UN GIOCO DI SPECCHI

 

Antonello Piana

 

Il colore delle statue cominciò ad illuminarsi di toni sgargianti e la pietra a sbriciolare. Dapprima furono gli occhi ad acquistare vita. Quelli della prima divennero castani, quelli della seconda grigio-azzurri. La prima statua si scrollò la polvere dai pantaloni, la seconda i calcinacci dalle spalle.
Quello che da sempre ti volevo chiedere, disse Marx, è poi vero che ti scopavi Helene Demuth?
Engels lo guardò e poi sollevò il dito. Eravamo d'accordo di non parlare, Marx! Di intenderci in silenzio.
Ma si potrà domandare dopo piú di cento anni, disse Marx, non ho fatto altro che pensarci su tutto il tempo.

Peter B.

 

Un giorno Peter B. mi apparve in sogno per pochi istanti, sedevamo insieme sulla panchina di un giardino pubblico, poco distante la statua di un orsetto di pietra, entrambi con i gomiti sulle ginocchia, fumavamo le sue sigarette una dopo l'altra senza parlare. Era una tiepida giornata di sole, io indossavo la mia sbrindellata giacca di pelle, lui un trench-coat di colore chiaro ma indefinibile.
Quando mi risvegliai non seppi cosa pensare. I miei sogni a cose normali si volatilizzano in pochi minuti, subito dopo il risveglio tendo a non rimuginare affatto sul sogno appena concluso - ovvero che sembra appena conclusosi, in realtà è noto che raramente si sogna poco prima del risveglio -, e per questo motivo la sera sono solito legarmi un fazzoletto al dito prima di addormentarmi. Al risveglio poi mi capita raramente di volgere la mia attenzione al fazzoletto legato al dito, cosicché l'esito finale dell'esperimento si rivela regolarmente fallimentare. È piú facile che brandelli di immagini di cui non ho coscienza mi ritornino casualmente davanti agli occhi nei momenti meno appropriati e con gli effetti piú insoliti per i sensi.
Ad ogni modo, quella mattina mi ricordavo del sogno notturno in maniera straordinariamente vivida, con la bizzarra consapevolezza di non stare dimenticandone nemmeno uno stralcio. Non avevo voglia di mettermi immediatamente al lavoro, da giorni non uscivo di casa che per fare spesa, per cui decisi di onorare lo strano sogno andandomene a zonzo per qualche ora a mente fresca.
Era una tiepida giornata d'autunno, avevo disceso la Prenzlauer Allee fino alla Raumer, alla Duncker a sinistra, Danziger a destra, le gambe si muovevano per conto loro, sembrava che avessero una meta prefissa che non riuscivo ad intuire, tuttavia non mi preoccupai piú del lecito né mi provai a timonare il senso della marcia; era una giornata iniziata irrazionalmente, mi sembrava quasi naturale che continuasse cosí.

Prima di quel sogno avevo visto Peter B. solo una volta. Se avessi potuto immaginare che non ce ne sarebbe mai stata una seconda, certamente avrei trovato il coraggio di rivolgergli la parola. Sedeva nel caffé di una grossa libreria ad un tavolo d'angolo, quasi tutte le sedie, nonché tutti i tavolini, erano già occupati da una piccola folla che ciarlava per ingannare l'attesa. Sembrava che Peter B. osservasse i convenuti ruotando pigramente la testa per la sala, ma il suo sguardo era assente. Io ero capitato sul posto casualmente e mi sentivo fuori luogo.
Mi ero trasferito in città da poche settimane, si avvicinava l'inverno e non avevo in tasca che pochi spiccioli. Grazie a una conoscenza occasionale avevo avuto la fortuna di trovare una stamberga a poco prezzo sulla Stargarder Strasse. La stagione rinfrescava e nel mese di ottobre avevo cominciato a bruciare i primi pezzi di carbone, non senza l'intima soddisfazione del piromane, nella stufa di pietra che si trovava in un angolo dell'unica stanza del mio appartamento.
Dopo pochi giorni però mi ero reso conto che la montagnuola di carbone che avevo trovato in cantina a quel ritmo si sarebbe esaurita prima di natale, cosí avevo deciso di riservare l'esile scorta per le giornate ben piú fredde che sarebbero presto arrivate. In considerazione del fatto che le serate in casa non erano piú gradevoli come prima, negli ultimi tempi avevo pensato bene di uscire piú spesso e frequentare le manifestazioni culturali riscaldate e gratuite che si tenevano nei dintorni.
Era inevitabile che si trattasse nella maggior parte dei casi di quell'evento cosí insolitamentente - per un italiano - ricco di tradizione e di seguito nei paesi germanici che è la lettura pubblica.

Arrivai all'altezza del Prater. La Kastanienallee è una strada movimentata a tutte le ore del giorno, mi veniva da immaginare che nel Biergarten, che in quella stagione aveva i giorni contati, Peter B. amasse godere il tepore estivo davanti a un caffé. Dall'altra parte della strada, a breve distanza dalla galleria dove gli schiavi un tempo facevano baccano, si trovava l'Antiquariat am Prater, una delle librerie antiquarie piú interessanti del quartiere. I sobri scaffali di legno raggiungevano un soffitto molto alto, cosicché si rendeva necessario l'utilizzo di una malferma scala a pioli di legno sulla quale avevo già barcollato piú volte in cerca di rarità bibliofile a buon mercato, come i preziosi volumetti di poesia d'avanguardia della Janus Press di Gerhard Wolf.
Davanti alla vetrina, mi ricordai improvvisamente di un libro che avevo preso in prestito dalla biblioteca del quartiere molto tempo prima, mi ero spesso ripromesso di acquistarlo, principalmente perché desideravo averlo a disposizione in qualunque momento - può apparire strano, ma sono pochi i libri che possiedo, e molti meno quelli di cui avverto un bisogno ricorrente: i racconti di Cortázar in edizione completa Alfaguara e qualche altro.
Il libro che cercavo si intitolava "Ein Spiel von Spiegeln" (Un gioco di specchi), per quanto potessi ricordare, un volume di formato piuttosto grosso, quasi quadrato e dalla copertina cartonata. Si trattava di un'antologia di poesie di cui non ricordavo il nome del curatore.
Confidavo che almeno una copia del libro potesse giacere sepolto tra le caterve di libri ammassati nella prima ala della libreria, quella in cui regnava un disordine stupefacente - il fatto che il vano fosse consacrato a magazzino interdetto al pubblico mi sembrava solo una mezza giustificazione per quel pandemonio.
La libreria era specializzata in prime edizioni non troppo antiche per essere considerate rarità antiquarie, ma abbastanza pregiate da non potersi trovare presso un comune rigattiere. Si trattava proprio di quel genere di libri a cui apparteneva l'oggetto delle mie brame.
Fortunatamente il giovane gestore della libreria disponeva sul suo computer di un catalogo elettronico, e fu cosí che provammo a rintracciarlo insieme. Sembrava esistere una copia del volume tra le giacenze del magazzino, per cui il giovane antiquario mi invitò a cercarlo insieme a lui ripartendo equamente le sterminate zone di ricerca.

La notte successiva sognai nuovamente Peter B., ma quella volta si trattava di un sogno meno limpido e piú articolato di quello precedente. Avevo suonato il suo campanello sulla Kuglerstrasse, ero salito per le scale scricchiolanti senza riuscire ad accendere la luce, evidentemente l'impianto elettrico era fulminato. Fuori era notte fonda, i bar erano già chiusi ma la pulizia delle strade non aveva ancora cominciato il suo turno. Mi sembrò cosa naturale passare a trovarlo. Del sogno non riuscii a ricordare le nostre conversazioni, che pure ero certo che si fossero tenute, ma di tutto il resto serbai un ricordo piuttosto vivido. Mi sedetti mentre lui preparava il caffé, io avevo voglia di qualcosa di alcolico, ma sapevo senza bisogno di chiederlo che in casa sua non ne potevo trovare. Mi trovavo a disagio nella sua linda cucina con un'aria d'altri tempi, col lavabo di plastica e il piccolo boiler per lavare i piatti infisso nel muro.
Ero consapevole che la sua compagna dormiva nella stanza adiacente, cosicché lo invitai ad uscire. Lui non reagí all'invito, guardava fuori dalla finestra dandomi le spalle con la sua tazza in mano; seppure fosse una notte senza luna riuscii a intravedere un albero oltre la sua sagoma, aveva un tronco diritto e agile e fronde ampie, pensai che si trattasse di un ippocastano o di un tiglio.
Sembrava proprio che Peter B. non avesse affatto voglia di uscire.

Grazie al fatto di conservare un vago ricordo della fisionomia del volume, fui io a scoprirlo nella sezione riservata ai libri di storia dell'arte: "Ein Spiel von Spiegeln", sottotitolo Katalanische Lyrik des XX Jahrhunderts (Lirica catalana del XX secolo), con 7 disegni a colori e tre collages di Antoni Tàpies. A cura di Tilbert Stegmann, editore Reclam, Lipsia 1987.
Si trattava di un volume elegante e quasi lussuoso, malgrado l'austerità tardo-socialista sopravvissuta nella qualità della carta e nel grigio della cornice, per cui pur contrattando uno sconto col giovane libraio dovetti sborsare una cifra che non mi lasciava indifferente.
Il volume conteneva, oltre alle magnifiche illustrazioni dell'artista, una scelta dei poeti catalani piú rappresentativi del secolo, i miei preferiti erano i modernisti, i piú audaci nelle forme, Brossa e Salvat-Papasseit, ma anche i classici del simbolismo erano capaci di risvegliare in me associazioni e ricordi che credevo dimenticati. Quella lingua farcita di parole tronche aveva il sapore dei cortili polverosi e sterrati della mia infanzia, delle estati riarse e silenziose negli oliveti inselvatichiti della periferia. Compare un uomo e si ficca in una grotta. Una donna attraversa e svolta a destra. Passa in volo un uccello e se ne va. El cel es va enfosquint, i em sembla que tindrem pluja. L'ammirazione trattenuta per una bambina vestita poveramente, non ne ricordavo piú il nome, aveva la mia stessa età, ma con quei suoi occhi materni e luccicanti sapeva difendere il fratellino dagli altri marmocchi nel cortile della chiesa; gli anziani pescatori del ghetto che arrotondavano la magra pensione ricucendo le reti sulla soglia di casa, il vecchio ospedale disseminato di siringhe usate, le balaustrate di marmo di una chiesa sconsacrata e in rovina, uniche testimoni dei passati fasti.

Il romanzo recentemente uscito da cui Peter B. avrebbe letto era di dimensioni ordinarie, con copertina rigida e sovraccoperta blunotte. Davanti al bancone del bar era stato approntato un tavolino con una pila di libri e una sedia per gli autografi e le dediche di rito a fine lettura. La lettura ebbe inizio con un quarto d'ora di ritardo. La libraia introdusse brevemente lo scrittore, traduttore dalle lingue romanze, autore di libri per l'infanzia, drammaturgo e regista. Peter B. prese la parola e senza indugi cominciò a leggere un brano che suonava come l'incipit. Aveva una voce piuttosto profonda e un'inflessione lievemente dialettale, anche se a quel tempo non sapevo distinguerne l'origine. Dopo la lettura del brano Peter B. prese la parola spontaneamente per spiegare che il romanzo raccontava le disavventure del becchino siciliano Gianluca Cardinale e del suo pettirosso parlante e alcolizzato Giorgina in trasferta a Berlino. Il secondo brano introduceva i personaggi nella metropoli tedesca, alle prese con apparizioni tipiche per il microcosmo della Schönhauser Allee, la strada che evidentemente fungeva da epicentro ambientale della narrazione, e in cui non da ultimo si trovava anche la libreria dove sedevamo.

Andiamocene un po' in giro, dissi io la notte successiva, e lui stavolta acconsentí. La Schönhuser Allee è il centro segreto del mondo, disse una volta in strada con tono rivelatorio, me lo fece capire una mia antica fidanzata che non aveva il privilegio di potervi abitare. Queste curve sinuose, aggiunsi io, le chiese nascoste, i caffé, quest’aria da boulevard in decadenza, i condomini e i cimiteri, la strada che lievemente si inerpica, potrebbero essere davvero il centro di qualcosa. Arrivammo ben presto all'altezza della stazione della metropolitana, al riparo delle impalcature di ferro dormiva qualche barbone ricoperto di giornali, spirava un vento freddo che scoraggiava le passeggiate.
Gli alcolizzati rincasavano compiendo i loro improbabili slalom, i marciapiedi del quartiere non sono favorevoli alle sbronze, si inciampa facilmente tra le lastre dissestate dai decenni, ma l'equilibrio degli ubriachi, fortificato dall'esperienza, è meno instabile di quanto sembri a prima vista: se ne è forse mai visto uno che cade per terra? Può darsi che le autorità si astengano dal restaurare i marciapiedi proprio per scoraggiare l'assunzione di alcoolici, disse Peter B., ma è un teorema difficile da dimostrare.
La metropolitana che disegna le sue curve. Nella piazza consacrata a Rosa Luxemburg è ancora sotterranea, cosí come in Senefelderplatz. Dopo il cimitero ebraico, all'altezza della vecchia birreria, comincia a risalire, sulla Danziger Strasse, ex Dimitroff, diventa soprelevata, dopo la Bornholmer riprende a scendere, alla stazione Vinetastrasse è di nuovo completamente sotterranea. Ci fermiamo a prendere qualcosa di caldo in un locale dal nome esotico e sempre aperto, di cui Peter B. sembra conoscere il proprietario. Peter B. fuma prima, durante e dopo il caffé.
Dopo pochi minuti siamo nuovamente fuori e al freddo, albeggia timorosamente. Sulla strada illuminata in modo discreto scorrono rade automobili, i primi operai, perlopiú la raccolta della spazzatura, la pulizia delle strade o qualche volante della polizia. Avverto ora che il suo sguardo si è appesantito di ombre. Le vetrine abbandonate e impiastrate dei negozi sfitti, l'ordinatezza della disillusione si riflette nei suoi occhi sfuggenti. Stenta a riconoscersi nel suo prossimo, se mai in precedenza ne fosse stato capace.
Ci sono diversi modi di rendersi solitari, afferma, un cane a cui si può rivolgere la parola senza paura che risponda, i pattini o una bicicletta, con cui si può superare l'insostenibile lentezza dell'essere, o una radiolina con gli auricolari, grazie ai quali ci si può proteggere dai rumori ambientali e dalle conversazioni per strada. È giunta l'ora di risvegliarsi.

Lo sguardo di Peter B. si soffermava spesso su di me, la qual cosa mi lusingava e mi inquietava a un tempo, poiché sospettavo che lo scrittore avesse notato la bottiglia che tenevo nella tasca interna della giacca, da cui di tanto in tanto bevevo un sorso cercando di non darlo a vedere intorno. C'era una vena di complicità nel suo sguardo, che veniva confermata dal tono del suo discorso. Quasi a voler giustificare le sue scelte narrative raccontò che i primi stranieri arrivati nel quartiere erano stati proprio degli italiani, i quali nel corso della seconda metà dell'ottocento si erano insediati nell'area piú o meno circoscritta tra la Pappel- e la Schönhauser Allee. Fui sul punto di sussultare, poiché anch'io mi ero trasferito da poche settimane proprio in quel quartiere. Sembrava che si rivolgesse a me direttamente, come se fossimo seduti da soli al medesimo tavolo. Al piú tardi da quel momento cominciai a sospettare di essere la pedina di un gioco di cui non riuscivo a scorgere il manovratore. Ad ogni modo, Peter B. continuava ad osservarmi ad intermittenza.
" I primi italiani arrivarono con orsi, cammelli, cani e scimmiette calzate e vestite. La maggior parte era costituita da suonatori di organetti a manovella, la prima fabbrica di organetti sorse nel 1828 e resistette sulla Scönhauser Allee sotto il nome Bacigalupo fino al 1978. Gli italiani erano soliti affittare un organetto all'osteria Graffigna, sulla Schönhauser Allee 74, e fare il giro dei cortili dei dintorni con le loro scimmiette. Il quartiere era sovraffollato di proletari e disperati di ogni risma, vivevano ammucchiati negli alloggi stantii e insalubri che davano nei cortili interni dei palazzi, e i suonatori d'organetto rappresentavano uno dei pochi momenti di svago della giornata, non era raro che si ballasse al ritmo della musica.
A partire dagli anni novanta dell'ottocento agli italiani venne ritirato il permesso di esibirsi, che divenne prerogativa esclusiva dei tedeschi. Da quel momento passarono a lavori manuali piú pesanti o saltuari, o si arrabattarono come venditori ambulanti, ma continuarono a ritrovarsi nel ristorante "Genua", sulla Schönhauser Allee 51, non lontano da qui, quasi all'altezza dell'Eberswalder Strasse".

Con il libro sottobraccio, percorsi l'Eberswalder fino al Mauerpark e mi distesi sull'erba. Peter B. aveva tradotto di Carles Riba, un classico dell'ermetismo, la poesia Mirall (Specchio), che probabilmente ispirava il titolo dell'antologia. La lirica nella versione di Riba si concludeva con questi versi:
(...) Dubbi d'amore/ mi allacciano all'orrore/ di essere soltanto perché mi specchio/ e contro l'invisibile muro/ sapere e soltanto rifletterlo/ due, e nondimeno: chi è il puro e chi l'impuro?
L'antico tema dello sdoppiamento allo specchio racchiuso in metafore laconiche e ambigue. La versione di Peter B. era piú musicale e meno asciutta dell'originale; nell'accresciuta armonia, piú problematica:
(...)"I dubbi d'amore perseverano/ legandomi in dolci nubi/ io sono poiché mi specchio/ e cosí invisibile davanti al muro / riscopro io nel riflesso/ sono due, nondimeno: chi non vero e chi vero?
Evidentemente la scelta di *vero* (wahr) in luogo di *puro* (rein) nella traduzione tedesca si poteva far risalire in primo luogo alla necessità di trovare una rima, seppure non perfetta, a *unsichtbar* (invisibile), mentre Riba aveva gioco facile con la rima *mur/impur*.
Eppure la chiusura di questo bel poema non poté fare a meno di rimandarmi con la memoria ad una poesia di Peter B. che avevo letto tempo prima:

  "KLEIST
Un assassinio sul Wannsee

Quiete Henriette.
Senti il vento nella mia testa.
Vi è dentro un buco ne
Hanno fatto un culo
Trovare la pace con la Prussia
Urla: una metà di guerra
La guerra dichiarò l'altra
Metà per la pace in testa:
Sparare allo stato con pallini di carta

Io sono due: Henriette.
In mezzo vi è un buco."

 

Mi sembrava che quello scivolamento semantico nella traduzione del poema catalano avesse trasformato la riflessione (in tutti i sensi) di Riba nella scissione di Kleist: non piú un inquieto gioco di specchi (per quanto inquietante, comunque un gioco), bensí un‘autentica dissociazione - letteralmente senza fondo - del poeta nei confronti di una realtà sordida e ineffabile.

La lettura si concluse piuttosto presto, l'autore rispose ad un paio di domande insulse, firmò una decina di libri, e si fermò a chiacchierare con i suoi lettori. Aveva un modo diretto ma non invadente, da lontano sembrava che discutesse con amici stretti, malgrado non si trattasse invece che di perfetti estranei. Me ne restai in disparte per pochi minuti, poi mi dileguai alla chetichella come un ladro, non avendo voglia di mescolarmi a quella cerchia di bolsi ammiratori in cerca di autografi. Mentre cominciavo a scendere le scale, ci scambiammo un ultimo sguardo e ancora una volta sembrò che non ci fosse niente da spiegare, tutto sembrava lampante e privo di senso nella fugacità dell’incontro senza parole.
Da allora le letture di Peter B. si sono definitivamente concluse, cosí come le nostre passeggiate notturne. Tuttavia in un periferico interstizio spazio-temporale persevera un’improbabile nostalgia, come un caleidoscopio di possibilità aperte.
La domenica d'inizio autunno, per esempio, ricordava il momento in cui si preannuncia una sentenza già scritta. K. guidava in modo prudente, era comprensibile che avesse paura, seppure il traffico fosse estremamente rado. Arrivammo in vista della chiesa, svoltammo a destra e poco dopo giungemmo a destinazione: Amalienpark, una specie di Tarussa berlinese, ma in pieno centro, si fa per dire, il Majakovskij Ring a un tiro di schioppo.
Dietro la libreria doveva trovarsi, se ben ricordavo, la meno celebre galleria. I palazzi signorili e da sempre borghesi dipinti di giallo crema, l'erba curata e protetta dal ferro. La galleria occupava il seminterrato; l'artista, la compagna di Peter B., non era presente, c'era solo un'impiegata e oltre a noi nessun visitatore.
Su sfondo nero la testa rotonda, il naso largo e gli occhi che si perdono nel vuoto, centouno teste per due fratelli. Non esattamente come me lo ricordavo io, erano i lineamenti dell'intimità che spuntavano fuori, l'oscurità veniva alle luce nei contorni del viso sfuggenti e distruttivi. I toni marini di alcuni ritratti, quei colori portoghesi su cui Peter B. ironizzava bonariamente, ma come lui sempre in fuga, ora chiari ora scuri, da una definizione chiusa del senso. Meno violenti dei colori del fratello, non meno schietti, solo piú schivi.
L'autodistruzione fisica non è una scusa, tantomeno una prerogativa morale da cui attingere, avrebbe detto. Selbstzerstörung piuttosto come l’atto di spalancare le proprie vene al mondo, la lezione estrema ma mai abbastanza eccessiva imparata alla scuola di Artaud. Estetica della carne, della tortura, intesa come esperienza e non come dolore. La delusione che filtra da ogni anfratto, ti rosicchia lentamente con l'impotenza, e l'inerzia dei pomeriggi seduto sulla poltrona o in piedi davanti alla finestra. Vi è dentro un buco, ne hanno fatto un culo. Quello si vedeva nelle centouno teste.
Il dialogo è necessario, o finiamo ognuno a monologare come gli ubriachi o i matti, aveva detto una notte, le rughe come solchi, accennate in ogni quadro con una pennellata vaga ma impertinente. Il naso abnorme come una soglia sul mondo (il fratello preferiva la pelle, metafora della frontiera e del baratro, ma nei quadri è spesso oscura, impalpabile).
Alle pareti qualche lirica come un sottofondo di accompagnamento, ovvero a riprova della vaghezza del tentativo, o della sua funzione terapeutica, pagine di diario strappate male, senza cura.
K. percorre le stanze senza fretta, di fronte al nero si tiene la pancia, lei sí che intravede una scoperta, un approdo qualunque invisibile ai piú, per quanto stremati.

La mattina successiva Peter B. andò in cucina, mise su un caffé ben forte e guardò fuori dalla finestra. Dopo il nostro ultimo incontro non era riuscito a prendere sonno, in verità non ci aveva neppure provato. Ricordò in terza persona un giorno d'estate, come se si trattasse di un estraneo, correva l'anno 1976 e il giovane Peter, un adolescente e insofferente membro della federazione giovanile del suo paese, durante la parata davanti alla testa di Karl Marx che si teneva nell'omonima città, si consentí di sfilare davanti alle autorità non con la camicetta azzurrina d'ordinanza, ma piú libertariamente a torso nudo.
Diciassette anni piú tardi gli venne da pensare a quel gesto innocuo e irriverente poco prima di un comizio davanti alla medesima testa di pietra - il muro era caduto da poche settimane, e la maggior parte degli intellettuali tentava illusoriamente di incanalare la protesta in uno sforzo utopico, in una vera rivoluzione.
Aveva appena raccolto l'ovazione della folla affermando che finalmente i burocrati sarebbero dovuti andare a lavorare, ma continuava a sentire il peso di quella testa dietro le sue spalle, e quando rivolto alla folla la indicò col dito dicendo "Ma questa testona resta dov'è, e, porca miseria, forse ora si potrebbe cominciare anche a prenderla sul serio", il giubilo si tramutò istantaneamente in una pioggia di fischi e urla. Il proletariato con coscienza di classe e un'élite alla sua testa, pensò seguendo la traiettoria di un uccellino che si involava sopra il tetto di fronte. Fu quella probabilmente la fine di una promettente carriera di tribuno.
Sul castagno aleggiava un silenzio spettrale. Riflettendo sull'essenza dell'identità riconobbe che qualcosa di simile in lui non esisteva piú al cento per cento. Mentre osservava il suo viso nello specchio del bagno, comunicò all'uomo che aveva di fronte che quel giorno non lo avrebbe rasato.

 



Antonello Piana, nato ad Alghero, in Sardegna, il 17-06-1974, vive attualmente a Berlino. È laureando in letteratura russa e tedesca con una tesi su Paul Celan e si occupa in particolare di teoria della traduzione letteraria.



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