla sua testa. Non riuscirò mai ad andarmene da questo inferno, non ci riuscirò mai…Le auto che passano. Gli autobus. Le biciclette. I mulinelli. L’acqua. Il sole. Forse.. chissà, forse è meglio… è meglio… morire… almeno finisce tutto… tutto… Vieni Helia, vieni… Riposare… la fine di tutto… Vieni, Helia… Vieni con me…vieni… Helia si sente stordita, le gira la testa, le manca la terra sotto i piedi, quando all’improvviso una mano grande e callosa si posa sulla sua spalla, Vieni con me, Helia, vieni, non ti senti bene, vero? E Helia sente in lontananza la voce di Maripà e lui la afferra e se ne vanno piano pianino, insieme, verso il vicolo.



[1]“la palma”

[2]danza originaria di Cuba

[3]marca di deodorante  di bassa qualità

[4]tipica foresta che circonda le favelas.

[5] grande magazzino popolare con  merci di qualità mediocre


(Tradotto dal Portoghese da Patrizia di Malta.)


IN LINGUA ORIGINALE:

A SOLUÇÃO

Luiz Ruffato

Hélia vigiava aflita a entrada da seção. Todos já tinham sido rendidos, e a Júlia  que não chega! Que ódio! Que ódio! O avental de pano cru enrolado na mão direita, várias vezes levara a unha do fura-bolo à boca para roer, mas lembrava-se do esmalte, do esmalte vermelho, não queria lascar, não queria, tinha que durar até sábado... O ronco rouco dos teares redemoinhava em suas orelhas. Onde foi parar aquela vaca? Vaca! Piranha! Ai, vou acabar perdendo o ônibus! A zanga fumegava nos espasmos de suas pálpebras, desgraçada! Ah, lá vem ela, cara lambida, como se o mundo fosse dela!, arrancou o lenço da cabeça, passou pela Júlia, nem oi disse, envenenou-a com a peçonha de seus olhos, Júlia tentou se desculpar, falou qualquer coisa, mas nem ouviu, o ruído ronceiro das máquinas esgarçou sua voz. No banheiro, Hélia penteou os cabelos curtos, noturnos, e espanou os fiapos de algodão que se agarravam na blusa de fustão azul e na minissaia branca. No pátio vazio, seu corpo arrupiou com o bafo quente, Porcaria!, vou acabar constipando de novo... Bateu o cartão-de-ponto e, Droga!, lá vem aquela vontade de chorar, Manteiga derretida! O cata-níquel já passara e agora nem carona de bicicleta conseguiria mais. O negócio era ir andando até em casa, lençóis de nuvens brancas quarando ao sol de dez e vinte, fevereiro, Ah!, o Clube do Remo deve de estar lotado, Ai, meu deus, quem me dera!, mas, quem sou eu! Bem que podia me aparecer um moço louro, bem forte, olhos azuis, montado numa vespa prateada, Oi, meu anjo, pra onde você está indo?, Ah, é meu caminho, Sobe aí, eu te levo, Segura bem pra não cair, heim!, Que besteira! Vou ter é que gastar a sola do tamanco novinho nesse paralelepípedo pegando fogo, Ai, meu deus, como estou cheia disto tudo! Como estou cheia!

Mergulhou as mãos na baciinha verde, temperada com água de sabão-em-pó, e apoiou o pé esquerdo no colo da Toninha, que estava sentada numa banqueta. Toninha começou a futicar a cutícula do dedão com uma espátula, Ai, toma cuidado, não vai me tirar bife, heim!, Aqui, ó, esse aqui, beterraba, É, de novo sim, adoro a cor dele, fica bem em mim, você não acha?, então! E o Maripá, Hélia?, perguntou a Márcia. O Plínio?, e Hélia fez-se de desentendida, Não, Toninha, quê isso!, assim você me  machuca,  cruz  credo! Ah,  Marcinha,  você  sabe,  não  é?,  quero nada com ele não...

Ah,  ele é superbacana, Hélia, disse a Toninha. Bacana? Não tem nem onde cair morto!

É, mas é gente-fina, disse a Márcia. Um tipão!, completou a Toninha. Além do quê, ele parece estar gamado por você, emendou. Hélia riu. Sabe como é que ele chama janela?, Jinela. Jinela? E Toninha e Márcia abriram-se numa estrondosa gargalhada. Ele fala assim pra mãe, Fecha  a  jinela,  dona  Zulmira,  que já lá  vem  uma  tribuzana!  Tribuzana? E as amigas caíram na gargalhada novamente. Tribuzana! É, é assim que ele chama chuva de trovoada, tribuzana. E conga? Sabem como é que ele chama conga? Tiburço. Ah, vai, Hélia... Estou falando, uai! E calaram-se. Toninha esgrimia o pau-de-laranjeira para tirar os excessos de esmalte das unhas dos pés da Hélia. Márcia debruçou-se no parapeito da janela, Tiburço... Essa é boa! Então, os sons do beco, sábado à tarde, insinuaram-se quarto adentro: meninos de cócoras jogando bilosca; meninas brincando de queimada; a Bibica atrás do Marquinho, Marquinho! Ô Marquinho! Ah, se eu pego esse safado!; a música irradiada da casa da dona Olga; as  corredeiras do rio Pomba; a conversa de duas vizinhas que recolhiam a roupa do varal. No fundo eu tenho pena dele, disse a Hélia. O quê?, virou-se a Márcia. Toninha apartou os pés da Hélia de seu colo e disse, Pode tirar as mãos do molho. Pena, pena mesmo, vocês acreditam? Ele não tem um ofício... Sabe fazer nada... Os bicos que ele arruma, torra comprando roupa... perfume... dando presente pros outros... Ele é é um... um bobo... um bobo alegre... Alguém passa sob a janela, falando alto. E eu... eu quero é casar com um homem... assim... bem rico... alguém que me tire... que me leve embora daqui... desse buraco... Ah, isso eu também quero, disse a Márcia. Quem não quer?, disse a Toninha, concluindo, O difícil é arrumar. Pois eu vou arrumar, vocês vão ver! Estou cansada... Cansada de morar nessa casa... nessa bagunça... nem um quarto só pra mim eu tenho... E estou de saco cheio da fábrica... acordar cedo... agüentar o Jacy... Jacy é aquele contra-mestre?, perguntou a Márcia. É, aquele metido a galã... Galã?, assanhou-se a Toninha, mas Hélia ignorou-a, Vou arrumar um homem rico, bem rico, disse, elevando os olhos para os picumãs enrodilhados nas telhas enegrecidas.

À noite saiu com o Maripá. De mãos dadas, em silêncio, deram três voltas pela Praça Rui Barbosa, pararam para ver os cartazes dos filmes no Cine Edgard, compraram  um  pacote  de pipoca, sentaram-se num banco, de frente para o Bar Elite. Hélia  respirou  fundo,  disse,  Plínio, tenho uma coisa pra te falar... mas não quero que você fique magoado comigo não... mas... não quero te iludir... você é tão bom... tão legal... Ele amassou o pacote de pipoca vazio, Você quer terminar? É... olha... eu só tenho quinze anos... você tem vinte... é cedo pra namorar firme... quem sabe a gente... mais tarde... quem sabe a gente não se encontra... depois... a vida dá muitas voltas... a gente pode até casar... quem sabe? acontece... tem uma amiga da mãe que... Maripá levantou-se, encarou-a, disse, Deixa de conversa fiada, Hélia!, eu sei o que acontece. Você não gosta de mim. Não gosta porque eu sou pobre. Não sirvo pra você... ninguém serve... Tem problema não. Não tem mesmo! Eu sinto é por você. Tenho pena. Só vou te falar uma coisa, Hélia: quem muito lambisca, acaba não  comendo. Você pensa que é mais do que é. Mas não é não, Hélia. Não é mesmo! Cuidado pra vida não te decepcionar. Cuidado! Virou as costas, jogou a bolinha de papel na rua, com raiva, e sumiu no meio da multidão. A Toninha e a Márcia aproximaram-se, excitadas, Nós vimos! Nós vimos! E riam que riam. Conta!, conta como foi! Ah, disse Hélia, ele ficou uma arara, disse assim (e ficou de pé, para imitá-lo melhor): Quem muito lambisca, acaba comendo pouco. Lambisca? E as três desmaiaram-se numa gargalhada. E ele falou assim, que eu quero ser mais do que eu sou e que... Isso é verdade, disse a Toninha. O quê que é verdade?, perguntou a Hélia. Uai, esse negócio... todo mundo acha você metida. Todo mundo quem, Toninha?, perguntou a Hélia, fula. Ué, todo mundo. Lá no beco... Ô Toninha, vamos parar?, ralhou a Márcia. Está bem, está bem, não está mais aqui quem falou...

Lambisca... Agora, quinta-feira, já não achava mais aquele fora tão engraçado assim. Coitado! Era um rapaz... bem intencionado... Só isso... Esquece... Foi o primeiro entre os... ah!, tinha perdido a conta... mas foi o primeiro dos namorados  a querer, sinceramente, conhecer os “sogros”, que apreciaram bastante o moço de espáduas largas, cara quadrada, mãos trabalhadeiras, falante, cativoso, despachado, que comoveu-se deverasmente ao saber que o pai tinha ponto na Praça Rui Barbosa, Então, seu Marlindo, que coisa!, comi muita pipoca do senhor lá!, e que a mãe lavava e passava para fora, Dona Zulmira, dona Zulmira, vou arrumar umas lavagens de roupa pra senhora, deixa estar! Implicaram mesmo foi com o cabelo comprido dele, pretinho, pretinho,  cacheado,  Corta  não, tão bonito! Mas, não, não gostava daquilo, daquela camaradagem... Queria esquecer que tinha família, queria esquecer dos pais bocós, Ah, se pudesse passar uma borracha no passado! Não, minha mãe morreu no parto, coitada, e meu pai quando eu tinha uns seis anos... Fui criada por uma parenta distante, muito rica... Sim, era vergonha o que sentia, vergonha... Por isso, quando vinha da rua com um namorado, dava um jeito de se despedir antes de se aproximarem do Beco do Zé Pinto, Pode deixar, meu bem, já estou praticamente em casa, um pulinho, Não, é melhor você me deixar aqui mesmo, você não conhece meu pai, ele é uma fera, se pegar a gente junto... nossa senhora!, vai ser um fuzuê! Se sonhassem que morava naquele correio de casas de parede-meia, tristes, perto do rio... E se caísse a cortina e descobrissem que a mãe era uma... era uma... lavadeira... e ainda por cima... analfabeta... e que o pai não passava de um... pipoqueiro... Deus me livre e guarde!

E definhou. Dois meses? Uma eternidade! Acabou? Muito entrão, ele, mãe. Mas, Hélia, você também não pára com ninguém, ninguém serve pra... Ih, mãe, vai começar? Me deixa... Dois meses aturando aquele... caipira. Além de caipira, ciumento. Acabou, melhor assim, acabou, acabou! Virou as costas, jogou a bolinha de papel na rua, com raiva, e sumiu no meio da multidão... Coitado! Mas... foi melhor assim... Não ia mesmo dar certo. Para que enrolar? Se desse corda praquele namoro...  Não, ele nunca iria entender... Se o namoro se firmasse, o que aconteceria? Ia ter que continuar agüentando o desaforado do Jacy, que por tudo e por nada vinha berrar no seu ouvido, que vira-e-mexe vinha com aquela conversinha fiada, nhenhenhem que só uma besta-quadrada não percebia, e ela tinha que se fingir de burra, porque precisa do emprego, fim do mês o pai contava com o envelope pardo, Também, pra quê que você se expõe assim, com essa minissaia?, implicava a Miriam, a colega de seção. Desgraçado! Ele é casado, que resolvesse seu problema em casa, ora! Mas não: olho-vivo nos teares, cuidado com a lançadeira, cuidado com a espula, cuidado para não arrebentar a auréola, cuidado, cuidado, cuidado!

Domingo à tarde, esparramadas sobre duas camas de solteiro encostadas uma à outra,  cobertas  por  uma  grande colcha-de-xenil  rosa,  Toninha, Márcia  e Hélia conversam. E o Lalado?, Hélia perguntou. Lalado?   Não  te  contei  não?  Nós terminamos, respondeu a Márcia. Terminaram? Terminamos. Márcia enfiou a mão no sutiã e de lá tirou um cigarro todo amassado, acendendo-o em seguida. Ei, desde quando você fuma?, perguntou a Toninha, assustada. Peguei do maço do pai, você não vai me dedar, não, não é, Toninha? Eu? Eu não!, mas se ele entra aqui agora... Ele não vai entrar não, Toninha... Mas... e se a mãe sentir o cheiro? Ih, Toninha, pára, disse Márcia, baforando a fumaça em seu rosto. Por quê que vocês terminaram, Márcia?, perguntou a Hélia, deitada de bruços na cama. Por quê? E tragou o cigarro. Porque ele é um... ele é um estúpido! Imagine que terça-feira o burrão foi me pegar depois do serão na porta da fábrica, vim na garupeira, pegada nas costas dele, aí, quando chegamos, desci, ele encostou a bicicleta no meio-fio e veio me agarrando, me imprensando contra a parede da garagem do seu Zé Pinto, tentando me beijar na boca, à  força, e eu deixando, aí ele pôs a mão no meu peito, eu falei, Tira a mão daí, ô Lalado, está pensando que eu sou dessas, é? E sabe o que o bestalhão fez? Pediu desculpa. Foi embora! As três caíram na gargalhada. Márcia levantou-se, abriu o guarda-roupa, pegou um frasco de Van Ess e borrifou pelo quarto. Toninha abriu uma fotonovela. Hélia aproximou-se do espelho, passou as mãos pelos cabelos, mediu-se de frente, de costas, de lado. Vocês me acham feia? Feia? Deixa de ser boba, Hélia, disse a Márcia. A Toninha enfiou o nariz na revista. Hélia sentou-se na cama, Às vezes acho que nunca vou conseguir... É tudo tão difícil! Conseguir o quê, Hélia?, perguntou a Márcia. Sair... sair desse beco... dessa.. vida... Toninha, você... você não pensa em... em um dia sair... desse... desse buraco não? Toninha jogou a fotonovela no chão, com violência, Merda, você gosta de ser chata, heim!

Quase onze horas e Hélia ainda estava em frente à Estação. O suor banhava seu rosto, seus pés, seus sobacos, colava sua roupa à pele pegajosa. Caminha devagar, os armarinhos vazios, os caixeiros à porta, encostados nos cavaletes,  carroças estacionadas no outro lado do passeio, o cheiro forte de mijo e de bosta dos cavalos, moscas voejando, raros carros e ônibus circulam pela rua pacientes, bicicletas sonolentas, um casal atrasa-se olhando uma vitrina, o sol carpe o leito do trem,  alcança  a  Rua  do Comércio, passos arrastados, surda, muda, cruza com um grupo de meninas  vindas  do  Colégio  das Irmãs,  camiseta  de  malha branca, saia azul-marinho  plissada, abaixo do joelho, meia branca, sapatos pretos, cabelos amansados com fitas de cetim, ostentando uma agressiva felicidade, invejou-as, nem a viram, Piranhas! Horrorosas! E veio de novo aquele ameaço de choro, apertou o passo, queria chegar logo, mas... chegar aonde? Não, não queria ir para casa, descer as escadas do beco, entrar na cozinha, o prato esmaltado quentando num cantinho do fogão-de-lenha, a mesa de compensado verde-escura coberta por uma toalha de plástico creme, as panelas pretas penduradas na prateleira, mosquitos dançando no ar, a mãe esfregando roupas no tanque, os olhos sem cor, a pele queimada de muitos sóis, Demorou, minha filha, Aconteceu alguma coisa?, almoçar sem vontade, ligar o rádio, tomar um gole de café requentado, deitar na cama, mastigar os minutos à espera da hora de voltar para a fábrica, pegar o ônibus, apear, conversar rapidamente com uma ou outra colega, ouvir o apito, bater o cartão-de-ponto, e se enterrar novamente no ar úmido da tecelagem, todos os dias, todos os meses, todos os anos, até o fim dos tempos... Não, não queria voltar para casa. Passou pela Praça Rui Barbosa, cruzou a Rua da Cadeia e entrou na boca da Ponte Nova.

A Márcia ainda insistiu, A gente vai à missa, dá umas voltas na fonte luminosa, se estiver ruim, a gente vai paquerar na Praça Rui Barbosa, depois volta para casa, mas a Hélia não quis, Eu não... sair com a Toninha? De jeito nenhum, aquela invejosa... sarará... A Márcia tentou convencê-la, Deixa disso, a Toninha gosta de você, mas a Hélia bateu o pé. Preferiu ficar sozinha em casa. O pai e a mãe estavam na rua, vendendo pipoca. O irmão caçula devia de estar jogando bola ou brincando de salve... A escuridão alojou-se pé-ante-pé em seu quarto. Girou o bocal da lâmpada e a luz explodiu em seu rosto. Caminhou até o guarda-roupa, repassou os cabides, uma, duas, três vezes, deteve-se no tubinho vermelho, de popelina, com um laço na frente, quase um palmo acima do joelho, que tinha feito no curso de corte-e-costura da dona Marta, e que quase nunca usava, Uma indecência!, diziam os pais. Colocou a sandália preta, o brinco-de-pressão de florzinhas vermelhas, passou batom, pó-de-arroz, com a mão em concha espalhou Sândalus pela nuca, sobacos, braços, pernas, cabelos. Tirou da caixinha preta o anel folheado, com uma solitária pérola, presente de um dos namorados, e  o  cordão  com  um  crucifixo de ouro, que o pai achara no  chão,  perto da Prefeitura. Apagou a luz. Hélia está numa festa. Numa festa de debutantes no Clube Social. Caminha devagar, polinizando as mesas com sua graça e simpatia, deixando atrás de si olhares prenhes de inveja e de cobiça. Sussurros. Quem é essa moça? Nossa, como é linda! Hélia flutua, dos pés à cabeça coberta de admiração. Um rapaz alto, louro e de olhos azuis levanta-se, puxa uma cadeira, convida-a para sentar-se, Obrigada. Meu deus, quem é você? De que reino você fugiu? Hélia, enlevada, ouve um berro, Vou te matar, desgraçada!, e gritos, gritos de mulher, e barulho de vasilhas caindo no chão, um tapa, outra tapa, a mulher se desvencilha, corre para fora, as crianças choram, Larga a mãe, pai! Larga!, É o Zé Bundinha, minha nossa senhora!, o coração disparado, as pernas bambas, ele a alcança, Acudam, Acudam, ele está me matando! Larga a mãe, pai, larga ela! Pára, Zé Bundinha, pára! Chama a polícia! Pára, Zé Bundinha!, Chama a polícia!, ele vai matar a dona Brenda! Hélia espia pela janela-veneziana. O Zito Pereira consegue imobilizar o Zé Bundinha numa chave-de-braço, ambos caem sobre a cerca de bambu, o Zé Pinto aparece, revólver na mão, Quê que houve, aí, quê que houve?, as mulheres espantam-se,  recomeçam a gritar e a chorar, Pelo amor de deus, seu Zé Pinto, não carece disso não, não carece disso não, Eu já falei que não quero bagunça por aqui, não falei? Hélia desliza o corpo sobre o sofá de vinil vermelho. Quieta, encolhe as pernas, abraça-as e encaixa o queixo no vão dos joelhos. As poucos, as vozes se dissipam, o silêncio reconquista cada saliência do beco. Hélia se levanta, acende a luz do quarto, com os pés lança a sandália preta na parede, arranca com raiva o brinco-de-pressão de florzinhas vermelhas, o anel folheado, com uma solitária pérola e o cordão com um crucifixo de ouro, e atira tudo, de qualquer jeito, dentro do guarda-roupa, puxa com fúria o tubinho vermelho, de popelina, com um laço na frente, quase um palmo acima do joelho, e joga-o sobre a cama do irmão. Veste a camisola branca, deita-se de bruços, o travesseiro cobrindo a cabeça. E então um tremor abala seu peito, uma enchente, há muito contida, espalha-se selvagem, explodindo numa convulsão em seu corpo macerado.

No meio da Ponte Nova, parou. Debruçou-se na mureta e ficou observando  as águas  barrentas  do  Rio Pomba  que,  lá na  frente,  quase na  curva  da Vila Teresa, recebem  as  águas  sujas de  soda e tinta do Rio Meia-Pataca. Na margem esquerda, o fundo do quintal das casas da Rua do Pomba, abieiros, ingazeiras, mangueiras, abacateiros, pés de mamona, touceiras de erva-cidreira. Na margem direita, mato, mato, mato. A Casa de Saúde. Ao fundo, a Pedreira, no alto pichado Casas Pernambucanas. As águas barrentas. Dois barcos cheios de areia. E as águas barrentas. Se olhasse para trás, não tinha coragem, veria moças e rapazes se queimando nas piscinas do Clube do Remo. O sol quente torrando sua cabeça. Não, não vai nunca me aparecer um príncipe encantado... Os olhos  fixos nos redemoinhos que se formam no meio do rio. O barulho líquido. Os redemoinhos. A água barrenta. O sol na cabeça. Não, nunca vou conseguir sair desse inferno... Os carros que passam. Os ônibus. As bicicletas. Os redemoinhos. A água. O sol. Melhor... melhor... talvez... quem sabe... morrer... acaba tudo... acaba... Vem, Hélia, vem... Descansar... o fim... Vem, Hélia... Vem comigo... Vem... E Hélia então sentiu-se zonza, zonza, e o chão faltou a seus pés, e uma mão grande e calejada pousou em seu ombro, Vem, comigo, Hélia, vem, você está passando mal, heim? E Hélia ouviu longe-longe a voz do Maripá e ele amparou-a e foram andando devagar, bem devagar, em direção ao beco.


Luiz Ruffato è nato nel 1961 a Cataguases, nello Stato di Minas Gerais (Brasile). Ha pubblicato, sempre in portoghese, Histórias de Remorsos e Rancores (1998), (Os sobreviventes) (2000, Premio Casa de las Américas, concesso dal Governo di Cuba), Eles eram muitos cavalos (2001, Premio APCA e Premio Machado de Assis), As Máscaras Singulares, (2002) e Os Ases de Cataguases (2002, una storia dei primi anni del Modernismo brasiliano). Eles eram muitos cavalos è di prossima pubblicazione in Italia presso Francesco Bevivino Editore.


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