LA SCRITTURA SENZA CASA DI EDWARD SAID


Beatriz Resende

 

Su Cultura e politica di Edward Said

 

Difficilmente considerazioni sull’esilio potrebbero essere al contempo così sofferenti, brillanti, forti e esenti da autocompiacimento come quelle sviluppate da Edward W. Said nel suo saggio Riflessioni sull’esilio, del 1984, ora pubblicato in Brasile, insieme ad altri, in Cultura e politica.
Said è nato a Gerusalemme, è cresciuto al Cairo, in un “mondo di una minoranza privilegiata”, dove è stato educato nel migliore college britannico, quello che più tardi lo avrebbe fatto sentire “un paradosso”, mentre cercava di convincersi che “con un cognome come Said dovrei vergognarmi di me stesso, ma il mio lato Edward dovrebbe proseguire e progredire”, come scrive in Ricordi del Cairo. L’adolescente inadatto avrebbe finito per essere mandato negli Stati Uniti dove avrebbe completato i suoi studi con successo, in una scuola austera e puritana del Massachussetts. La schizofrenia linguistica d’origine, nella quale l’arabo, come lingua madre, si veniva a mischiare all’inglese, l’idioma scolastico – “Non ho mai saputo veramente qual’è stata la mia prima lingua e mi sono sentito a mio agio in entrambe” – ha finito per fare di Edward Said uno dei più importanti professori di Letteratura dei nostri tempi. L’intellettuale che ha rinverdito il concetto di “orientalismo” sottolinea in Tra i mondi che nel corso dei suoi quarant’anni come professore non ha mai insegnato “qualcosa che non appartenesse al canone occidentale, e sicuramente niente sul Medioriente”. Consacrato dall’ambiente accademico statunitense, è diventato il “professore del terrore” come ci dice il suo ruolo di commentatore militante riguardo alla questione palestinese, a quella islamica e a quella anti-imperialistica. Di fronte ai conflitti tra israeliani e palestinesi, la sua convinzione che non esista alcuna soluzione militare per nessuno dei due contendenti e che sia indispensabile un processo di riconciliazione pacifica e di giustizia per tutto quello che i palestinesi espropriati hanno dovuto sopportare, hanno fatto sì che Said fosse minacciato di morte e subisse delle ostilità da entrambi i lati. Negli ultimi tempi prima della sua morte, avvenuta recentemente, quando ha saputo che era portatore di una malattia terminale, si è dedicato a scrivere le memorie dei primi anni della propria vita, che sono trascorsi in tre luoghi che non esistono più: “La Palestina ora è Israel, il Libano, dopo vent’anni di guerra civile, c'entra poco con il paese noioso dove trascorrevo le mie estati (...) e l’Egitto coloniale e monarchico è scomparso nel 1952”. La cronaca di questo mondo perduto l'ha intitolata Fuori luogo.
Nonostante appartenesse a una famiglia di rifugiati, lo scrittore Edward Said adulto non era esattamente quello che noi latinoamericani, con la nostra esperienza di colpi di stato e dittature, solitamente consideriamo “un esiliato”. Ma è da questa sua condizione, attraversata dalle molte angosce che infestano la vita degli esiliati di tutte le tipologie - rifugiati, espatriati e emigrati - che Edward Said parte per confrontare esilio e nazionalismo e analizzare le molteplici configurazioni che la condizione di “senza casa” può acquisire, in un dialogo con esiliati eccellenti come Joyce, Conrad certi poeti arabi poco conosciuti nel nostro repertorio occidentale, e più di tutti, Adorno.
L’originalità della sua riflessione – una riflessione che si è sviluppata in seguito alla crisi dello stato-nazione, quando sappiamo che la nazione sarebbe, come ha detto Benedict Anderson, una comunità immaginaria (anche se in verità il mondo continua ad essere minacciato dalle differenze nazionali e dai fondamentalismi, dall’intolleranza e dall’ansia di dominio, nella quale l’impero ha un nome e una bandiera) – sta giustamente nell’inusitata associazione tra nazionalismo ed esilio. Un po’ più oltre il confine tra “noi” e “gli altri” si trova il rischioso territorio del “non-appartenere”, ma l’esiliato sa bene che in un mondo secolare e contingente, le patrie sono sempre provvisorie. Per quanto successo abbiano, gli esiliati sono sempre degli eccentrici che sentono la loro differenza, ma aggrappandosi alla differenza come a un’arma da essere utilizzata con ferma volontà, l’esiliato insiste puntigliosamente sul suo diritto di rifiutare l’appartenenza a un altro luogo. Consapevole che l’interazione tra nazionalismo ed esilio è come la dialettica hegeliana tra “il padrone” e “lo schiavo” – opposti che informano e costituiscono uno all’altro – il fatto è che se Edward Said non arriva al punto di identificare dei piaceri nell’esilio, conclude tuttavia che la condizione di vedere tutto il mondo come una terra straniera finisce per rendere possibile “un’originalità di visione”.
È proprio quest’originalità che impregna i suoi indispensabili testi critici.


(Tratto dalla rivista Z, Revista do Programa Avançado de Cultura Contemporânea da Universidade Federal do Rio de Janeiro, Gennaio 2004, traduzione di Julio Monteiro Martins)




        
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