LE STANZE AZZURRE

Alessandro Carrera


Da fuori non si capiva la doppia natura dell'esercizio. Restava nascosta anche ai clienti che si limitavano a consultare la sezione, fornitissima, di giornali e riviste straniere. Il viaggiatore aveva comprato un quotidiano del suo paese. Poi, invece di andarsene subito, si era messo a curiosare tra gli scaffali, metodicamente, seguendo il perimetro del locale. Arrivato alla parte opposta rispetto all’ingresso, si trovò davanti a un cancelletto girevole. Per passarlo bisognava infilare venticinque centesimi, l’obolo che permetteva l’accesso alla zona proibita. Il viaggiatore aguzzò lo sguardo, sperando che la vista di qualcosa, al di là della soglia, attirasse a sufficienza la sua curiosità. I normali articoli di un negozio per soli adulti, video, riviste illustrate, riproduzioni in lattice di parti funzionali maschili e femminili, non sarebbero bastati a convincerlo. Non quel giorno, non in quel momento. Fu accontentato, o decise di accontentarsi, quando vide, al di là della stanza sulla quale si stava affacciando, un’altra apertura che conduceva a uno spazio ulteriore. Da dove si trovava, al viaggiatore pareva indefinito e buio, alonato di neon azzurri e ingombro di sparse strutture bianche delle quali non si comprendeva la funzione.Il viaggiatore mise una moneta nella fessura del cancelletto, entrò, attraversò tranquillo lo spazio tra gli espositori di materiale pornografico e si sporse sulla stanza azzurra. Le luci al neon e le pareti tinte ne rendevano incerte le dimensioni. Pareva più grande. Ma non rispetto al locale appena attraversato. Pareva più grande senza paragoni.

Al viaggiatore venne in mente un’attrazione che aveva visto a Disneyland, parecchi anni prima. Era salito su una barca con una ragazza straniera. La barca si era staccata da un piccolo molo ed era entrata in un tunnel. Alla fine del tunnel pendeva una cortina di lamelle di plastica nere. La prua della barca le aveva scostate e attraversate. Il viaggiatore e la ragazza straniera si erano ritrovati in un mare dei Caraibi in miniatura. La barca avanzava lentamente, trascinata da un cavo collegato a un binario. Da isolette coperte di muschio, disposte sullo specchio d’acqua, veniva la luce di capanne illuminate, grandi come quelle di un presepio. Il viaggiatore e la straniera non si tenevano per mano perché sarebbe stato sciocco. Al di sopra di loro, una volta blu notte punteggiata da luci gialle mimava un cielo di prima estate. Il viaggiatore distingueva il carro dell’Orsa e poche altre costellazioni. La straniera non era interessata ai loro nomi. La barca increspava appena l’acqua. C’era silenzio. Davanti a loro, alla stessa velocità, si muovevano altre macchie scure. Erano altre barche, una coppia a bordo per ciascuna.
La loro barca portò a termine il percorso previsto ed entrò in un secondo tunnel. Il viaggiatore e la straniera passarono attraverso un’altra cortina di lamelle nere. Nella fioca luce che li conduceva all’uscita guardarono l’orologio. In uno spazio come quello della volta finta, che appariva più grande di quanto fosse in realtà, anche il tempo sembrava più lento del normale. Erano passati solo tre minuti da quando erano entrati. La calma della superficie d’acqua e il lampeggiare delle stelle fasulle avevano rallentato le loro percezioni. All’uscita del tunnel li colpì il lampo del sole. Si presero per mano prima di scendere. Per un momento non fu una cosa sciocca. Sulla barca salì un’altra coppia. Il viaggiatore si ricordò di un quadro che aveva visto molti anni prima, in una grande mostra al Palazzo Reale di Milano. Si chiamava Il ritorno di Ulisse e mostrava un uomo che rema in una pozza d’acqua al centro di una camera da letto.
Il ricordo si estinse. Ormai erano trascorsi molti anni anche da quella visita a Disneyland, e il viaggiatore stava per entrare nella stanza azzurra. Si chiese quant’era alto il soffitto, perché non riusciva a scorgerlo. Abbassò lo sguardo, si concentrò sulle strutture bianche e le prese come punto di riferimento. Erano alte quasi due metri e avevano la forma di uova montate su sottili portauova. Girando intorno a una di esse, il viaggiatore si accorse che all’interno erano vuote. In ognuna di esse era stato sistemato un sedile imbottito. Per entrarvi bisognava aprire uno sportello simile a quelli che vengono montati per sicurezza sui sedili delle seggiovie. In cima allo sportello era installato un piccolo schermo televisivo. Il viaggiatore si sedette in una delle uova, tirò lo sportello verso di sé e premette il pulsante che accendeva il video. Gli apparvero delle istruzioni. Poteva scegliere tra una dozzina di film e pagare la visione con una carta di credito. La fessura per inserirla stava in una scatola metallica posta sotto lo schermo. Poteva anche vedere gratis un minuto di ogni film e scegliere quello che preferiva. Il viaggiatore scorse alcuni dei frammenti a sua disposizione. Il montaggio era rapido, la scelta dei dettagli prevedibile. Il viaggiatore spense lo schermo e si appoggiò allo schienale.
Immaginò di andare alla deriva in un modulo spaziale che si era staccato dall’astronave madre. Il soffitto della stanza, vicino o lontano che fosse, era scuro come lo spazio. La luce dell’ingresso riflessa sui muri pareva arrivare da nebulose lontane. Il viaggiatore cominciò a prestare attenzione ai rumori che lo circondavano. Venivano dalle altre uova. Erano respiri, gemiti e spezzoni di dialoghi osceni che uscivano dagli altoparlanti degli altri schermi. Muovendosi per sistemarsi meglio sul suo sedile, si accorse che il suo uovo si muoveva. Aprì un poco lo sportello, appoggiò un piede a terra e spinse. L’uovo iniziò a girare su se stesso. Lentamente, il viaggiatore gli fece compiere una rivoluzione completa. Le altre uova disseminate per la stanza gli apparvero come una rada foresta di funghi giganti, senza sottobosco, risplendenti in un fioco bagliore ultraterreno. Le uova erano quasi tutte occupate. Con il viso illuminato dalla luce mutevole dei video accesi, gli altri clienti avevano gli occhi fissi sulle scene che si svolgevano sui loro visori. Ognuno stava rannicchiato nel suo bozzolo, intento a ritornare crisalide. Poi, ogni tanto, si udiva lo scatto di uno sportello che si apriva. Il cliente si alzava e usciva. L’uovo, il fungo, il bozzolo, il modulo lunare rimaneva inerte per qualche secondo. Poi veniva occupato da un altro cliente, che riaccendeva lo schermo e iniziava la sua navigazione.
Qualche settimana dopo, mentre si trovava in un’altra città, il viaggiatore lesse su un giornale che quella stanza azzurra, laggiù a Houston, era stata chiusa dalla polizia per problemi tributari. Era un peccato. Il museo cittadino avrebbe potuto acquistarla e trasformarla in un’installazione permamente. Sarebbe stata una cosa originale.
Quando il viaggiatore era bambino gli piacevano le storie di astronavi grandi come città che salpavano per Alpha Centauri complete di giroscopi gravitazionali, camere di ibernazione, coltivazioni idroponiche e asilo infantile per i figli degli astronauti nati nel cosmo. Adesso che il viaggiatore non è più un bambino gli uomini si sono condannati a irritarsi a vicenda sul loro noioso pianeta. Dicono che l’esplorazione spaziale costa troppo. Non è vero. Non ci crede nessuno. La verità è che lo spazio è obsoleto. È meccanico. Appartiene alla rivoluzione industriale. È fatto di lampi, di botti e di uomini sparati dai cannoni come nelle fiere. Non ha l’eleganza di una fibra ottica. Gli astronauti in orbita stanno in posizione fetale o gattonano come neonati, tutte cose che non fanno bene alla loro reputazione. Lo spazio è un sotterraneo, una stanza, un grembo. Chi va a fondo nello spazio regredisce. Le stelle sono madri senza sesso.
Una volta il viaggiatore ha parlato con un astronauta in pensione. Gli ha chiesto se era vero che il primo dei suoi colleghi che aveva provato a masturbarsi nello spazio si era ridotto in condizioni pietose. Che al ritorno sulla terra si hanno crisi di impotenza. Che da quelle parti c’è poco da eccitarsi. L’astronauta ha scrollato le spalle. Non parliamo molto di lassù, ha ammesso. Siamo una banda di ragazzini che non dicono su che albero si sono costruiti il loro rifugio. Dimentichiamo anche molto.
Ma la luna, dice. La luna era divertente. Non ti immagini nemmeno quanto fosse divertente. È fatta per i bambini. È un Luna Park. Avrei passato ore a saltare, solo a saltare. Un giorno ci faranno una Disneyland, neanche da paragonare a quelle sulla terra. E campi da golf immensi. Calcolare le traiettorie non sarà uno scherzo. Ti faccio vedere i miei quadri.
L’astronauta in pensione dipingeva vedute lunari. Le rocce bianche e le ombre nere, il sole tremendo, che non si può guardare, e la terra coperta di nubi che sale all’orizzonte. La nostra stanza azzurra, dice l’astronauta, indicandola. Quando torni ti ci devi riabituare. Al fatto che pisci verso il basso. Che quando sali sopra tua moglie la soffochi. Che vorresti tornare lassù, dove non pesi. Qui cammini, mangi, vai in barca e torni in camera da letto. Ma vorresti star dentro al tuo fungo, al tuo bozzolo, al tuo modulo lunare, i piedi staccati da terra e un’erezione senza sesso, che non finisce mai.


Ora il viaggiatore è seduto al tavolino di un bar. Scrive su un blocco di appunti appoggiato su un panno rugoso. Lungo il bordo del tavolo, il panno è fermato da vari semicerchi di metallo che lo premono contro la superficie di fòrmica. Il bar, che è al coperto, si affaccia sull'atrio di una banca. Fa da mensa ai clienti e agli impiegati che vi scendono all'ora del pranzo. Ora sono quasi le sei di sera e al banco non c'è nessuno. I camerieri hanno spento le luci e serrato il locale interno con una grata leggera, calata dall'alto. Hanno attraversato l'atrio e sono usciti dalla porta girevole che dà su una strada del centro di una città canadese. Accanto al viaggiatore sta un pianoforte, alto su una pedana e coperto da un telo nero. Da dove sta, gli nasconde la vista delle ultime impiegate che lasciano il lavoro. Il viaggiatore non le vede ma le ascolta camminare. Il ritmo dei loro tacchi è dapprima costante, poi un poco più affrettato mentre passano accanto a una scultura che il viaggiatore sta per descrivere, infine più lento mentre spingono il battente della porta circolare. Si perdono in un fruscio di orli di gomma che strisciano sul pavimento.
Il viaggiatore descrive nel suo blocco di appunti la scultura che domina l’atrio, ma non sa se sia il caso di chiamarla così. Il termine metterebbe in conto che da parte di qualcuno ci sia stata un’intenzione di fare dell'arte, o di produrre un accettabile ornamento. Di decorare, ingentilire, nobilitare, perfino redimere l'ingresso della Hong Kong Bank di Vancouver. Ma forse non è questo il suo scopo. Può darsi che la scultura, se questo è il suo nome, stia con l'arte in un puro rapporto d'affari. La sua esistenza trasforma la banca in un’allegoria riconoscibile, traducendo la filosofia aziendale in un emblema.
A parte la scultura, comunque la si voglia chiamare, l’atrio è uno spazio quadrato, grande e vuoto. Appare più un'aggiunta che una parte del palazzo. Sul lato che dà sulla strada, e sui due che lo affiancano, le pareti sono composte di una griglia di vetrate che vanno dal pavimento al soffitto, e che in un giorno così limpido fanno entrare a fiotti l’azzurro del cielo. Il viaggiatore misura a occhio la larghezza della stanza azzurra, forse venti metri, e l'altezza, che è quella di una casa di tre piani. Il tetto è piatto come il coperchio di una scatola di scarpe. Il viaggiatore lo sa perché l'ha visto il giorno prima dalla cima di un grattacielo. La banca vera e propria si trova nel cuore dell’edificio, passato l'atrio e girato l'angolo del bar. Alcune transenne a serpentina conducono i clienti agli sportelli. Di lato si aprono gli ascensori che portano agli uffici dei piani superiori. Chi è diretto laggiù deve entrare per la porta girevole e iniziare la traversata. Ascolta i suoi passi che percorrono sul marmo uno spazio disoccupato, calmo e innaturale come un'onda coperta d'olio. Nessun portiere sta seduto a un banco a dare indicazioni. Non vi sono rastrelli allineati da cui scegliere pieghevoli pubblicitari mentre si cammina. Nessuno, straordinariamente, cerca di vendere nulla durante il tragitto che conduce dall'ingresso ai luoghi di transazione. Anche il bar è incassato nel corpo del palazzo. Solo il cupo pianoforte e i tavolini esterni dove sta seduto il viaggiatore sconfinano con discrezione nell'area dell'atrio. La traversata dalla porta girevole agli uffici è quieta e bidimensionale. È una Flatlandia inaspettata dove il visitatore A e il cliente B raggiungeranno lo sportello C o l'appuntamento D per via retta o di poco diagonale, senza venire turbati da soste o deviazioni. Ed è così che lo spazio dell’atrio si trasforma in tempo.
Un tempo vuoto, rispettoso del percorso nel quale è stato incanalato. Al viaggiatore viene in mente un acrobata che regge un’asta, avanzando con assurda cautela su un filo teso a un passo dal suolo. Non è necessario fermarsi, turbarsi, cercare di fare esperienza di questa radura nella quale il senso delle cose si è come diradato. A questo pensa la scultura. Il viaggiatore conclude che è venuto il momento di descriverla.
Si compone di due elementi più un supporto. Il primo elemento si alza dal pavimento, il secondo pende dal soffitto. Il primo è confitto in una pedana, il secondo oscilla appeso a un perno. C'è un istante, ripetuto ogni nove secondi, nel quale le due parti diventano una. O almeno così sembrerebbe, se una fotografia, o una macchina per fermare il tempo, potessero cogliere quel momento. L’inconcepibile unità si ripete sei, sette volte al minuto. È e non è. Non fa parte del tempo ma lo rende visibile, contabile, traducibile nel codice dei numeri e del denaro.
Il basamento della scultura è un parallelepipedo di alluminio, a base quadrata e fissato su uno zoccolo. Ha il colore cromato, da ala d'aeroplano. È alto più o meno due metri. La sua cima è diagonale, con un'inclinazione di circa trenta gradi. Al viaggiatore ricorda un modello stilizzato del grattacielo della Citicorp di New York, con il suo tetto pendente, fatto di pannelli solari. Potrebbe rammentare anche l'altoparlante di un impianto stereofonico sofisticato, progettato da un designer. In realtà nulla abbellisce il parallelepipedo, né lo qualifica. Il viaggiatore si deve accontentare della sua cromata nudità. Il secondo elemento della scultura, pendente dal soffitto, è un altro parallelepipedo di uguale larghezza, ma molto più lungo e composto da otto elementi saldati. È alto, se il viaggiatore non lo misura male, circa dieci metri.
Non è fissato. Non regge nulla. Non è una colonna né un pilastro. Appena al di sotto del soffitto è trapassato da una trave, anch'essa a base quadrata. La trave attraversa l'intero atrio in direzione parallela a quella della strada sulla quale si affacciano le porte girevoli. Tiene il parallelepipedo sospeso, infilato su uno spiedo. Non proprio al centro dell'atrio; solo un poco sulla destra di chi entra. Ma non è una vera trave. Una trave sta immobile, incastrata nei suoi muri. Questa invece è un perno, costretto alle sue estremità dentro due cilindri cavi. Che sono incassati nei muri e mossi da un meccanismo nascosto, così che muovendosi dentro le guide trasmettono al perno un moto rotatorio interrotto, prima da un lato e poi dall'altro. Così farebbero le mani di un cameriere che agitano uno shaker, lente e con metodo, torcendo i polsi prima a destra e poi a sinistra. La rotazione si trasmette dal perno alla colonna d'alluminio che vi è infilzata, imponendole un moto pendolare. L'elemento mobile, il pendolo (è venuto il momento di chiamarlo così) quasi sfiora il soffitto con la cima piatta, ad angolo retto rispetto ai lati. Ma il lato che guarda a terra, dieci metri più in basso, è secato in diagonale, in corrispondenza quasi perfetta con il taglio della base che si alza dal pavimento.
Al culmine di uno dei fuochi dell'oscillazione, dopo una breve vertigine di immobilità, il pendolo inizia la discesa. Il suo lato sghembo si avvicina alla diagonale della colonna fissata al pavimento. Sembra proprio che stia per colpirla. Non accade. Le due superfici diagonali, del pendolo e della colonna, si sfiorano a pochi millimetri l'una dall'altra, poi si separano. Il pendolo, ora libero, punta verso il secondo fuoco dell'oscillazione. Lo raggiunge. Si ferma. Il perno che lo perfora gli trasmette la spinta contraria. Il pendolo riprende la sua corsa. Ancora una volta sembra che stia per colpire la colonna, o almeno per raschiarne la cima, e ancora una volta non è così. Libero di nuovo, il pendolo risale fino al primo fuoco. Ogni doppia oscillazione prende circa nove secondi.
Forse, nel momento in cui si sfiorano, si forma un cuscino d'aria tra le due superfici quadrate. È una lieve pressione, come quella che una volta il viaggiatore ha sentito sul timpano di un orecchio, chiudendo la porta di una cabina isolante. Se l'atrio fosse soffuso di vapori di ghiaccio secco il viaggiatore vedrebbe una nuvola gassosa, dapprima compressa, poi espansa, agitarsi e cadere dalla cima della colonna. Sia come sia, prima che le superfici gemelle della colonna e del pendolo si separino, come tagliate da un rasoio, c'è un istante che ritorna ogni nove secondi, nel quale la parte inferiore e la parte superiore formano un'unica colonna, intatta, perpendicolare, perfetta. No, non perfetta. Turbata, resa immateriale dalla distanza, dalla spaziatura, dalla fessura, dal cuscino d'aria che separa le due parti e che impedisce loro di assumere presenza, di esistere davvero, di funzionare nel mondo in cui si costruiscono banche e si danno licenze d'esercizio ai bar.
Se la scultura è un'allegoria della banca, ha l'accortezza di mantenere per sé uno spazio minimo, un nulla, pochi millimetri d'aria di differenza non rimediabile. Non è una resistenza alla filosofia aziendale. Il pendolo non critica la banca. Suggerisce piuttosto che la banca è una fabbrica del tempo.
Non c'è pericolo ad avvicinarsi e a passare sotto il pendolo. È alto abbastanza da non colpire fronti umane. Pure, il viaggiatore si stupisce di non trovare nemmeno un avviso che inviti alla prudenza. Non sono previste autorità protettive. Ognuno se la vede da sé. Il pendolo riguarda tutti. È un orologio di ore nuove, che il viaggiatore comincia appena a figurarsi. Ogni nove secondi ripete che il presente è solo aria pressata, una passeggera sensazione di orecchie otturate di cui non vale la pena di tener conto. Per il resto si tratta solo di lavorare a testa china, sotto gli spigoli che volano bassi. Il pendolo non mette paure oltremondane. È la vita nel pozzo di Torquemada, spazioso e fornito di pausa mensa. Non ci ucciderà, ma ci passerà sempre a un soffio dalla nuca. Il viaggiatore si potrebbe rassegnare, se non fosse per quell'istante, quel batter d'occhio che non dura niente eppure dura, quando la base e la cima, percepite insieme, sono il segno di un evento che non si afferra, di una pienezza che non c'è stata, di un destino che non ci sarà, e la fessura che le separa è la fessura che le unisce.

 


Poi, in un giorno d’agosto, il viaggiatore giunse in una località del North Dakota che aveva nome Rugby, come il gioco inventato in Inghilterra. Era solo una croce di strade, segnata da un distributore di benzina sul lato nord e da un ristorante sul lato sud. Nessuna indicazione sul numero degli abitanti, che infatti non si vedevano. Nemmeno una casa era visibile nella prateria piatta e immobile, estesa fino all’orizzonte. Si muovevano solo gli autocarri che transitavano sull’autostrada, verso il Minnesota a est e il Montana a ovest, o furgoni polverosi che sparivano a nord verso il Canada o a sud in direzione del South Dakota. Ma la cartina plastificata che il viaggiatore portava con sé diceva che proprio Rugby, quel crocevia ad angolo retto la cui esistenza sembrava così poco giustificata, era il centro geografico del continente nordamericano, il punto più equidistante dalle coste d’oriente e d’occidente, dal passaggio a nordovest verso il Mar Glaciale Artico e dalle estreme penisole affacciate sui Caraibi. L’incrocio di Rugby ammiccava, dal centro della cartina, come un ombelico dimenticato, che nemmeno gli antichi dèi avevano mai degnato di una visita.
Il viaggiatore fermò la sua Ford Escort noleggiata all’ombra del ristorante e si diresse a piedi verso un modesto monumento, eretto nella forma di un obelisco di granito. Sorgeva, con tutta probabilità, nel punto preciso individuato dai geografi come il centro del subcontinente. Appoggiandosi con una mano sulla calda superficie del piedistallo, il viaggiatore lesse su un cartello informativo, piantato a fianco dell’obelisco, che in realtà il monumento era stato spostato di una quindicina di metri dalla sua sede originaria, dove ora passava l’autostrada. L’intero baricentro del Nordamerica era stato rimosso per far passare gli autocarri che andavano a rifornire i supermercati di città che si chiamavano Grand Forks e Minot. L’avevano esiliato nel parcheggio di un ristorante da poco, un diner frequentato dai vecchi agricoltori della zona, molti dal nome tedesco come i loro antenati emigrati laggiù nell’Ottocento. Ma proprio nel baricentro dell’America, prima che lo spianassero per farci sopra la Highway, era stata trovata una pietra dove un guerriero nativo, mille o tremila anni prima, aveva disegnato il profilo della sua mano. Una writing rock. Anche quella, così diceva il cartello, era stata rimossa insieme al monumento.
E dunque dov’era? Il viaggiatore si mise a cercarla girando intorno all’obelisco, ma senza risultato. Stava quasi per rinunciare quando infine la vide: era una roccia calcarea dalla vaga forma di parallelepipedo, alta mezzo metro da terra, ora cementata nel marciapiede sul retro del ristorante e posta tra due cassette della posta che gli erano crollate sopra. Pareva l’avessero messa lì apposta per tenerle in piedi. Su uno dei lati della roccia, il più liscio, il viaggiatore trovò il petroglifo della mano del guerriero, forse un Lakota, che era la tribù più numerosa della zona. Provò a sovrapporgli la sua, risentendo un’altra volta sul palmo il caldo di una superficie rocciosa. Il cielo era terso, inevitabile, totale, una stanza azzurra dal soffitto altissimo. Tra il parcheggio e il sole pareva non ci fosse nemmeno l’intercapedine dell’aria.
Perché il corridore delle praterie aveva disegnato lì, su quella pietra, il profilo della sua mano? Di che tintura si era servito per ottenere un rosso che risaltava ancora vivo dopo tutti quegli anni? Forse si era ritirato dalla tribù per una vision quest, una ricerca che voleva dire due o tre giorni di digiuno, solo un po' d'acqua o magari nemmeno quella, finché si riceveva la visione. Dalla forma di una nuvola, dalla sagoma di un lampo, dall’apertura delle ali di un’aquila maculata il guerriero infine comprendeva qual era il suo posto fra le sei dimensioni dello spazio, destra e sinistra, avanti e dietro, sopra e sotto. E in quella croce di coordinate sacre, che un mondo senza autostrade non avrebbe mai rimosso, aveva disegnato la sua mano. O forse si era accorto di avere una mano, e non solo un gesto che impugnava la lancia o che portava il cibo alla bocca, solo dopo averla disegnata.
Vision quest. Anche il viaggiatore era abbastanza a digiuno da quando si era messo in cammino. Cominciava a sentire lo strano piacere della fame moderata, tra scarse colazioni al mattino, niente di giorno e di sera una minestra coi crostini. Non era la prima volta che si allontanava dalla sua tribù, squaw incluse, alla ricerca di visioni. Non le aveva sempre trovate. Anche quella volta infatti niente, almeno fino a quando non si era chinato ad appoggiare la sua mano sulla writing rock. Fosse stato per lui, in quel momento della vita, il viaggiatore avrebbe revocato l’ultima fedeltà muta all'infanzia celeste, così come si dice grazie e arrivederci a un’infermiera quando ci ritornano le forze. Non sono un carcerato, si diceva, sono un uomo libero in vacanza. Scarso rappresentante dell'umano, forse, e ancora pieno di noiose rimostranze da spedire nel passato. Che li riceve sempre, per quello che gl’importa.
Si alzava il vento. I sociobiologi (anche loro una tribù, pensa il viaggiatore) dicono che tutte le razze umane hanno una profonda, forse innata preferenza per l'erba, pur se non hanno mai vissuto in una prateria o tra campi erbosi. Forse perché veniamo tutti dalle savane dell'Africa orientale, l’unico posto al mondo dove stare eretti, andare a piedi e usare il pollice opponibile per sollevare legna e strumenti una volta serviva davvero. È per questa ragione savanica, dicono i sociobiologi (il viaggiatore se li immagina a parlare in quel modo) che mettiamo tappeti e moquette nei nostri appartamenti. Camminare su un terreno spugnoso ci restituisce il nostro posto nel mondo, ci ridà le sei dimensioni che ci spettano. L’erba (il viaggiatore si immedesima nel loro linguaggio) è il livello di complessità ecologica che faremmo bene a non superare.
Forse è vero, ma allora perché la writing rock? Perché quel guerriero, che viveva nell’ecosistema più amico del pianeta, in mistica simbiosi con le mandrie di bufali che ruminavano sulle colline, aveva ricevuto dalla sua stessa mano l’ingiunzione a incidersi su una superficie? Forse c'è un uomo solo dove c'è un grafista (rimugina il viaggiatore), per il quale il mondo si squaderna e viene inciso. Basta il profilo insicuro di un palmo ed ecco che l’immane prateria, i bisonti forti nella lotta e gli dèi da onorare terribili precipitano per sempre in un segno che li inghiotte, nello srotolarsi di un cartiglio che inaugura la stranezza dell'umano.
Il viaggiatore non sa come mai sia successo, eppure il guerriero Lakota, a suo modo, aveva diviso l’universo. La writing rock era un pezzo del suo mondo, eppure non stava nel mondo. Faceva vedere una mano, e la mano fa parte del mondo, ma il gesto dell’altra mano, quella che con una pietra colorata aveva disegnato la sua gemella, ecco, quel gesto non si poteva far vedere, non era nel mondo e non ci sarebbe mai entrato, eppure era anche lì, tutto lì, nella mano disegnata, perché non aveva e non avrebbe mai avuto nessun altro posto dove stare. Contro la writing rock non c’era difesa. Non poteva essere fatta tacere, uccisa e restituita alla natura come un bufalo mai dipinto sulla pietra. Il suo tempo era tutto a sé presente, preservato dal cadere degli istanti.
Fino a quando? Per sempre? No. Almeno fino a quando sarebbe stata utile a reggere le cassette delle lettere, quelle altre scritture che non vantavano sassi a reggerne il peso.
Da certi luoghi ci allontaniamo come da una stazione radio che si affioca. Armeggiamo con l’autoradio, cerchiamo di ritrovarla, una frequenza avanti, una frequenza indietro, ma si è persa come un amore, e se siamo su un’autostrada non possiamo iniziare una conversione a U solo per ascoltare la fine di un pezzo di musica che ci piaceva. Così il viaggiatore è costretto a proseguire, abbandonando seriamente il desiderio di scendere giù dalla Ford Escort al centro dell’autostrada e pestare con i piedi il centro dell’America, come quando, da bambino, suo padre lo accompagnava sul mosaico fatto a croce sotto la cupola della Galleria, che si dice sia il centro di Milano, e che portava fortuna calpestare.

 


Alessandro Carrera è nato a Lodi nel 1954. Vive tra Milano e gli Stati Uniti, dove dirige il programma di studi italiani della University of Houston, in Texas. Ha pubblicato la raccolta di racconti A che punto è il Giudizio Universale (Mobydick 1999), i romanzi La torre e la pianura (Campanotto 1994) e La vita meravigliosa dei laureati in lettere (Sellerio 2002). È autore di cinque raccolte di poesie, tra le quali due in edizione bilingue, La sposa perfetta/The Perfect Bride (Book 1997) e L’amore del secolo/Love of the Century (Book 2000). Ha pubblicato numerosi saggi di letteratura, filosofia e musica, tra i quali L’esperienza dell’istante (Lanfranchi 1995), Il principe e il giurista. Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Salvatore Satta (Pieraldo 2001), La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America (Feltrinelli 2001) e Lo spazio materno dell’ispirazione. Agostino, Blanchot, Celan, Zanzotto (di prossima uscita per Cadmo). Attualmente sta lavorando, sempre per Feltrinelli, a una traduzione di tutte le canzoni di Dylan.

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