IL SURREALISMO

Luís Buñuel



Tra il 1925 e il 1929 tornai diverse volte in Spagna dove rividi gli amici della Residenza. In occasione di uno di quei viaggi Dalí mi annunciò, con grande entusiasmo, che Lorca aveva appena scritto uno splendido lavoro teatrale, L’amore di don Perlimplin con Belisa nel suo giardino.
“Deve assolutamente leggertelo”.
Federico si mostrò reticente. Mi giudicava piuttosto spesso, e non senza ragione, troppo elementare, troppo campagnolo, per apprezzare le finezze della letteratura drammatica. Un giorno che doveva andare da non so più quale aristocratico, rifiutò perfino la mia compagnia. Tuttavia, assillato da Dalí, accettò di leggermi il suo lavoro. Ed eccoci tutti e tre al bar dell’hôtel Nacional, nel seminterrato. Dei tramezzi di legno formavano piccoli scomparti come in certe birrerie dell’Europa centrale.
Lorca incomincia a leggere. Ho già detto che leggeva benissimo. Pure, qualcosa non mi andava nella storia del vecchio e della ragazza che, alla fine del primo atto, si ritrovano in un letto col baldacchino e le cortine chiuse. In quel momento, uno gnomo esce dalla buca del suggeritore e si rivolge al pubblico: “Ed ecco, rispettabile pubblico, che adesso don Perlimpín e Belisa...”
Interrompendo la lettura, batto il pugno sul tavolo e dico:
“ Basta così, Federico. È una merda”.
Diventa pallido, richiude il manoscritto, guarda Dalí il quale conferma con il suo vocione:
“ Buñuel ha ragione. Es una mierda”.
Non ho mai saputo come finiva quel lavoro. A questo punto, devo confessare la fragilità della mia ammirazione per il teatro di Lorca, che molto spesso mi sembra retorico, didascalico. La sua vita, la sua personalità superavano di gran lunga l’opera.
In seguito, andai alla prima di Yerma, al Teatro Español di Madrid, con mia madre, mia sorella Conchita e suo marito. Stavo talmente male per una sciatica, quella sera, che dovevo tenere la gamba distesa su uno sgabello, nel palco. Si alza il sipario: un pastore attraversa pianissimo il palcoscenico, perché gli ci vuole parecchio per recitare una lunga poesia. Intorno ai polpacci, porta una pelle di pecora legata da piccole fasce. Non la finisce più. Già impaziente, resisto. La scene si susseguono. Arriva l’inizio del terzo atto. Alcune lavandaie stanno lavando i panni sullo sfondo di un ruscello. Udendo uno scampanellio, esclamano: “Il gregge! Ecco il gregge!”.
In fondo alla sala, due mascherine agitano una campanella. Tutta la Madrid bene trova questa regia originale, molto moderna. Quanto a me, furibondo, lasciai il teatro sorreggendomi a mia sorella.
Il mio passaggio al surrealismo mi aveva allontanato – e per molto tempo – da quella pseudo “avanguardia”.


Dopo i vetri rotti di “la Closerie des Lilas”, mi sentivo sempre più attirato dalla forma di espressione più irrazionale che proponeva il surrealismo – quel surrealismo contro il quale Jean Epstein mi aveva inutilmente messo in guardia. Particolarmente colpito dalla pubblicazione, sulla rivista La Révolution surréaliste, della fotografia raffigurante “Benjamin Péret che insulta un prete”, ero rimasto affascinato, nella stessa rivista, da un’inchiesta, un interrogatorio sul sesso condotto presso vari membri del gruppo che apparentemente rispondevano in tutta libertà e franchezza. Oggi può apparire banale, ma allora, quell’inchiesta – “Dove le piace fare l’amore? Con chi? Come si masturba?” – mi sembrò straordinaria. Dev’essere stata la prima del genere.
Nel 1928, per iniziativa della Società di Corsi e Conferenze della Residenza, andai a Madrid per parlare del cinema d’avanguardia e presentare qualche film, Entr’acte di René Clair, la sequenza del sogno nella Fille de l’eau di Renoir, Rien que les heures di Cavalcanti, e anche certe inquadrature che mostravano qualche esempio di ripresa estremamente rallentata, come una pallottola che esce lentamente dalla canna di un’arma. Il fior fiore della buona società – come dicono – assisteva alla conferenza, che ebbe molto successo. Dopo le proiezioni, Ortega y Gasset mi confessò perfino che se fosse stato più giovane si sarebbe convertito al cinema.
Prima che iniziasse la conferenza, dissi a Pepín Bello che mi sembrava il momento più adatto per bandire di fronte a quel rispettabile pubblico un concorso di mestruazioni e assegnare il primo premio. Ma quell’atto surrealista non venne compiuto.
In quel momento ero probabilmente l’unico spagnolo – tra quelli che avevano lasciato la Spagna – a possedere qualche nozione cinematografica. E dev’essere proprio per questo che – in occasione del centenario della morte di Goya – il comitato Goya di Saragozza mi propose di scrivere e realizzare un film sulla vita del pittore aragonese, dalla nascita fino alla morte. Scrissi una sceneggiatura completa, oltre al soggetto naturalmente, aiutato dai consigli tecnici di Marie Epstein, sorella di Jean. Dopo di che andai a trovare Valle-Inclán, al Circolo delle Belle Arti, per scoprire che stava preparando anche lui un film sulla vita di Goya. Ero già pronto a chinare rispettosamente il capo davanti al maestro, quando quest’ultimo si ritirò, non senza avermi dato qualche consiglio. Alla fine, il progetto fu accantonato per mancanza di fondi. E adesso posso ben dirlo: fortunatamente.
La mia ammirazione per Ramón Gómez de la Serna era sempre vivissima. Il secondo soggetto cui lavorai si ispirava a sette o otto racconti brevi dello scrittore. Per riunirli tutti, mi venne in mente di far vedere all’inizio, sotto forma di documentario, le varie fasi della lavorazione di un giornale. Per strada poi, un uomo comprava quel giornale e si sedeva a leggerlo su una panchina. A questo punto, inserivo le varie storie di Gómez de la Serna tutte collegate alle rubriche del giornale: un fatto di cronaca, nera o no, un avvenimento politico, sportivo, eccetera. Alla fine, credo che l’uomo si alzasse, appallottolasse il giornale tra le mani e lo buttasse via.
Pochi mesi dopo realizzai il mio primo film, Un chien andalou. Il fatto che avessi lasciato perdere il film ispirato ai suoi racconti deluse un po’ Gómez de la Serna. Ma La Revue du Cinéma pubblicò la sceneggiatura completa, cosa che lo racconsolò parecchio.

UN CHIEN ANDALOU (1929)

Questo film nacque dall’incontro fra due sogni. Appena giunto a Figueras, da Dalí, invitato a passarci qualche giorno, gli raccontai che avevo sognato da poco una nuvola lunga e sottile che tagliava la luna e una lama di rasoio che spaccava un occhio. Lui mi raccontò che la notte prima aveva visto in sogno una mano piena di formiche. Aggiunse: “E se dai due sogni ricavassimo un film?”.
Proposta che inizialmente mi lasciò perplesso, ma ben presto ci mettemmo al lavoro, a Figueras.
La sceneggiatura fu scritta in meno di una settimana secondo una semplicissima regola adottata di comune accordo: non accettare alcuna idea, alcuna immagine in grado di condurre a una spiegazione razionale, psicologica o culturale. Aprire le porte all’irrazionale. Accogliere soltanto le immagini che ci colpivano, senza cercar di capire perché.
Tra noi non ci fu mai la minima contestazione. È stata una settimana di identificazione totale. Uno diceva, per esempio: “L’uomo trascina un contrabbasso”. “No” diceva l’altro. E quello che aveva proposto l’idea accettava subito il rifiuto. Lo sentiva giusto. In compenso, quando l’immagine proposta da uno veniva accettata dall’altro, ci sembrava immediatamente luminosa, indiscutibile e la scrivevamo seduta stante.
Quando la sceneggiatura fu terminata, mi resi conto che si trattava di un film assolutamente inconsueto, provocatorio, che nessuna produzione normale avrebbe mai accettato. Ragione per cui chiesi a mia madre una certa somma per poterlo produrre in proprio. Convinta grazie all’intervento del notaio, mi diede il denaro richiesto.
Tornai a Parigi. Dopo aver scialacquato la metà di quei soldi nei locali notturni dove passavo le mie serate, mi dissi che a questo punto una certa serietà s’imponeva e dovevo fare qualcosa. Mareuil, con l’operatore Duverger, con i teatri di posa di Billancourt, dove il film fu girato in una quindicina di giorni.
Eravamo solo in cinque o sei, sul set. Gli attori non sapevano niente di quello che facevano. Dicevo per esempio a Batcheff: “Guarda dalla finestra come se stessi ascoltando una musica di Wagner. Mettici ancora più pathos”. Ma lui non sapeva cosa stesse guardando, vedendo. Tecnicamente, me la cavavo già benino, avevo una certa autorevolezza, inoltre andavo d’amore e d’accordo con Duverger, l’operatore.
Dalí arrivò solo tre o quattro giorni prima dell’ultimo ciac. Sul set, si occupava di versare la pece negli occhi delle teste d’asino precedentemente impagliate. Durante una scena, impersonò uno dei due fratelli maristi che Batcheff si tira faticosamente dietro, ma nel montaggio definitivo la scena è stata tagliata (non so più per quale motivo). A un certo punto lo si vede in lontananza accorrere con Jeanne, la mia fidanzata, dopo la caduta mortale dell’eroe. L’ultimo giorno – si girava a Le Havre – Dalí era con noi.
Il film fu finito e montato, e adesso? Un giorno al “Dôme”, Thériade, di Les Cahiers d’Art, che aveva sentito parlare di Un chien andalou (facevo un po’ il misterioso con gli amici di Montparnasse), mi presentò Man Ray. Quest’ultimo aveva appena finito di girare a Hyères, dai Noailles, un film che s’intitolava Le mistère du château de Dé (un documentario sul castello dei Noailles e i loro ospiti) e stava cercando un supplemento al programma.
Man Ray mi diede un appuntamento alla “Coupole” (aperta da un paio di anni) e mi presentò Luis Aragon. Sapevo che appartenevano entrambi al gruppo dei surrealisti. Aragon, che aveva tre anni più di me, si presentava con tutta la grazia delle buone maniere francesi. Chiacchierammo per un po’, e alla fine dichiarai che, sotto certi aspetti, Un chien andalou poteva essere considerato un film surrealista, o almeno così mi sembrava.
Il giorno dopo, Man Ray e Aragon lo videro allo “Studio del Ursulines”. All’uscita, soddisfatti e convinti, mi dissero che bisognava metterlo subito in luce, farlo vedere, organizzare una prima.
Il surrealismo fu innanzitutto una specie di appello raccolto qua e là, negli Stati Uniti, in Germania, in Spagna, in Iugoslavia, da gente che già praticava una forma di espressione istintiva e irrazionale ancora prima di conoscersi. Le poesie che avevo pubblicato in Spagna, prima di sentir parlare del surrealismo, sono una testimonianza di questo appello, che ci faceva convergere tutti verso Parigi. Anche Dalí e io, lavorando a Un chien andalou, praticavamo una specie di scrittura automatica: eravamo dei surrealisti senza etichetta.
C’era qualcosa nell’aria, come capita sempre. Ma aggiungo subito, per quanto mi concerne, che l’incontro con il gruppo fu essenziale e decisivo per il resto della mia vita.
L’incontro ebbe luogo al caffè “Cyrano”, in place Blanche, dove il gruppo si riuniva ogni giorno. Conoscevo già Man Ray e Aragon. Mi presentarono Max Ernst, André Breton, Paul Eluard, Tristan Tzara, René Char, Pierre Unik, Tanguy, Jean Arp, Maxime Alexandre, Magritte – tutti, tranne Benjamin Péret che all’epoca si trovava in Brasile. Mi strinsero la mano, mi offrirono un bicchiere e promisero di presenziare in massa alla prima del film, che Man Ray e Aragon avevano descritto con grande calore.
Quella prima rappresentazione pubblica di Un chien andalou fu organizzata con inviti a pagamento alle “Ursulines” e radunò la crema della società parigina, come si diceva allora, e cioè alcuni aristocratici, alcuni scrittori o pittori già celebri (Picasso, Le Corbusier, Cocteau, Christian Bérard, il musicista Georges Auric) e naturalmente il gruppo dei surrealisti al gran completo.
Nervosissimo com’è facilmente intuibile, me ne stavo dietro lo schermo con un grammofono e, durante la proiezione, alternavo tanghi argentini con Tristano e Isotta. Mi ero messo in tasca dei sassi per buttarli sul pubblico, se per caso avessi fatto fiasco. Poco tempo prima, i surrealisti avevano accolto con urla e schiamazzi La coquille et le clergyman, un film di Germaine Dulac (sceneggiato in collaborazione con Antonin Artaud) – che pure mi era piaciuto. Ero preparato al peggio.
I sassi non furono necessari. Alla fine del film, dietro lo schermo, udii lunghi applausi e mi liberai con discrezione, sul pavimento, dei miei proiettili.

Il mio ingresso nel gruppo surrealista avvenne in modo molto semplice e molto naturale. Fui ammesso alle riunioni che si tenevano al “Cyrano” e più raramente da Breton, in Rue Fontaine 42.
Il “Cyrano” era un tipico caffè di Pigalle, popolare, con puttane e magnacci. Ci andavamo generalmente tra le cinque e le sei. Le bibite si dividevano in pernod, mandarino-curaçao e Picon-birra (con un’ombra di granatina). Quest’ultima era la bevanda preferita del pittore Tanguy. Che ne beveva un primo bicchiere, e poi un secondo. Al terzo, doveva chiudersi il naso con due dita.
Il tutto somigliava a una peña spagnola. Si leggeva o si discuteva di questo o quell’articolo, si parlava della rivista, di un’azione esemplare da compiere, di una lettera da scrivere, di una manifestazione. Ciascuno proponeva un’idea, dava il suo parere. Quando la conversazione doveva convergere su un argomento preciso, più confidenziale, la riunione si svolgeva nello studio di Breton, poco distante.
Quando arrivavo fra gli ultimi, stringevo la mano solo ai più vicini, accanto ai quali mi sedevo, limitandomi a salutare con un cenno André Breton, se si trovava troppo lontano – al punto che un giorno domandò a un altro membro del gruppo: “Ma Buñuel ce l’ha forse con me?”. Quello rispose che non avevo proprio niente contro di lui, ma detestavo l’abitudine francese di stringere la mano a tutti e in ogni momento – abitudine che in seguito, sul set di Cela s’appelle l’aurore (Amanti di domani), avrei severamente proibito.
Come tutti i membri del gruppo, mi sentivo attirato da una certa idea di rivoluzione. I surrealisti, che non si consideravano terroristi né attivisti armati, lottavano contro una società che detestavano usando come arma principale lo scandalo. Contro le disuguaglianze sociali, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, l’influenza abbrutente della religione, il militarismo rozzo e colonialista, considerarono a lungo lo scandalo come il rivelatore onnipotente, capace di mettere a nudo le molle segrete e odiose del sistema da abbattere. Ben presto, qualcuno di loro voltò le spalle a questa forma di azione per darsi alla politica vera e propria, e principalmente all’unico movimento che allora ci sembrava degno di chiamarsi rivoluzionario, il movimento comunista. Di qui discussioni, scissioni e liti a non finire. Tuttavia, il vero scopo del surrealismo non era creare un nuovo movimento letterario, o pittorico, oppure filosofico, ma far esplodere la società, cambiare la vita.
La maggior parte di quei rivoluzionari – come del resto i señoritos che frequentavo a Madrid – erano rampolli di buona famiglia. Borghesi che si ribellavano alla borghesia. Io stesso ne sono un esempio. A tutto questo bisogna aggiungere, in me, un certo istinto negativo, distruttivo, che ho sempre sentito più forte di qualsiasi impulso creatore. L’idea di incendiare un museo, per esempio, mi ha sempre allettato più dell’apertura di un centro culturale e dell’inaugurazione di un ospedale.
Ma era soprattutto la forza dell’aspetto morale ad affascinarmi, durante le discussioni al “Cyrano”. Per la prima volta in vita mia avevo trovato una morale coerente e rigorosa, senza il minimo cedimento. Va da sé che quella morale surrealista, aggressiva e chiaroveggente, offendeva molto spesso la morale comune, che a noi sembrava abominevole, i cui valori codificati respingevano in blocco. La nostra morale si basava su ben altri criteri, esaltava la passione, la mistificazione, l’insulto, la risata nera, il richiamo degli abissi. Ma all’interno di questo nuovo territorio, dai contorni ogni giorno più imprecisi e lontani, tutti i nostri gesti, i riflessi, tutti i pensieri ci apparivano giustificati, senza la minima ombra di dubbio. Tutto collegato. La nostra morale era più esigente, più pericolosa, ma anche più salda e più coerente, più compatta dell’altra.
Aggiungo – me lo ha fatto notare Dalí – che i surrealisti erano belli. Bellezza luminosa e leonina di André Breton, che saltava agli occhi. Bellezza più preziosa di Aragon, Eluard, Crevel e lo stesso Dalí, e Max Ernst con il suo straordinario volto di uccello dagli occhi chiari, e Pierre Unik, e tutti gli altri: gruppo ardente e fiero, indimenticabile.

Dopo la “prima trionfale” di Un chien andalou, il film fu acquistato da Mauclair dello “Studio 28” che mi diede subito mille franchi e poi, dato che il film aveva un grande successo (rimase in cartellone per otto mesi), ancora mille e altri mille ancora. Sette o ottomila in tutto, credo. Una cinquantina di persone si presentarono al commissariato di polizia per sporgere denuncia affermando: “Bisogna proibire quel film osceno e crudele”. Era l’inizio di una lunga serie d’insulti e minacce, che mi ha perseguitato fino alla vecchiaia.
Ci furono perfino due aborti durante le proiezioni del film. Tuttavia, il film non venne proibito.
Accettando una proposta di Auriol e Jacques Brunius, avevo dato a La Revue du Cinéma, edita da Gallimard, il permesso di pubblicare la sceneggiatura. Non sapevo quello che facevo.
Ed ecco come andò: la rivista belga Varietés aveva appena deciso di dedicare un intero numero al movimento surrealista. Eluard mi chiese di pubblicare la sceneggiatura su Varietés. Dovetti dirgli che ero molto spiacente, ma l’avevo appena consegnata a La Revue du Cinéma. E fu l’origine di un incidente che fece nascere in me un problema di coscienza particolarmente grave, e che può chiarire in concreto la mentalità e lo stato d’animo surrealista.
Qualche giorno dopo la mia conversazione con Eluard, Breton mi domandò:
“ Buñuel, può venire da me questa sera, per una piccola riunione?”.
Dissi di sì, senza alcun sospetto, e trovai tutto il gruppo al completo. Si trattava di un processo in piena regola. Aragon faceva con grande autorità la parte del pubblico ministero, accusandomi pesantemente di avere ceduto la sceneggiatura a una rivista borghese. Tra l’altro, il successo commerciale di Un chien andalou cominciava a sembrare alquanto sospetto. Come mai un film così provocatorio riusciva a riempire la sala? Qual era la mia spiegazione?
Solo, di fronte al gruppo riunito, stentavo parecchio a difendermi. Tanto che a un certo punto Breton mi domandò:
“ Ma sta con la polizia o con noi?”
Mi trovavo davanti a un dilemma veramente drammatico, anche se oggi gli eccessi dell’accusa possono suscitare un sorriso. in realtà quel conflitto di coscienza, fortissimo, era il primo della mia vita. Tornato a casa, incapace di dormire, mi dicevo: “Sì, sono libero dei miei atti. Quella gente non ha alcun diritto su di me. Posso buttargli in faccia la mia sceneggiatura e andarmene, non c’è niente che mi costringa a ubbidirgli. Non sono niente più di me”.
Nello stesso tempo, sentivo anche un’altra forza che mi diceva: “Hanno ragione, devi ammetterlo. Credi che la coscienza sia il tuo unico giudice, ma ti sbagli. Vuoi bene a quegli uomini, ti fidi di loro. Ti hanno accolto come un fratello. Non sei affatto libero come vai dichiarando. La tua libertà è solo un fantasma che gira per il mondo con un mantello di nebbia. Vorresti afferrarla, ti sfugge. e non ti resta che una traccia umida sulle dita”.
Quel conflitto interiore mi agitò a lungo. Non ho mai smesso di pensarci, ci penso ancora, e quando mi chiedono cos’era il surrealismo rispondo invariabilmente: “Un movimento poetico, rivoluzionario e morale”.
Alla fine domandai ai miei nuovi amici cosa dovevo fare. “Proibisca a Gallimard di pubblicare il testo” mi risposero. Già, ma come vedere Gallimard? Come parlargli? Non sapevo neanche dove stava. “L’accompagnerà Eluard” mi disse Breton.
Ed eccoci entrambi da Gallimard, Eluard e io. Dico che ho cambiato idea, che rinuncio alla pubblicazione della sceneggiatura. Risposta: ma neanche per sogno, ha dato la sua parola. E il direttore della tipografia aggiunge che la composizione è già stata ultimata.
Ritorno fagli amici e resoconto. Nuova decisione: devo procurarmi un martello, tornare da Gallimard e distruggere i piombi nella tipografia.
Sempre accompagnato da Eluard torno da Gallimard, con un grosso martello nascosto sotto l’impermeabile. Questa volta è veramente troppo tardi. La rivista è già stampata. I primi numeri sono appena stati distribuiti.
La decisione ultima fu che la rivista Varietés avrebbe pubblicato ugualmente la sceneggiatura di Un chien andalou (il che avvenne) e che avrei spedito a sedici giornali parigini una lettera “di protesta indignata” affermando di essere vittima di un’infame macchinazione borghese. Sette o otto giornali pubblicarono la lettera.
Per giunta, scrissi su Varietés e La Révolution surréaliste un pezzo nel quale dichiaravo che il film era ai miei occhi nient’altro che un pubblico appello all’assassinio.
Poco tempo dopo proposi di bruciare il negativo del film in place du Tertre, a Montmartre. Lo avrei fatto senza la minima esitazione, lo giuro, se avessero accettato, e lo farei anche oggi. Immagino spesso, nel mio giardinetto, un rogo dove bruciare allegramente tutti i negativi, tutte le copie dei miei film. Non me ne importerebbe proprio niente.
La proposta fu respinta

Benjamin Péret era per me il poeta surrealista per eccellenza: libertà totale di un’ispirazione limpida, che scorreva come acqua, senz’alcun sforzo culturale, ricreando immediatamente un mondo diverso. Nel 1929, con Dalí, leggevamo a voce alta qualche poesia del Grand Jeu, rotolandoci a volte dalle risate.
Quand’ero entrato nel gruppo, Péret si trovava in Brasile come rappresentante del movimento trotzkista. Non l’ho mai visto alle riunioni e l’ho conosciuto solo al suo ritorno dal Brasile, da dove lo avevano espulso. Ma fu soprattutto in Messico che lo avrei rivisto, dopo la guerra. Mentre giravo il mio primo film messicano, Gran Casino, venne a chiedermi un lavoro, qualcosa da fare. Cercai di aiutarlo, cosa piuttosto difficile in quanto mi trovavo io stesso in situazione precaria. Visse in Messico (e forse si sposarono anche, non so) con la pittrice Remedios Varo, che ammiro quanto Max Ernst. Péret era un surrealista allo stato puro, libero da ogni compromesso – e quasi perennemente molto povero.
Parlai di Dalí al gruppo presentando varie fotografie dei suoi quadri (tra i quali il mio ritratto), che furono mediocremente apprezzati. Ma i surrealisti cambiarono idea quando videro i quadri stessi che Dalí portò dalla Spagna. Venne subito ammesso e partecipò alle riunioni. I suoi primi rapporti con Breton, che si entusiasmò per il suo “metodo paranoico-critico”, furono eccellenti. L’influsso di Gala non avrebbe tardato a trasformare Salvador Dalí in un avida dollars. Venne escluso dal movimento tre o quattro anni dopo.
All’interno del gruppo si delineavano dei gruppuscoli a seconda delle affinità personali. I migliori amici di Dalí per esempio erano Crevel e Eluard. Quanto a me, mi sentivo molto vicino a Aragon, Georges Sadoul, Max Ernst e Pierre Unik.
Oggi caduto nel dimenticatoio, Pierre Unik mi sembrava un magnifico giovanotto (avevo cinque anni più di lui), brillante e appassionato, un amico carissimo. Figlio di un sarto ebreo che era anche rabbino, ma quanto a lui completamente ateo, annunciò un giorno a suo padre il mio desiderio – espresso a tutte lettere, per scandalizzare la mia famiglia – di convertirmi alla religione giudaica. Suo padre accettò di ricevermi ma all’ultimo momento preferii restare fedele al cristianesimo.
Passavamo lunghe serate insieme, con la sua amica Agnès Capri, con una libraia un po’ claudicante ma molto bella che si chiamava Yolande Oliviero, e una fotografa, Denise, a chiacchierare, a rispondere il più sinceramente possibile a certe inchieste sul sesso e a fare dei giochi che definirei certamente libertini. Unik pubblicò una raccolta di poesie, Le Théatre des nuits blanches, e un’altra raccolta postuma. Diresse un giornale per bambini edito dal partito comunista, verso il quale provava una forte attrazione. Il 6 febbraio 1934, all’epoca delle sommosse fasciste, portava dentro a un berretto dei pezzi di cervello di un operaio schiacciato. Lo si vide entrare urlando nel metrò, alla testa di un folto gruppo di manifestanti. Inseguiti dalla polizia, dovettero scappare lungo i binari.
Durante la guerra fu internato in un campo di concentramento austriaco. Quando si seppe che stavano arrivando le truppe sovietiche, fuggì per unirsi a loro. Travolto da una valanga o inghiottito da un burrone, fatto sta che il suo corpo non fu mai ritrovato.
Louis Aragon, sotto l’apparenza delicata, nascondeva un animo forte. Fra tutti i ricordi di lui (ci siamo visti fin verso il 1970), c’è una giornata che non dimentico. Allora, abitavo in rue Pascal. Una mattina, verso le otto, ricevo un biglietto per posta pneumatica nel quale Aragon mi chiede di andarlo a trovare il più presto possibile. Mi aspetta. Deve dirmi qualcosa di grave.
Mezz’ora dopo sono da lui, in rue Campagne-Première. Mi riferisce in poche parole che Elsa Triolet lo ha lasciato per sempre, che i surrealisti hanno appena pubblicato un libello contro di lui e che il partito comunista, al quale era già iscritto, ha deciso di espellerlo. Per un incredibile concorso di circostanze, si è visto crollare tutta la vita, ha perso in un attimo tutto quello che gli stava a cuore. Pure, in questo mare di guai, passeggia su e giù per lo studio simile a un leone, dandomi una delle più belle immagini di coraggio ch’io possa ricordare.
Il giorno dopo le cose si sistemarono. Elsa tornava, il partito comunista rinunciava a espellerlo. Quanto ai surrealisti, non avevano già più importanza per lui.
Ho conservato una testimonianza di quel giorno, una copia di Persécuté Persécuteur dove Aragon mi scrisse, come dedica, che è bello, certi giorni, avere degli amici che vengono a stringerti la mano, “quando senti che non ce ne saranno più per moltissimo tempo” – è successo cinquant’anni fa.
Anche Albert Valentin faceva parte del gruppo, quando vi entrai. Assistente di René Clair, stava girando con lui A me la libertà e non si stancava mai di ripetere: “Vedrete, credo sia un film veramente rivoluzionario, vi piacerà molto”. Tutto il gruppo andò alla prima e il film fu una tale delusione, fu giudicato così poco rivoluzionario che Albert Valentin, accusato di averci ingannati, venne bellamente espulso. Lo avrei ritrovato molto più tardi, al festival di Cannes, un gran simpatico, accanito giocatore di roulette.
René Crevel era estremamente cortese. Unico omosessuale del gruppo, lottava contro questa tendenza, cercando di vincersi. Battaglia che, ulteriormente aggravata dai mille litigi tra comunisti e surrealisti, si concluse con un suicidio, una sera, alle undici. Il corpo venne scoperto l’indomani mattina dal portinaio. In quel momento mi trovavo a Parigi. Abbiamo deplorato tutti quella morte, nata da un’angoscia personale.
André Breton, da parte sua, si presentava come un uomo beneducato, cerimonioso, che baciava la mano alle signore. Molto sensibile, dall’umorismo sublime, detestava le burle banali, mantenendo in qualsiasi circostanza una certa serietà di spirito. La poesia che ha scritto sulla moglie è ai miei occhi il più bel ricordo letterario del surrealismo, insieme alle opere di Péret.
La sua calma, la bellezza, l’eleganza – così come l’eccellenza del suo giudizio – non lo preservavano da collere improvvise e temibili. Per esempio, mi rimproverava talmente spesso di non voler presentare Jeanne, la mia fidanzata, agli altri surrealisti, aggiungendo che ero geloso come uno spagnolo, che una sera accettai un suo invito a cena con Jeanne.
Sono presenti anche Magritte e la moglie. Il pasto inizia in un’atmosfera alquanto tetra. Per qualche inspiegabile motivo, Breton se ne sta con il naso sul piatto, tutto accigliato, parlando solo a monosillabi. Ci domandiamo cos’è che non va, quando d’un tratto, non potendone più, lui punta il dito su una piccola croce che la moglie di Magritte porta intorno al collo, appesa a una catena d’oro, tuonando che si tratta di una provocazione intollerabile e che avrebbe potuto benissimo mettersi qualcos’altro per venire a cena in casa sua. Magritte prende le difese della moglie e replica duramente. La discussione – vivacissima – va avanti per qualche tempo e poi si calma. Magritte e la moglie fecero uno sforzo e se ne andarono solo alla fine della serata. Ma i loro rapporti rimasero freddi per un certo tempo.
Breton era capace di attribuire un’estrema importanza a certi particolari che nessun altro avrebbe notato. Lo vidi dopo la sua visita a Trotzkij, in Messico, quando gli chiesi le sue impressioni. Mi rispose:
“ Trotzkij ha un cane amatissimo. Un giorno, questo cane gli era vicino e lo guardava. Allora Trotzkij mi fa: “Ha proprio uno sguardo umano, vero?” Ma si rende conto! Come ha potuto un uomo come Trotzkij dire un’idiozia del genere? Un cane non ha uno sguardo umano! Un cane ha uno sguardo da cane!”.
Era su tutte le furie, quando me lo ha detto. Un’altra volta uscì a precipizio di casa per rovesciare a calcioni la cassetta portatile di un venditore ambulante di bibite.
Odiava la musica, come parecchi surrealisti, e in particolar modo l’opera. Intenzionato a distoglierlo dal suo errore, riuscii a convincerlo ad accompagnarmi all’Opéra-Comique, insieme a qualche altro membro del gruppo, René Char e Eluard probabilmente. Davano la Louise, di Charpentier, che non conoscevo. Si alza il sipario, e restiamo tutti allibiti – io per primo – di fronte alle scene, ai personaggi. Niente a che vedere con quello che mi piaceva nell’opera tradizionale. Una donna entra in scena con una zuppiera e comincia a cantare l’aria della minestra. È veramente troppo. Breton si alza e se ne va con fare insolente, furibondo per avere sprecato il suo tempo. Gli altri lo seguono. Me compreso.
Ho rivisto Breton piuttosto spesso a New York durante la guerra, e poi di nuovo a Parigi. Siamo rimasti amici fino alla fine. Malgrado i premi che mi hanno assegnato ai vari festival del cinema, non mi ha mai minacciato di scomunica. Mi confessò perfino di aver pianto vedendo Viridiana. In compenso, non so perché L’angelo sterminatore lo deluse un po’.
A Parigi, verso il 1955, lo incontro mentre stiamo andando da Ionesco. Dato che siamo entrambi leggermente in anticipo, ci fermiamo a bere un bicchierino. Gli domando perché Max Ernst, colpevole di aver vinto il gran premio della Biennale di Venezia, sia stato escluso dal gruppo.
“ Cosa vuole, amico mio,” mi risponde “ci siamo divisi da Dalí, diventato un miserabile mercante, ed ecco che adesso Max fa la stessa cosa”.
Se ne sta per un attimo in silenzio, poi aggiunge – e gli leggo in faccia un profondo, autentico dolore:
“È triste a dirsi, caro Luis, ma lo scandalo non esiste più”.
Mi trovavo a Parigi quando morì, e sono andato al cimitero. Per non essere riconosciuto, per non dover parlare con gente che non vedevo da quarant’anni, mi sono un po’ camuffato, mettendomi un cappello e un paio di occhiali. Tenendomi in disparte, anche.
Fu una cosa rapida e silenziosa. E poi si dispersero tutti. Mi dispiace che nessuno abbia detto una parola sulla sua tomba, come una specie di addio.

L’ÂGE D’OR

Dopo Un chien andalou, era impensabile per me realizzare uno di quei film che chiamavano già “commerciali”. Volevo a tutti i costi restare un surrealista. Dato che avevo escluso la possibilità di chiedere un nuovo finanziamento a mia madre, l’unica soluzione era rinunciare al cinema.
Tuttavia avevo in mente una ventina di idee, di gag – come un carretto zeppo di operai che attraversa un salotto mondano, o un padre che uccide a fucilate il proprio figlio colpevole di aver fatto cadere le cenere della sua sigaretta – e le andavo annotando, per ogni evenienza. Durante un viaggio in Spagna le raccontai a Dalí, che si dichiarò molto interessato. Il film era già fatto. Ma come realizzarlo?
Tornai a Parigi. Zervos, di Les Cahiers d’Art, mi mise in contatto con Georges-Henri Rivière, il quale mi propose di presentarmi ai Noailles che conosceva bene e che avevano “adorato” Un chien andalou. All’inizio risposi, come di dovere, che non bisogna aspettarsi un bel niente dagli aristocratici. “Ha torto,” mi dissero Zervos e Rivière “sono persone favolose, e deve assolutamente conoscerli”. Alla fine accettai di andare a pranzo da loro, insieme a Georges e Nora Auric. Il loro palazzo, in place des Etats-Unis, era uno splendore, con una collezione di opere d’arte quasi inconcepibile. Dopo pranzo, accanto a un caminetto acceso, Charles de Noailles mi disse:
“ Senta, le proponiamo di realizzare un film di una ventina di minuti. Carta bianca. Unica condizione: abbiamo un impegno con Stravinskij, che comporrà le musiche”.
“ Mi dispiace molto,” risposi “ma come potrei collaborare con un tizio che si butta in ginocchio battendosi il petto? Non deve neanche pensarci”.
E in effetti era proprio quanto si andava dicendo di lui.
Charles de Noailles ebbe una reazione che non mi aspettavo e che mi diede la prima occasione di stimarlo.
“ Ha ragione,” mi disse senza il minimo cambiamento di voce “in effetti siete incompatibili. Perciò scelga il musicista che vuole, e faccia il suo film. Troveremo qualcos’altro per Stravinskij”.
Accettai, ricevetti perfino un anticipo sullo stipendio e me ne tornai da Dalí, a Figueras.
Sotto Natale, 1929.
Arrivo a Figueras, venendo da Parigi via Saragozza (dove mi fermavo sempre per salutare la mia famiglia) e sento degli orrendi scoppi di collera. Lo studio notarile del padre di Dalí si trovava al pianterreno, con la famiglia (padre, zia e sorella Anna-Maria) che vivevano al primo piano. Il padre apre di colpo la porta, furente, e sbatte fuori il figlio, tacciandolo di miserabile. Dalí replica e si difende. Mi avvicino, il padre mi dice, indicando il figlio, che non vuole più vedere quel porco in casa sua. Il motivo (comprensibile) del furore paterno: durante una mostra a Barcellona, Dalí aveva scritto con inchiostro nero e caratteri incerti su uno dei quadri: “Sputo per puro piacere sul ritratto di mia madre”.
Espulso da Figueras. Dalí mi domanda di seguirlo nella sua casa di Cadaques. Dove ci mettiamo a lavorare per due o tre giorni. Ma l’incanto di Un chien andalou mi sembrava spezzato del tutto. Che fosse già l’influenza di Gala? Non si andava d’accordo su niente. Ciascuno trovava brutte le proposte dell’altro, e le respingeva.
Ci siamo separati amichevolmente e ho finito con lo sbrigarmela da solo, a Hyères, nella proprietà di Charles e Marie-Laure de Noailles. Che mi lasciavano in pace tutto il giorno. La sera, leggevo a voce alta le mie pagine quotidiane. Non hanno mai sollevato un’obiezione. Trovavano tutto – esagero appena un po’ – “squisito, delizioso”.
Il risultato fu un film di un’ora, molto più lungo di Un chien andalou. Dalí mi aveva spedito per lettera parecchie idee, almeno una delle quali è rimasta nel film: un uomo cammina in un giardino pubblico con una pietra sulla testa. Passa vicino a una statua. Anche la statua ha una pietra sulla testa.
Quando vide il film ultimato, gli piacque molto e mi disse: “Sembra un film americano”.
I piani di lavorazione furono preparati con grandissima cura, senza sprechi di sorta. Jeanne, la mia fidanzata, venne promossa contabile. Quando presentai i conti a Charles de Noailles, alla fine delle riprese, gli restituì un po’ di denaro.
Lui lasciò i conti su un tavolo del salotto, e ci mettemmo a tavola. Nella tarda serata, da certi frammenti di carta bruciacchiati che riconobbi, capii che aveva distrutto la mia nota spese. Ma non lo aveva fatto davanti a me. Il suo gesto non aveva niente di ostentato, cosa che apprezzai anche di più.
L’âge d’or venne girato nel teatro di posa di Billancourt. Su un set vicino, Eisenstein stava realizzando Romance sentimentale. Avevo conosciuto Gaston Modot a Montparnasse. Innamorato della Spagna, suonava la chitarra. Quanto a Lya Lys, la protagonista femminile, mi era stata mandata da un agente insieme a Elsa Kuprine, figlia dello scrittore russo. Non ricordo più perché ho scelto Lya Lys. Duverger era sempre alla macchina da presa. Marval era sempre il segretario di produzione, come per Un chien andalou. Quest’ultimo interpretò anche uno dei vescovi che vengono defenestrati – alla lettera.
Uno scenografo russo si occupò degli interni, mentre gli esterni si svolsero in Catalogna, vicino a Cadaques, e nei dintorni di Parigi. Max Ernst faceva il capo dei briganti, Pierre Prévert il brigante ammalato. Tra gli invitati, nel salone, sono riconoscibili Valentine Hugo, alta e bella, proprio di fianco al famoso ceramista spagnolo Artigas, amico di Picasso, un omettino che decorai con un paio di baffi giganteschi. L’ambasciata italiana vide in questo personaggio un’allusione al re d’Italia Vittorio Emanuele, che era minuscolo, e mi diede querela.
Dovetti combattere con vari attori, e particolarmente con il russo emigrato che interpretava il direttore d’orchestra. Non era proprio un granché. In compenso, ero contento della statua, fatta apposta per il film. Aggiungo che in una scena per strada si vede Jacques Prévert di passaggio, e che la voce fuori campo – L’âge d’or è il secondo o terzo film sonoro realizzato in Francia – quella voce che diceva, lo ricordo bene, “avvicina la testa, qui il cuscino è più fresco”, apparteneva a Paul Eluard.
Infine, l’attore che nell’ultima parte del film faceva il duca di Blangis – un omaggio a Sade – si chiamava Lionel Salem. Specializzato nell’interpretazione di Cristo, lo impersonò in varie produzioni dell’epoca.
Non ho mai rivisto quel film. Non sono dunque in grado di dire, oggi, cosa ne penso. Dopo averlo paragonato a un film americano (per la tecnica, probabilmente), Dalí, il cui nome compare nei titoli di testa, scrisse in seguito quali fossero le sue intenzioni, lavorando alla sceneggiatura: mettere a nudo gli ignobili meccanismo della società attuale.
Per me si trattava anche – e soprattutto – di un film d’amore, un amore pazzo, di una spinta irresistibile che butta l’uno nelle braccia dell’altro, quali che siano le circostanze, un uomo e una donna che non potranno unirsi mai.
Durante le riprese del film il gruppo surrealista assalì un cabaret, in boulevard Edgar Quinet, che si era incautamente impossessato del titolo del poema di Lautréamont, Canti di Maldoror. Tutti conoscono la venerazione intransigente che i surrealisti nutrono per Lautréamont.
Nella mia qualità di straniero e date le grane che la polizia avrebbe potuto appiopparci dopo l’assalto a un luogo pubblico, io e qualche altro ne fummo esentati. Si trattava di un caso nazionale. Il cabaret fu saccheggiato e Aragon si prese una coltellata – con un temperino.
Si trovava presente un giornalista rumeno che aveva parlato bene di Un chien andalou ma che, in compenso, protestò vigorosamente contro l’irruzione dei surrealisti.
Due giorni dopo, si presentò a Billancourt. Lo feci buttare fuori.
La prima rappresentazione, riservata a pochi intimi, si svolse dai Noailles che – si esprimevano sempre con una leggera intonazione britannica – trovarono il film “squisito, delizioso”.
Poco tempo dopo, alle dieci del mattino, organizzarono una proiezione al cinema “Panthéon”, dove invitarono “la crema parigina” e in particolare un certo numero di aristocratici. Marie-Laure e Charles se ne stavano all’ingresso (cosa che mi ha raccontato Juan Vicens perché io non mi trovavo a Parigi), stringendo sorridenti mille mani e abbracciando perfino qualche invitato. Alla fine della serata tornarono al loro posto accanto alla porta per salutare gli invitati che se ne andavano rapidamente, freddamente, senza una parola.
Il giorno dopo, Charles de Noailles fu messo alla porta dal Jockey-Club. Sua madre dovette perfino fare un viaggio a Roma per parlamentare con il papa in quanto si parlava di scomunica.
Il film uscì, come Un chien andalou, allo “Studio 28” dove lo replicarono per sei giorni di fronte a un tutto esaurito. Dopo di che, mentre la stampa di destra faceva il diavolo a quattro, i Camelots du Roi e le Jeunesses Patriotiques assalirono il cinema, fecero a pezzi i quadri dell’esposizione surrealista nell’atrio, lanciarono bombe contro lo schermo, spaccarono le poltrone. Fu “lo scandalo dell’Âge d’Or”.
Una settimana dopo, in nome del mantenimento dell’ordine pubblico, il questore Chiappe vietò senz’altro il film. Divieto che rimase effettivo per cinquant’anni. Si poteva vedere il film solo in proiezione privata o nelle cineteche. Finalmente, uscì a New York nel 1980, e a Parigi nel 1981.
I Noailles non ce la presero mai con me per quel divieto. Anzi, si rallegravano per l’accoglienza – senza riserve – tributata al film dai surrealisti.
Li rivedevo spesso, tutte le volte che mi fermavo a Parigi. nel 1933, organizzarono, a Hyères, una festa dove tutti gli artisti convitati erano liberi di fare qualsiasi cosa volessero. Dalí e Crevel, dopo qualche sondaggio, si rifiutarono per non so quale motivo. In compenso, Darius Milhaud, Francis Poulenc, Georges Auric, Igor Markevitch e Henri Sauguet composero e diressero un pezzo ciascuno, nel teatro municipale di Hyères. Cocteau disegnò il programma e Christian Bérard i costumi (c’era un palco riservato agli invitati in maschera).
Spinto da Breton, che amava i creatori i li incitava a esprimersi – continuava a ripetermi: “E allora, quando ci darà qualcosa per la rivista?” –, buttai giù in un’ora i testi di Una giraffa.
Pierre Unik corresse il mio francese, dopo di che andai nello studio di Giacometti (era appena entrato nel gruppo) e gli domandai di disegnarmi e ritagliare in un pezzo di compensato una giraffa a grandezza naturale. Giacometti accettò, venne a Hyères con me ed eseguì la giraffa. Ogni macchia della giraffa, montata su cerniere, si poteva sollevare a mano. Sotto, c’erano le frasi che avevo scritto in un’ora e che, messe in fila, se si fosse dovuto eseguire alla lettera quello che richiedevano, avrebbero rappresentato uno spettacolo di quattrocento milioni di dollari. Il testo completo è stato pubblicato in Le Surréalisme au service de la Révolution. In una macchia per esempio era scritto: “Un’orchestra di cento musicisti si mette a suonare La Valchiria in un sotterraneo”. In un’altra: “Cristo che ride di cuore”. (Mi vanto di aver inventato questa immagine più volte ripresa.)
La giraffa venne piantata un giorno nel giardino dell’abbaye Saint-Bernard, la proprietà dei Noailles. Gli invitati si aspettavano una sorpresa. Prima di pranzo infatti li pregammo di prendersi uno sgabello di legno e andare a leggere l’interno delle macchie.
Ubbidirono e sembrarono apprezzare. Dopo il caffè, tornai in giardino con Giacometti. Niente giraffa. Scomparsa totale, senza una spiegazione. Che l’avessero giudicata troppo scandalosa, dopo lo scandalo dell’Âge d’or? Non ho mai saputo che fine abbia fatto. Charles e Marie-Laure, davanti a me, non ne parlarono mai. E io non avevo il coraggio di domandare i motivi di quell’improvvisa messa al bando.
Dopo alcuni giorni a Hyères, il direttore d’orchestra Roger Désormières mi disse che partiva per Montecarlo dove avrebbe diretto la prima rappresentazione dei nuovi Balletti Russi. Mi propose di accompagnarlo e accettai subito. Alcuni invitati, tra quali Cocteau, ci accompagnarono alla stazione e qualcuno mi avvertì: “Stia bene attento con le ballerine, sono molto giovani, molto innocenti, hanno uno stipendio da fame, che non si ritrovino incinte, almeno!”.
In treno, durante le due ore di viaggio, mi sorpresi a sognare a occhi aperti come mi capita spesso. Vedevo come un harem tutto quello stuolo di ballerine sedute in una fila di sedie di fronte a me, in calze nere e in attesa di ordini. Ne additavo una, che si alzava e si avvicinava docilmente. Allora cambiavo idea, ne volevo un’altra, altrettanto remissiva. Cullato dai sobbalzi del treno, non vedevo alcun ostacolo al mio erotismo.
In realtà, ecco quello che accade:
Désormières era l’amante di una delle ballerine. Mi propose di andare a bere un bicchiere in un cabaret con la sua amica e un’altra ragazza del balletto, dopo la prima. Va da sé che non feci obbiezioni di sorta.
La rappresentazione si svolse normalmente. Alla fine (che fossero veramente mal pagate e mal nutrite?) due o tre ballerine svennero per lo sfinimento, e fra loro l’amica di Désormières. Che poi si riebbe, domandò a una sua compagna – una graziosissima russa bianca – di accompagnarci, cosicché ci ritrovammo tutti e quattro in un cabaret, come previsto.
Le cose quindi sembravano mettersi al meglio. Désormières e l’amica dopo un po’ si appartarono, lasciandomi solo con la russa bianca. Allora, non so proprio per quale motivo, spinto da quella goffaggine che ha spesso contraddistinto i miei rapporti con le donne, m’impegolai in una discussione politica sulla Russia, il comunismo e la rivoluzione. Fin dall’inizio, la ballerina si dichiarò ferocemente antisovietica e non esitò a parlarmi dei crimini del regime comunista. Mi arrabbiai di brutto, tacciandola di sporca reazionaria; litigammo così per un po’, dopo di che le lasciai dei soldi per prendere un fiacre e me ne andai.
In seguito ho spesso rimpianto quell’arrabbiatura, e qualche altra.

Fra i bei gesti del surrealismo, ce n’è uno che trovo particolarmente delizioso. Lo dobbiamo a Georges Sadoul e a Jean Caupenne.
Un giorno, nel 1930, Georges Sadoul e Jean Caupenne, sfaccendati, stanno leggendo il giornale al caffè di chissà dove, in una città di provincia. D’un tratto gli capitano sotto gli occhi i risultati del concorso dell’accademia militare di Saint-Cyr. Il primo dei promossi, in testa alla graduatoria, è un certo Keller.
Quello che adoro in questa storia, è il fatto che Sadoul e Caupenne non hanno niente da fare. Sono lì, soli, in provincia. Si annoiano un po’. e di colpo un’idea, luminosa:
“ E se scrivessimo a quell’imbecille?”.
Detto fatto. Chiedono al cameriere carta e penna, e compongono una delle più belle lettere d’insulti della storia del surrealismo. Firmano e spediscono subito il tutto al suddetto imbecille di Saint-Cyr. La lettera contiene frasi indimenticabili, come: “Noi ci sputiamo sui tre colori. Insieme ai suoi uomini in rivolta, sbatteremo al sole le budella di tutti gli ufficiali dell’esercito francese. Se ci costringono a fare la guerra, serviremo perlomeno sotto il glorioso elmetto a punta tedesco...”. E via di seguito.
Il bravo Keller ricevette la lettera, la trasmise al direttore di Saint-Cyr, il quale a sua volta la trasmise al generale Gouraud, mentre Le Surréalisme au service de la Révolution nel frattempo la pubblicava.
La cosa fece molto rumore. Sadoul venne a trovarmi e mi confessò che doveva scappare, lasciare la Francia. Ne parlai ai Noailles i quali, generosi come sempre, gli diedero quattromila franchi, Jean Caupenne fu arrestato. Il padre di Sadoul e il padre di Caupenne presentarono le loro scuse presso lo Stato maggiore, a Parigi. Inutilmente. Saint-Cyr esigeva pubbliche scuse. Sadoul lasciò la Francia, ma sembra che Jean Caupenne abbia domandato perdono in ginocchio, di fronte agli allievi dell’accademia militare al gran completo. Non so se sia vero.
Quando ripenso a questa storia, rivedo lo sconforto rassegnato di André Breton mentre mi confidava, verso il 1955, che lo scandalo non esisteva più.

Intorno e accanto al surrealismo, ho frequentato e spesso conosciuto abbastanza bene scrittori e pittori che sfioravano per un attimo il movimenti, vi trovavano un contatto, lo respingevano, tornavano, se ne andavano ancora. e poi altri, che perseguivano ricerche più solitarie. A Montparnasse avevo incontrato Fernand Léger, che vedevo piuttosto spesso. André Masson non veniva quasi mai alle nostre riunioni, pur mantenendo con il gruppo rapporti amichevoli. I veri pittori surrealisti erano Dalí, Tanguy, Arp, Magritte e Max Ernst.
Quest’ultimo, che fu un carissimo amico, aveva fatto parte del movimento dadaista. L’appello dei surrealisti lo sorprese in Germania, come Man Ray negli Stati Uniti. Max Ernst mi raccontò che a Zurigo, con Arp e Tzara, prima che si formasse il gruppo surrealista, durante uno spettacolo dato in occasione di una mostra, aveva chiesto a una ragazzina – sempre il solito gusto di pervertire l’infanzia – di recitare sul palcoscenico, con l’abito della prima comunione e un cero in mano, un testo decisamente pornografico – senza capirci niente, ovvio. Scandalo orrendo.
Max Ernst, bello come un’aquila, rapì la sorella del soggettista Jean Aurenche, Marie-Berthe, che recita una particina in L’âge d’or durante il ricevimento, e la sposò. Un certo anno – prima o dopo il matrimonio? Non ricordo più – passò le vacanze nello stesso villaggio dove stava Angeles Ortiz. Quest’ultimo, idolo dei salotti, non contava più le sue conquiste. Accadde che Max Ernst e Ortiz, proprio in quell’anno, si innamorassero della stessa donna. e fu Ortiz a spuntarla.
Qualche tempo dopo, Breton e Eluard vennero da me, in rue Pascal, per conto di Max Ernst, il quale aspettava giù all’angolo. Ernst mi accusava, non so proprio perché, di aver favorito con i miei intrighi la vittoria di Ortiz. Risposi loro che non avevo niente a che vedere con quella faccenda, e non ero in via assoluta il consigliere erotico di Angeles Ortiz. I due se ne andarono.
Quanto ad André Derain, non c’entrava niente con il surrealismo. Molto più vecchio di me – di trenta o trentacinque anni almeno – mi parlava spesso della Comune di Parigi. È stato il primo a raccontarmi la storia degli uomini fucilati, all’epoca della feroce repressione messa in atto dai “versaillesi”, perché avevano le mani callose, segno d’appartenenza alla classe operaia.
Derain, alto e robusto, sprizzava simpatia. Lo chiamavano per nome in tutti i bordelli parigini, dove andavamo piuttosto spesso, con il mercante di quadri Pierre Collé, a mangiarci quattro ciliegie sotto spirito. “Buonasera signor André, come va? È tanto che non si fa vedere!”.
Una sera, una delle ruffiane gli dice:
“ Ho una ragazzina. Adesso te la faccio vedere, è innocente come un angelo. Ma attento, eh! devi trattarmela bene”.
Un attimo dopo vediamo entrare una creatura con tacchi piatti e calzini bianchi. I capelli spartiti in due trecce, gioca con un cerchio, tutta un sorriso. Che delusione! Una nana di quarant’anni.
Fra gli scrittori, ho conosciuto bene Roger Vitrac, che Breton e Eluard stimavano pochissimo, non ho mai saputo perché. André Thirion, che faceva parte del gruppo, era l’unico vero politico. Uscendo da una riunione, Paul Eluard mi avvertì: “La sola cosa che lo interessi è la politica”.
In seguito Thirion, che si dichiarava comunista-rivoluzionario, venne a trovarmi in rue Pascal portando una grande carta geografica della Spagna. Il colpo di Stato era di moda, e ne aveva messo a punto uno minuziosissimo per rovesciare la monarchia spagnola. Si aspettava da me particolari geografici precisi, su coste e sentieri, per riportarli sulla sua mappa. Non ero proprio in grado di aiutarlo.
Ha scritto un libro su quel periodo, Rivoluzionari senza rivoluzione, che mi è piaciuto abbastanza. Ovviamente fa fare bella figura a se stesso (cosa che facciamo tutti, spesso senza rendercene conto) e rivela certi particolari intimi che mi sono sembrati inutili e imbarazzanti. In compenso, però, sottoscrivo senza riserve quello che dice di André Breton. Più tardi, dopo la guerra, Sadoul mi raccontò che Thirion aveva completamente “tradito” e che, passato dalla parte dei gollisti, era responsabile dell’aumento delle tariffe della metropolitana.
Quanto a Maxime Alexandre, si riconciliò con il cattolicesimo. Jacques Prévert mi fece conoscere Georges Bataille, autore di Storia dell’occhio, il quale voleva incontrarmi per via dell’occhio tagliato di Un chien andalou. Abbiamo mangiato tutti insieme. La moglie di Bataille, Sylvia, che in seguito avrei rivisto sposata con Jacques Lacan, è una delle più belle donne mai viste in vita mia, insieme a Bronja, la moglie di René Clair. Quanto a Bataille – che a Breton non piaceva molto, perché lo trovava troppo rozzo e terra terra – aveva una faccia dura, seria. Sembrava escludere ogni possibilità di sorriso.
Ho conosciuto poco Antonin Artaud. Lo avrò incontrato due o tre volte in tutto. Ricordo di averlo visto il 6 febbraio 1934, nel metrò. Faceva la coda per il biglietto e mi trovavo proprio dietro di lui. Parlava da solo, gesticolando. Non l’ho disturbato.

Spesso mi chiedono che ne è stato del surrealismo. Non so mai bene cosa rispondere. A volte dico che il surrealismo ha trionfato nelle cose secondarie e fallito in quelle essenziali. André Breton, Eluard, Aragon sono fra i più grandi scrittori del XX secolo, ben piazzati in tutte le biblioteche. Max Ernst, Magritte, Dalí sono fra i pittori più cari, più rinomati, ben piazzati in tutti i musei. Successo artistico, successo culturale, che era proprio quello che importava di meno a tutti o a quasi tutti noi. Il movimento surrealista si preoccupava poco di entrare gloriosamente nelle storia della letteratura e della pittura. Il suo desiderio primario, desiderio imperioso e irrealizzabile, era trasformare il mondo e cambiare la vita. Su questo punto – l’essenziale – una breve occhiata intorno, e il fallimento salta subito agli occhi.
Naturalmente, poteva finire solo così. Oggi, possiamo valutare il posto minuscolo che occupava il surrealismo nel mondo rispetto alle forze incalcolabili e sempre rinnovate della realtà storica. Divorati da sogni immensi come la terra, eravamo niente – nient’altro che un piccolo gruppo di intellettuali insolenti che chiacchieravano in un caffè e pubblicavano una rivista. Un pugno di idealisti presto divisi quando si trattava di partecipare in modo diretto e violento all’azione.
Eppure mi è rimasto qualcosa per tutta la vita del mio passaggio – poco più di tre anni – nelle file esaltate e disordinate del surrealismo. Quello che mi è rimasto, è innanzitutto quel libero accesso alle profondità dell’essere, riconosciuto e desiderato, quell’appello all’irrazionale, all’oscurità, a tutti gli impulsi che vengono dal nostro io profondo. Appello che echeggiava per la prima volta con quella forza, quel coraggio, e che si circondava di una rara insolenza, di una passione per il gioco, di una forte perseveranza nella lotta contro qualsiasi cosa ci sembrasse nefasta. Di tutto questo, non ho rinnegato niente.
Aggiungo che la maggior parte delle intuizioni surrealiste erano giuste. un solo esempio, quello del lavoro, valore sacrosanto della società borghese, parola intoccabile. I surrealisti sono stati i primi ad attaccarlo sistematicamente, a rivelare la grande menzogna, a dichiarare che il lavoro salariato è una vergogna. Un’eco di questa diatriba si ritrova in Tristana, quando don Lope dice al ragazzo muto:
“ Poveri lavoratori. Cornuti, e per di più bastonati! Il lavoro è una maledizione, Saturno. Abbasso il lavoro che bisogna fare per guadagnarsi da vivere! Quel lavoro lì non ci onora, come dicono gli altri, serve soltanto a riempire la pancia dei porci che ci sfruttano. In compenso, quello che si fa per puro piacere, per vocazione, nobilita l’uomo. Tutti dovrebbero poter lavorare così. Guarda me: io non lavoro. Che m’impicchino pure, io non lavoro, e lo vedi, vivo, vivo male, ma vivo senza lavorare”.
Alcuni elementi di questa battuta si trovavano già nell’opera di Galdós, ma portatori di un senso completamente diverso. Il romanziere rimproverava al personaggio il suo ozio. Ci vedeva una tara.
I surrealisti hanno intuito per primi che il valore-lavoro incominciava a tremare sulle sue fragili basi. Oggi, cinquant’anni dopo, si parla un po’ dappertutto della decadenza di questo valore che si credeva eterno. Ci si domanda se l’uomo sia nato per lavorare, s’incomincia a prendere in considerazione l’idea di civiltà oziose. in Francia esiste perfino un ministero del Tempo Libero.
Quello che mi è rimasto del surrealismo è anche la scoperta di un durissimo conflitto interno tra i princìpi di tutte le morali acquisite e la mia personale, nata dall’istinto e dalla mia esperienza attiva. Prima di entrare nel gruppo, non avevo mai pensato all’eventualità di un conflitto del genere. E lo ritengo indispensabile per qualsiasi vita.
Di conseguenza quello che mi è rimasto di quegli anni, di gran lunga più importante di ogni scoperta artistica, di ogni affinamento del gusto e del pensiero, è un’esigenza morale chiara e irriducibile cui ho tentato, attraverso venti e maree, di restare fedele. Questa fedeltà a una morale precisa è più facile a dirsi che a mantenersi. Continua a scontrarsi con l’egoismo, la vanità, la cupidigia, l’esibizionismo, la faciloneria, la leggerezza, l’oblio. Qualche volta ho ceduto a una di queste tentazioni, violando le mie regole – per cose che ritengo di poca importanza. Molto spesso la mia esperienza surrealista, vissuta a fondo, mi ha aiutato a resistere. E forse l’essenziale, in fondo, è proprio questo.

Ai primi di maggio del 1968 mi trovavo a Parigi e stavo iniziando con i miei assistenti, la preparazione e i sopralluoghi della Via lattea. Un giorno, ci siamo bruscamente imbattuti in una barricata studentesca, nel Quartiere Latino. in poco tempo, come tutti ricordano, la vita di Parigi venne sconvolta.
Conoscevo le opere di Marcuse, cui applaudivo. Approvavo tutto quello che leggevo, tutto quello che sentivo dire sulla società dei consumi, sul bisogno di dare una bella sterzata, prima che fosse troppo tardi, a una vita arida e pericolosa. Il maggio ‘68 ha avuto momenti meravigliosi. Passeggiando nelle vie in rivolta riconoscevo sui muri, non senza sorpresa, qualcuno dei nostri vecchi slogan surrealisti: “L’immaginazione al potere”, per esempio, e “Vietato proibire”.
Il nostro lavoro però si era fermato, come quasi tutti i lavori, e non sapevo cosa fare, isolato a Parigi, turista interessato e via via preoccupato. I gas lacrimogeni mi bruciavano gli occhi quando attraversavo boulevard Saint-Michel, dopo una notte di scontri. Non capivo tutto quello che succedeva, perché per esempio dei manifestanti miagolassero “Mao! Mao!” come invocando con tutta l’anima l’instaurazione di un regime maoista in Francia. Si vedevano persone generalmente ragionevoli perdere la testa e Louis Malle – un carissimo amico –, capo di non so quale gruppo d’azione, disporre le truppe per la grande battaglia e ordinare a mio figlio Juan-Luis di sparare sugli sbirri appena giravano l’angolo (se avesse ubbidito, sarebbe stato l’unico ghigliottinato del maggio). C’erano chiacchiere e serietà, e anche una gran confusione. Tutti cercavano la propria rivoluzione con il lanternino. Ciascuno per sé. E io continuavo a ripetermi: “Se succedesse a Città del Messico, sarebbe finita in due ore. E con due o trecento morti!”. (Del resto, è proprio quello che accade a ottobre in piazza delle Tre Culture, morto più morto meno.)
Serge Silberman, il produttore del film, mi condusse qualche giorno a Bruxelles, da dove era facile prendere un aereo per tornarmene a casa. Poi, decisi di ritornare a Parigi. Una settimana dopo, tutto rientrò in quello che chiamano ordine, e la grande festa, miracolosamente poco sanguinosa, finì. Oltre agli slogan, il maggio del ’68 aveva molti punti in comune con il movimento surrealista: stessi tempi ideologici, stesso slancio, stesse divisioni, stesse braccia aperte all’illusione, stessa difficile scelta tra la parola e l’azione. Come noi, gli studenti del ’68 hanno parlato molto e agito poco. Ma non gli rimprovero niente. Come avrebbe potuto dire André Breton, l’azione è diventata quasi impossibile, come lo scandalo.
A meno di scegliere il terrorismo, scelta che alcuni fecero. Ma anche qui non si sfugge alle frasi della nostra giovinezza, a quello che diceva Breton per esempio: “Il più semplice dei gesti surrealisti consiste nel uscire per via, con la rivoltella in pugno, e sparare a caso tra la folla”. Quanto a me, non dimentico di aver scritto che Un chien andalou non era altro che un pubblico appello all’assassinio.
La simbologia del terrorismo, inevitabile nel nostro secolo, mi ha sempre attirato, ma quella del terrorismo totale, che mira alla distruzione di ogni società, leggi genere umano. Provo solo disprezzo verso chi fa del terrorismo un’arma politica al servizio di qualche causa, verso chi uccide e ferisce dei madrileni, per esempio, per attirare l’attenzione mondiale sul problema degli armeni. Non voglio neanche parlarne, di quel genere di terroristi. Mi fanno orrore.
Parlo della banda Bonnot, che ho adorato, di Ascaso e Durruti, che sceglievano con cura le vittime, degli anarchici francesi della fine del XIX secolo, di tutti quelli che volevano far saltare, saltando con lui, un mondo che sembrava loro indegno di sopravvivere. Li capisco, li ho ammirati spesso. Il fatto è che tra la mia immaginazione e la mia realtà c’è di mezzo un fossato profondo, come capita a tutti o quasi. Non sono, non sono mai stato un uomo d’azione, uno che butta bombe, e quegli uomini, cui mi sentivo a volte tanto vicino, be’, non avrei mai potuto imitarli.
Sono rimasto legato a Charles de Noailles fino alla fine. Quando mi fermavo per un po’ a Parigi, andavamo a colazione o a cena insieme.
L’ultima volta, m’invitò a casa, nel palazzo dove mi aveva ricevuto cinquant’anni prima. Sembrava un altro mondo. Marie-Laure era morta. Alle pareti, sulle mensole, i tesori di un tempo non c’erano più.
Charles era diventato sordo, come me, e ci intendevamo a stento. Abbiamo mangiato a tu per tu, parlando pochissimo.


(Tratto dal libro Dei miei sospiri estremi, SE Edizioni, 1997, Milano, traduzione di Dianella Selvatico Estense)



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