LE PORTE

Laura Freixas

Impiegata in un negozio di tele-pizza ………In un negozio di fiori? In una lavanderia? In un ufficio comunale?…Troppo breve; non potrei vederla che per pochi secondi, tanto meno andare a casa sua. Allora, assicuratrice? Venditrice di prodotti di bellezza? Di cibi surgelati? Di bibite? Testimone di Geova?…Mi si scoprirebbe subito. Ho preso in esame una decina di possibilità fino a trovare il pretesto perfetto: facile da fingere, facile da darle a bere. Allora rimaneva solo il problema dell’ora. A metà mattina mi sembrò più prudente. Non troppo presto, per assicurarmi che lui fosse uscito, né troppo tardi: credo che non abbia l’abitudine di pranzare a casa, ma non tutte le precauzioni sono sufficienti.
Sono le dieci quando prendo l’autobus nella Gran Via, e le undici meno un quarto quando incrociando l’autostrada, avvistiamo il cimitero municipale che presiede il quartiere nuovo.
Guardo dal finestrino con crescente apprensione. Blocchi di appartamenti, di mattoni, con verdi tende scolorite, e motori di condizionatori attaccati alle pareti, biancheria stesa, e qualche povera bicicletta prigioniera su un balcone. Parchi secchi e polverosi, nei quali, noiosamente gli anziani , con il loro basco giocano a bocce. Giardini di licei circondati da cancelli…E qui e là, nelle cornici d’alluminio delle finestre, nelle giovani foglie degli alberi, lo splendore d’aprile, come per ricordare agli sfortunati abitanti del quartiere che la primavera esiste, ma non ne possono godere. Io, per lui, sono la primavera!, dico tra me. Ed eccitata da questo pensiero, scendo audacemente alla fermata più vicina a casa sua.
L’edificio è immenso. Stupendo, era quello di cui avevo bisogno: centinaia di vicini; troppi per conoscerli tutti. Sei blocchi. Cerco il blocco F, entro dal portone, mi accorgo con sollievo che non c’è portiere e mi precipito verso l’ascensore. Mi tremano le mani quando premo il bottone del terzo piano.
Sulla sua porta c’è una piccola placca argentata, ma la luce che arriva dal cortile interno la fa brillare a tal punto che non riesco a leggerla. Inoltre ho già suonato il citofono. Si apre la porta, e infine mi appare la donna che per tante volte ha popolato i miei incubi.
E lei? Non è possibile.. A prima vista, vecchia: quarantacinque anni almeno. Non mi aveva mai detto che fosse più grande di lui. Indossava un grembiule, la faccia polverosa e una pettinatura come se fosse una meringa bionda. Odorava di profumo economico e di candeggina. Una povera infelice. Con grande sollievo, sono sul punto di mettermi a ridere. Ma non dimentico la mia parte e recito di seguito:
– Buongiorno, mi scusi se la disturbo, sono la vicina. Mi sono dimenticata le chiavi e non posso entrare in casa. Le dispiacerebbe farmi usare il suo telefono e lasciarmi aspettare qui il fabbro?
– Venga, venga... – dice cordialmente, con voce dura e accento Andaluso –. Il telefono è all’uscita – mi apre una porta –. Eccolo qui.
Chiude dietro di me la porta di vetro color ambra e mi ritrovo nel posto che lei definisce pomposamente “l’uscita”, uno sgabuzzino con sei sedie allineate e alle pareti e un tavolino basso con riviste. Impugno il telefono e mentre compongo un numero inesistente e impartisco ad un fabbro immaginario, a voce molto alta, istruzioni dettagliate e precise, mi guardo compiaciuta nel vetro della finestra: capelli sciolti, vestito corto, gambe scoperte…Non è che ho vinto la partita, è che non può nemmeno esserci una partita: basta guardare lei e guardare me. Sarei dovuta venire prima, avrei risparmiato tutti questi mesi di incertezza, di… Ma a cosa serve ricordarlo ora. Finito. Che bella idea che ho avuto di prendere il toro per le corna, di venire, di fare io quello che lui non ha il coraggio di fare. Per dispiacere, chiaramente, ora lo capisco. Povera donna, sarà un boccone amaro. Ma noi sacrifichiamo la nostra libertà, la nostra felicità, il nostro futuro, per un senso del dovere mal interpretato. E’ meglio che siano felici due disgraziati che tre. Sebbene lei non sembri disgraziata. No, non ha motivo per esserlo, si adatta a questa misera vita mediocre, in un quartiere mediocre, un appartamento mediocre, con un marito…un marito che soffoca, che non ha trovato altro rimedio che cercare fuori casa quello che…Bene, deve capirlo. Ora le dirò tutto. In più dichiarerò che è stato lui ad avermi inviata. La fortuna è degli audaci. Avanti! Apro con decisione la porta e ricevo in piena faccia un secchio di liquido che odora d’ammoniaca.
– Ah, scusi, accidenti! Stavo pulendo la porta. Le ho fatto male? Prenda, prenda. – Si toglie dalla scollatura , dalla scollatura, come le nostre nonne, non ci posso credere, un fazzoletto inamidato e fa il gesto di asciugarmi la faccia. Faccio un passo indietro.
– Non è successo niente, non si preoccupi – farfuglio, pulendomi con la manica. – Posso andare al bagno?
– Si, come no – Ah, come mi dispiace…Non le sarà andato negli occhi?…Questa è la porta.
Questa volta non me la apre, ma si limita da indicarmela. E ‘ in piedi nell’ingresso, con lo straccio in mano e il pennacchio per pulire i vetri, e mi guarda. Sospetta qualcosa? Forse conosce tutti gli inquilini dell’edificio, uno per uno. Almeno tutte le donne. Si prestano un pizzico di sale, un po’ di zucchero, il telefono…Vanno insieme dal parrucchiere, scambiano pettegolezzi sui vicini…Chissà forse sono venti anni che vive qui, forse è la presidente dell’associazione condomini... Stai a vedere che mi ha fatto andare in sala per tenermi rinchiusa mentre chiama la polizia con il vero telefono, mentre quello che ho usato io era falso. Ora che ci penso, non mi ricordo se faceva…Bene, ora vedrò cosa fare. Per il momento mi affretto ad entrare nel bagno e a chiudere a chiave. Cerco di sbirciare tutto quello che posso. Ma non c’è niente da sbirciare: né un cassetto, né un armadietto…Dove, questa coppia, tiene gli spazzolini da denti, le creme, il rasoio…? Mi lavo le mani e la faccia, prendo la pochette del trucco dalla borsa, mi pettino, mi do il rossetto…La luce è al neon, e lo specchio mi riflette un’immagine verdastra e macilenta. E come se non bastasse, mi scopro una ruga nuova tra le sopracciglia. E questo maledetto odore, non c’è modo che svanisca… Eppure, mi sono anche lavata con cura. Con furia. Questa disgraziata mi avrà macchiato il vestito con il suo maledetto detergente per vetri. Di cui lei odora d’ammoniaca tutto il giorno. Perfino la camicia da notte le deve odorare. Veramente, afrodisiaco…Giuro a me stessa che quando sarò grande, quando avrò una casa mia, quando lui sarà mio marito…Una casa? Un marito? Una casa, un marito, una pettinatura da parrucchiere di quartiere…No, mai! Ma, come allora?…Noi non ci sposeremo, non ci compreremo nessun appartamento, vivremo in…Non lo so, ma no, come lei mai, piuttosto la morte… Non ci sposeremo, non ci giureremo fedeltà, quando io avrò quarantacinque anni una ragazza ventenne se lo porterà via… Ma, che sciocchezze sono queste? Perché mi pizzicano gli occhi? Sto per piangere, nel suo bagno? Sto per piangere abbracciata a questa donnicciola, mentre le confesso tutto, pelando insieme le cipolle, asciugandomi gli occhi con un fazzoletto preso dalla sua scollatura, spiegandole che ho capito il mio errore, piangendo insieme per la sua mediocrità, per la mia, per quella di lui, questa canaglia, non, questo povero uomo, con il suo insipido matrimonio, le sue lamentevoli bugie, il banale e prevedibile tradimento?…Basta, basta! Mi do una smossa, mi trucco gli occhi, mi guardo allo specchio, con sfida. Le dico la verità, faccio piazza pulita, conquisterò la nostra felicità passando sul suo cadavere se ce ne sarà bisogno. Esco dal bagno con la testa molto alta.
Che appartamento strano. Non c’è altro che l’ingresso e quattro porte: quella dell’entrata, quella dell’uscita, quella del bagno, e una quarta , in fondo, chiusa. E lei, dove sarà andata? Ah, è all’uscita. Che pulisce, come no. Questa donna deve lucidare persino suo marito. Lo spoglia, lo pettina, lo unge , lo spolvera con uno straccio…Faccio il primo passo per attraversare con decisione l’ingresso in direzione dell’uscita, quando un rumore inequivocabile mi ghiaccia il sangue nelle vene: il rumore di una chiave nella serratura.
Rimango paralizzata, con gli occhi fissi nella porta. Che dirgli? Come giustificare la mia presenza in casa sua? Cosa dirà? Il mio futuro, il suo, quello di lei, stanno per essere messi in gioco nei prossimi attimi e sono incapace di pensare, mentre la porta si apre lentamente…
Nella penombra appare una donna. Una donna di una quarantina d’anni, con un vestito di sartoria, ventiquattrore e uno sguardo intelligente che incute timore.
Per un istante si ferma a fissarmi, così confusa come me. Ma reagisce subito.
– Ah, buongiorno. Credevo che fossimo rimaste per la settimana prossima. Ma non importa. Passi nello studio, per favore. – Mi indica la porta in fondo, me la apre, ed entra con me –. A domani, Loli! – grida in direzione dell’uscita –. Si sieda per favore.
Ha chiuso la porta. Capisco il mio errore: non era quella, è questa. Ma non mi serve a niente saperlo; sono persa. Sono nelle sue mani. Ora la confusione, il complotto, le ciarle della porta della strada, la doppia chiave, e questo pomeriggio, quando lui tornerà a casa, mi troverà a pulire i vetri, e sarà a me che dirà di avere una cena d’ufficio, mentre lei prepara il reggicalze e i collant neri alle mie spalle.
Siamo entrambe sedute, lei da una parte della scrivania, io all’altro. E ora, che dico?…Lei mi scambia per una cliente, è chiaro, ma, di cosa? Ho la mente vuota, non riesco a ricordare la professione di sua moglie, sebbene lui me lo avrà detto più di una volta. Sessuologa?, Detective? Geriatra? Estetista? Specialista in disintossicazione?
– Non so da dove iniziare…– dico per guadagnare tempo.
– E’ sempre difficile – mi incoraggia, comprensiva –. Ma non si preoccupi, non c’è fretta.
Guardo distrattamente intorno. C’è una macchina da scrivere su un tavolo con le rotelle, un cavalletto con un blocco di carta bianco e matite colorate, una collezione di maschere in una delle pareti, una di un suonatore di flauto andino in un’altra… Niente che mi dia una pista indicativa, un indizio. Inghiottisco e tasto il terreno:
– Il mio problema – mormoro, sospirando per dare maggiore credibilità – è che…non sopporto… l’idea di diventare grande, di rassegnarmi a… Non potrei sopportare una vita come la sua – e la guardo dritta negli occhi.
Non accoglie la sfida. Reclina la testa, apre un cassetto. E’ seduta di spalle in penombra, ciò mi impedisce di vedere i suoi tratti. Da una scatola in cui leggo Fleur de la Havane estrae, con dita ingioiellate – si guadagna bene da vivere, non posso evitare di pensare con invidia– un sigaro in miniatura, che accende con un accendino smaltato.
– Continui, la ascolto. – E la cenere del suo sigaro brilla nella penombra mentre lo aspira.
– Questo quartiere…Ma, non si rende conto di quanto è brutto? Questo appartamento, così insignificante…Un lavoro qualsiasi, con la sua routine…
Fa cenno di sì con la testa:
– Sicuro, se non si ha un’altra vita, un mondo interiore…
Ma com’è ottusa questa donna. Dovrò dirglielo con parole chiare.
– La routine coniugale, peggio di tutto…Non crede che qualsiasi uomo…non le sembra comprensibile che un uomo, in questa situazione…?
– E lei? – mi interrompe.
– Io?
– Siamo qui per parlare di lei.
Mi giro sulla sedia. Sto perdendo terreno e non capisco perché. Devo contrattaccare velocemente. Dirglielo senza girarci intorno. Una frase semplice e sicura come un destro sulla mandibola. Solo che non mi viene.
– Io, veramente…Io, no io ho scelto un’altra cosa… un’altra via… un’altra vita…
– Che tipo di vita?
Mi sforzo di ricordare la mia soffitta di notte, i dischi dell’opera, l’incenso, la candela accanto al letto… Ma quello che sovviene alla mia mente è la soffitta di giorno, con la sua moquette tagliata male e il pezzo di gesso pendente dal soffitto che ieri è caduto nella padella, i fine settimana in solitudine, le ore morte accanto al telefono, il risvegliarsi da sola.
– Non sopporto la realtà – confesso, e mi pizzicano nuovamente gli occhi – Non sopporto la mia vita di giorno. – E scoppio a piangere a dirotto.
Fuma e guarda il soffitto. Lo studio, con la sua luce soffusa, sembra ascoltarmi in silenzio, sereno e comprensivo, forse un po’ annoiato.
Infilo la mano nella borsa, cercando un kleenex, e quello che trovo è un oggetto il cui tatto duro mi disorienta un attimo prima di riconoscerlo. Sono gli orecchini. Li prendo e li metto nervosamente sopra la scrivania.
– Me li ha regalati lui –, spiego, con un tono che cerca di essere trionfante. Ma il contrasto tra questa bigiotteria economica con i suoi anelli d’oro che risplendono mi innervosisce e mi umilia. Allungo la mano per riprenderli. Troppo tardi: lei li ha presi. Li alza alla luce e per un attimo rimaniamo a guardarli. Sono formati da una pallina di cristallo, dalle quali scendono, dei fili di metallo come minuscoli uncini, fili di cristallo di diversi colori. Lei inizia a toglierli.
– Cosa sta facendo? Sono miei?
– Perché li tiene nella borsa? – mi chiede, mentre continua a togliere i fili uno per uno.
– Mi fanno male. Pesano molto – rispondo, prima di pentirmi della mia sincerità.
– Forse – suggerisce – quello che le pesa è la situazione che sta vivendo. – E io mi metto a piangere nuovamente, come un idiota, mentre lei chiude il pugno con tutti i cristalli dentro, alza la mano, e con un gesto, come colui che semina il campo, la apre e li lancia al volo per tutta la stanza.
– Cosa sta facendo? – ripeto. Ma lo spettacolo mi lascia a bocca aperta. I cristalli vanno a posarsi sulla macchina da scrivere, sulle maschere, sul foglio bianco, sui flauti, e lo studio si trasforma in un caleidoscopio, una chiesa gotica, una grotta del tesoro.
– Faccio quello che lei deve imparare a fare.
Alza nuovamente la mano, la apre e i cristalli, obbedienti, ritornano da lei. Mi restituisce gli orecchini intatti.
– E come?
– Io l’aiuterò, ma il cammino dovrà trovarlo lei stessa. Non aspetti, in ogni caso, che nessuno glielo regali.
– Vuole dire – le chiedo ansiosamente – che è meglio che ricerchi la felicità in…che io stessa…che impari a creare vane illusioni…a volontà... sapendo che lo sono… che io sola…?
Si alza, facendomi capire che la nostra analisi è terminata. Come?, Già? Mi afferro alla sedia. Non può liquidarmi così alla buona, non può scacciarmi senza dirmi cosa devo fare per essere come lei, adulta, serena, con un segreto, non me ne andrò senza la chiave di questo segreto che salva dalla mediocrità, ma anche dalla bugia e dal rimorso…
Mi sta accanto, mi guarda con i suoi occhi colorati come fili di cristallo e sorride.
– Abbiamo finito per oggi – mi dice dolcemente –. L’aspetto la prossima settimana alla stessa ora. Del prezzo non si preoccupi, poi ne parleremo. – E mi accompagna, contro il mio volere, alla porta. Disperata, grido:
– C’è qualcosa che devo dirle…che deve sapere. Suo marito mi inganna! Dico, la inganna! Con me!
– Si, si…Si calmi. Lunedì alla stessa ora, allora. – E chiude lentamente la porta, lasciandomi nel deserto del pianerottolo.
Potrò tornare!, mi dico con sollievo, con gratitudine, asciugandomi le lacrime, contando i giorni, le ore, che mancano al prossimo lunedì.
Uscita dal portone, in strada, mi rendo conto, senza sorpresa e senza molto interesse– la mia vita interiore, fino a questa mattina, mi sembra remota ormai – che nella parete c’è scritto blocco E, non F. Cammino così distratta che solamente quando noto che qualcuno si è fermato all’improvviso davanti a me, aguzzo lo sguardo e vedo chi è. Ma invece di sentir battere il cuore, quello che sbatte è un bloc notes che ho nella borsa.
– Che ci fai tu qui? – dice, furioso, sotto voce.
– Sono venuta a cercare un argomento per un racconto.
– Ah, bene – esclama con ironica cortesia –. E lo hai trovato?
– Ebbene, sì.
Le porgo la mano. Sconcertato, mi allunga la sua e ce la stringiamo solennemente.
Arrivederci e grazie di tutto – mi congedo.
Lui si gira bruscamente e cammina impettito, rigido, senza girarsi, fino al blocco F. Io, ferma sul marciapiede, contemplo come si allontana colui che è stato il mio amante e ora è il mio personaggio. Mi fa un po’ pena, perché come amante non era, in verità, niente male.



(Traduzione dallo Spagnolo di Samanta Catastini)


Laura Freixas Revuelta è nata a Barcellona nel 1958. Laureata in Giurisprudenza. Il suo primo lavoro fu quello di scrivere un romanzo, ancora inedito, perché lo firmasse un fabbricante di liquori.
Ha trascorso due anni come lettrice di spagnolo in svariate università di sconosciuti paesi inglesi. Fondatrice e direttrice, presso una casa editrice barcellonese, della collana “El espejo de tinta” (1987–1994), ha tradotto e curato le prefazioni di alcune opere di Virginia Woolf, Simone de Beauvoir, Dorothy Parker, Tatiana Tolstoi, Elzabeth Smart, Henri-Frederic Amiel…
E’ collaboratrice abituale di vari quotidiani e riviste culturali (El País, la Vanguardia, El Urogallo, El Europeo, Revista de Occidente, Claves). Vincitrice del premio di Racconti Lena nel 1982. Attualmente vive a Madrid.


         Precedente   Successivo        Copertina