IMMIGRAZIONE E CAPITALISMO GLOBALE


Augusto Zamora

 

Tra il 1821 e il 1924, circa 55 milioni di europei emigrarono in diversi continenti, principalmente in America. Erano il rifiuto della rivoluzione capitalista che scuoteva la maggior parte dell’Europa Occidentale, che aveva trovato nell’immigrazione una valvola di sfogo alle legioni di miserevoli scarti dell’industrializzazione. I paesi americani, a loro volta, necessitavano di grandi contingenti umani per popolare i loro estesi territori. Quella complementarità fece sì che il capitalismo europeo si potesse sviluppare senza scatenare un caos, nonostante ciò, tra il 1830 e il 1934, rivoluzioni e tumulti si succedettero ciclicamente. La somma di miseria e guerre provocò la rivoluzione bolscevica in Russia e rese possibile il trionfo del nazismo in Germania, quest’ultimo favorito dai gruppi capitalisti timorosi di una sommossa popolare.
Il problema demografico fu anche uno stimolo dell’imperialismo europeo. Le potenze coloniali, grazie al loro dominio del mondo, promossero l’immigrazione verso le colonie, poiché permetteva loro di risolvere due problemi: fame e disoccupazione da una parte; spopolamento delle colonie dall’altro. Grandi contingenti di europei si stabilirono dall’Algeria al Sudafrica, dall’India all’Australia. Le cause dell’emigrazione erano la povertà e la necessità della terra, causata dalla voracità capitalista e dalla crescita della popolazione. Paesi poco popolati, come la Norvegia, videro emigrare due terzi della loro popolazione. L’emigrazione si alimentò da sola. Gli emigranti irlandesi inviarono al loro paese natale quasi due milioni di libre tra il 1850 e il 1855, rimesse che servivano per pagare il viaggio di familiari e amici. Mezza Irlanda emigrò negli USA. Tra il 1851 e il 1880, circa 5 milioni e trecentomila britannici abbandonarono le isole, dirigendosi soprattutto in Usa, Australia e Canada.
A metà del secolo XX, ma soprattutto dal 1880, italiani e spagnoli si aggiunsero al flusso migratore. Dal 1880 al 1914, più di tre milioni di spagnoli partirono per raggiungere i territori americani, fenomeno che, nel caso della Spagna, fu rafforzato dalla sconfitta repubblicana durante la guerra civile e dalla povertà del paese nei decenni seguenti. Oggi, circa due milioni di spagnoli risiedono all’estero, tra cui un milione e trecentomila in America Latina.
Altre emigrazioni si produssero con l’avvento del capitalismo, come la colonizzazione russa della Siberia e quella polacca della valle del Rhur alla fine del secolo XIX, o la stessa immigrazione interna dai campi alla città, che ancora oggi non accenna a fermarsi. Nonostante tutto, nessuna è stata così tragica come la forzata emigrazione dei negri a causa della tratta degli schiavi, che continua ad essere la pagina più nera della rapina europea. Regioni intere dell’Africa furono spopolate ed altre disarticolate per sempre. Si calcola che circa dodici milioni di negri furono fatti schiavi, cifra impressionante considerando che l’Olanda aveva cinque milioni di abitanti nel 1900 e la Svezia sette milioni nel 1950. Sebbene fosse stata abolita nel XIX secolo, la colonizzazione dell’Africa ristabilì di fatto la schiavitù, affondando il continente in un inferno che persiste e dal quale fuggono, in maree crescenti, milioni di derelitti.
Fino al 1960, circa, l’immigrazione arrecò enormi benefici ai paesi europei. Per il dominio assoluto che esercitavano sulle colonie ed i protettorati, questi dovevano accettare l’immigrazione bianca che li spogliava di terre e mezzi, mentre agli abitati natali era proibito emigrare verso le metropoli. Da 500 anni l’America Latina accoglie l’immigrazione spagnola, mentre gli indiani hanno dovuto aspettare 500 anni per emigrare in Spagna. Ci fu un’eccezione a tale impedimento: quando gli indigeni furono usati come palle da cannone. Le guerre mondiali obbligarono i francesi e gli inglesi al massiccio reclutamento di africani ed asiatici, che poterono, a costo del loro sangue, conoscere l’Europa. Nella prima Guerra Mondiale, l’Inghilterra mobilizzò 943.000 indiani. La Francia 928.000 vassalli. La seconda Guerra Mondiale fini di liquidare gli imperi coloniali e obbligò al rimpatrio milioni di europei. La decolonizzazione chiuse un ciclo e ne aprì un altro, inatteso: quello dell’immigrazione degli ex servi verso le ex metropoli.
In America, il Crack del 1929 fece sì che gli Usa ponessero fine all’epoca d’oro dell’immigrazione. Se dal 1899 al 1914 aveva ricevuto 15 milioni di emigranti, tra il 1930 e il 1945 ne permise l’ingresso solamente di 650.000. Il rubinetto si aprì nuovamente con la nuova età dell’oro derivata dagli ingenti benefici che lasciò la seconda Guerra Mondiale. L’America Latina continuò a ricevere immigrati, soprattutto dalla Spagna e dall’Italia. In Europa, la crescita degli anni 60 e 70 richiese numerosa mano d’opera dall’Europa del Sud e dal Mediterraneo. Nel 1974, secondo la CEE, c’erano 574.000 spagnoli e 1.037.000 italiani nei paesi più ricchi d’Europa.
Nel terzo mondo, il neoliberalismo sostenuto dal duo Reagan-Thatcher durante gli anni ’80, avrà un effetto devastante, accresciuto dalla corruzione e dallo sperpero e da un deficit esterno colossale che ne ha compromesso il futuro. La distruzione della Unione Sovietica e il blocco socialista infisse un altro colpo demolitore, poiché i paesi poveri persero mercati sicuri e una vantaggiosa assistenza economica e tecnica. Con la fine della guerra fredda, i paesi ricchi ridussero drasticamente il loro aiuto per lo sviluppo, imposero il crollo dell’apparato statale e obbligarono alla privatizzazione imprese e risorse naturali a favore delle loro multinazionali. L’effetto è stato un aumento atroce della disuguaglianza nel mondo e la concentrazione della ricchezza in un numero, sempre più ridotto, di persone e di imprese.
Il crollo dei paesi poveri cambiò la direzione dei flussi umani. L’America Latina, per secoli ricettrice dell’emigrazione , fu repentinamente trasformata in continente migrante. Dagli anni ’80, decine di milioni di sudamericani sono stati costretti ad emigrare. Le cifre dimostrano l’espansione del fenomeno. Il 23% dei messicani, il 15% dei salvadoregni e l’11% dei dominicani vive negli Usa. Nel 2000 c’erano 35 milioni di “ispanici” contro il 21,9 milioni del 1990. Oggi se ne contano 39 milioni,con una crescita di 1,3 milioni all’anno, solo secondo il flusso migratorio, senza contare la loro tassa di natalità, la più alta degli USA.
L’immigrazione ha cambiato le relazioni tra l’America Latina e gli Usa, ben oltre quello che ci permettono di vedere le pure relazioni formali. Le rimesse degli emigranti costituiscono il pilastro che sostenta delle economie in rovina, che trovano in queste la loro ancora di salvezza. Le rimesse rappresentano il 43% delle divise di El Salvador, il 35% del Nicaragua e il 21% in Equador ( al quale si devono aggiungere le rimesse degli immigrati verso altri paesi e verso l’Europa.)
Il Messico riceve più di 6.000 milioni di dollari di denaro pulito e il paese non scoppia grazie all’emigrazione. Quando nel 2001 Bush minacciò una espulsione di massa di immigranti illegali, il Messico vacillò e i presidenti del Centroamerica volarono precipitosamente verso gli Usa per chiedere un indulto. Se fosse avvenuta l’espulsione, le loro economie si sarebbero sparpagliate come carte da gioco e i paesi sarebbero scoppiati, poiché non erano in grado di accogliere gli espulsi.
Gli Usa sono caduti nella loro stessa trappola. Con l’America Latina rovinata da un secolo di spoglio, deve optare tra inghiottire tutto d’un fiato la valanga migratoria del sud, o, se chiudere le sue frontiere, vedere il paese che sprofonda nel caos, cosa che susciterà una moltiplicazione esponenziale delle ondate migratorie. Se ciò accadesse, si dovrebbe scontrare con due inferni, non uno solo. Poiché non si intravede un cambiamento di politica, nel 2050 gli Usa avranno cento milioni di ispanici e sarà il primo paese di lingua spagnola del mondo dopo il Messico. L’integrazione continentale non dipenderebbe dall’Alca (Società per il libero commercio tra le due Americhe) ma dalla emigrazione, dagli Usa latinoamericanizzati, qualcosa che impaurisce molti bianchi. La California, con un 52% di ispanici, è stata riconquistata. E il processo è appena iniziato.
L’Europa si trova immersa in una simile strada e dovrebbe specchiarsi negli Usa per conoscere il suo immediato futuro. Questa assediata fortezza confina con l’Africa, L’Europa dell’Est e l’Asia, paesi poveri se non poverissimi, con alto tasso di natalità, in particolar modo l’Africa ed il Magreb. Dei 50 paesi più poveri del mondo, 35 sono in Africa, continente che, nel 2050 avrà 1.700 milioni di abitanti, dei quali 120 milioni magrebini. In Africa confluiscono le sfortune del mondo: sovrappopolazione, malattie, fame, corruzione, guerre e siccità. La marea africana è solo all’inizio.
Nessun mezzo repressivo potrà contenere questa alluvione, come dimostra il caso degli Usa e la stessa esperienza europea. Gli Stati Uniti costruirono un muro di 150 chilometri di lunghezza sulla frontiera con il Messico, ha esteso reti e sofisticati sistemi di detenzione su altri centinaia di chilometri, quintuplicando la spesa e il numero dei poliziotti e l’unica cosa che è riuscita a raggiungere è stata quella di aumentare il numero degli immigranti morti (circa 3.000 all’anno) e favorirne la mafia. Il crescente numero di illegali morti nel “corridoio della morte”, in Arizona, indusse il governo messicano nel 2001 a distribuire 200.000 sacchi a pelo a chi si addentrava in quella desertica zona mortale.
L’unica alternativa tangibile per diminuire il fenomeno, fino a renderlo controllabile, è modificare i termini di scambio e creare condizioni che rendano vitali i paesi. Sarà inevitabile condonare il deficit esterno che soffoca le economie e trasformarlo in aiuto per lo sviluppo, creando meccanismi internazionali che impediscano la loro prevaricazione a causa delle oligarchie e dei governi corrotti. Il protezionismo agricolo e commerciale dovranno lasciare il passo a un sistema che primeggi le esportazioni dei paesi poveri (l’aumento di un 1% delle esportazioni aumenterebbe di un 20% il reddito dell’Africa Subsahariana) e protegga i suoi prodotti chiave, aumentando anche le inversioni per espandere il mercato lavorativo ed allargarlo alla popolazione. Le multinazionali dovranno sottoporsi a controlli contro lo sfruttamento lavorativo, lo scambio dei benefici e la speculazione, per evitare la svalutazione umana e monetaria. Di non minore importanza, impedire loro di fomentare guerre poiché, come afferma la Banca Mondiale, molte di esse sono provocate per conquistare giacimenti minerali, come accade in Africa. Cambiamenti, infine, che possano sconfiggere la causa fondamentale dell’immigrazione, che è stata, da sempre, una fuga dalla miseria per cercare una vita degna e decorosa.
Sembrerà utopico o chimerico, ma non ci sono altre soluzioni a portata di mano. Il capitalismo globale ha devastato per secoli interi continenti. Mentre i disperati non potettero emigrare, le potenze coloniali vissero il loro sogno. Oggi è impossibile sostenerlo. Come gli Usa, si dovranno scegliere tra proporre un sistema internazionale meno disuguale ed ingiusto, adottando i mezzi che mancano, o vedere la loro fortezza assaltata da maree incessanti di condannati terrestri. La loro avanzata è già in atto, sta già segnando il percorso.


(Tratto da “La Insignia”, Spagna, Gennaio 2004)




        
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