QUATTRO RITRATTI

Tommaso Urselli


Mio padre

Ron ron faceva mio padre quando, da piccolo, mi mettevo seduto accanto a lui per sentirlo russare. Chiudevo gli occhi e aspettavo, aspettavo: che arrivasse lei, la vaporiera.

Nunzio P.

S'alza presto al mattino Nunzio P., e si prepara con calma il caffè. Si siede al tavolo bianco di fronte alla cucina e guarda la macchinetta, attende che cominci a brontolare. Quanta allegria gli sale in cuore a Nunzio quando la macchinetta è piena fino all'orlo e dal beccuccio esce un fumo caldo che disegna fronzoli nell'aria. Poi si versa piano piano la bevanda nella tazzina di ceramica a fiori che la madre gli ha spedito a Milano insieme all'altra roba che in treno non ce la faceva a portare: "me ne comprerò dell'altra là, di roba" le aveva detto tutto stizzito al momento della partenza, "non mi posso mica portare dietro tutta casa". "Ah Nunzio Nunzio, non ci pensi più a noi ormai" gli aveva fatto la madre quasi rincorrendolo verso la porta dal momento che lui preferiva andarsene via senza salutare nessuno: "Tanto prima o poi ci si rivede, no?", diceva sempre sorridendo.

 

Carmelo

Carmelo passeggia l'estate sul bagnasciuga con i calzoni rialzati fino sopra i ginocchi e con a fianco un cane spelacchiato di nome Dreher, la sua birra preferita. Sulle spalle nude porta appesa una vecchia chitarra scordata e cammina con l'aria di chi sa bene suonare e cantare; la barba se l'è fatta crescere lunga abbastanza perché le ragazze che lo vedono arrivare pensino a lui come a un novello Robinson Crusoe con un cane al posto del pappagallo.

 

 

A.

Camminiamo senza sosta per le vie della città bianca ballando e gioendo forse per il vino che ci urla in corpo come fosse fuoco. A. si diverte come un bambino a parlare alla cenere rossa della sua sigaretta accesa da poco, se la rigira allegro tra le dita, "è come una donna" urla a squarciagola spiccando salti da gazzella ogni due passi; in realtà ha il cuore che trabocca di tristezza nera ma noi tutti facciamo finta di niente: almeno a questo servono, gli amici. "Come fate, come fate a non sorridere di fronte a questa bella luna" urla A. mentre noi siamo qua divertiti a guardare più lui che la sua luna che non c'è, o c'è sì, ma solo nella sua testa. "Lassù" continua lui, "vedo donne danzare allegramente tenendosi per mano e bere vino rosso da calici ricolmi. Vedo lenzuola bianche e veli volteggiare e distendersi sospesi nella brezza. Vedo il grosso demone dal petto villoso e dai riccioli bruni andare a caccia di amori per farne sangue. Vedo farfalle multicolori danzare intorno al mio capo come se solo qui dentro fosse primavera. E non è tutto: sento un concerto, un intero concerto di uccellini nascosti chissà dove attorno a me che mi fanno la festa e dicono è arrivato, finalmente è arrivato dopo anni di assenza." A. è sempre stato una specie di dio per noi, un piccolo dio pronto a farsi in quattro per tutti ma incapace di cavarsela da solo nelle sue faccende private. Il suo sogno è sempre stato quello di fare il capitano di una grande nave con mille marinai a bordo pronti ad ascoltare solo lui. Avrebbe dato ordini insensati, ripeteva sempre, perché un ordine è un ordine e i veri capi ne danno per il semplice gusto di darne: "Se guardate bene indietro o avanti nella storia vi accorgerete che è proprio così". Avrebbe voluto fare il capitano ma si sarebbe anche accontentato di essere uno dei grandi della storia delle religioni. Per esempio, Mosè. A. non avrebbe avuto alcuna difficoltà a scalare montagne e a parlare con arbusti infuocati come fossero dio, a procurarsi un mucchio di celestiali profetiche visioni in cui piogge rosso sangue sarebbero cadute addosso a chi, più stolto di un bue, avesse osato trasgredire a uno solo dei comandamenti da lui fatti stampare su carta riciclata fatta di manna santa del cielo. Poi si sarebbe trascinato dietro migliaia di ebrei a piedi attraverso il mare e in fondo avrebbe così realizzato anche quell' altro suo sogno di fare il capitano; li avrebbe condotti fino in Germania dove avrebbero atteso la nascita di un uomo in divisa e dai ridicoli baffetti neri, gli avrebbero spiegato che non aveva per niente la stoffa del capo e che il solo che l'avesse era appunto A., che prima di prendere una decisione rifletteva stando immerso come Archimede nella sua vasca da bagno e giochicchiando con le sue barchette di carta; e gli avrebbero infine regalato una copia di "O capitano, mio capitano" di Walt Withman.



Tommaso Urselli nasce a Taranto il 11-12-'65. Risiede dal '90 a Milano, dove lavora come educatore con soggetti portatori di handicap. Ha discusso una tesi dal titolo Incontrare l'Altro: il teatro come strumento pedagogico nei luoghi del disagio. Sta lavorando, con due attori, alla messinscena di un suo testo dal titolo provvisorio Mai nati.



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