STUDIO 5, LE STELLE

James G. Ballard

Durante l'estate ogni sera a Vermilion Sands le folli poesie della mia bella vicina vagavano attraverso il deserto sino a me da 'Studio 5, Le Stelle', frante matasse di nastro colorato che si sdipanavano nella sabbia come fili d'una smembrata ragnatela. Tutta la notte svolazzavano attorno ai contrafforti sotto la terrazza intrecciandosi alle ringhiere della balconata, e al mattino, prima che le togliessi di mezzo, penzolavano sulla facciata meridionale della villa come una vivida buganvillea rosso ciliegia.
Una volta, dopo essermi trattenuto tre giorni a Red Beach, al mio ritorno trovai l'intera terrazza ricolma d'una enorme nube di veline colorate che irruppero dalle portefinestre non appena le aprii e si spinsero in soggiorno, sparpagliandosi su mobili e scaffali come i viticci delicati d'una immensa ma garbata pianta. Per giorni interi, dopo, trovai frammenti di poesie dappertutto.
Diverse volte reclamai, percorrendo a piedi i neppur trecento metri di dune per consegnare una lettera di protesta, ma nessuno rispose mai alle mie scampanellate. Avevo visto la mia vicina una volta sola, il giorno che era giunta guidando lungo Le Stelle una enorme El Dorado decappottabile, la lunga chioma fluttuante come l'acconciatura di una dea. S'era dileguata in un barbaglio fulmineo, lasciandomi l'immagine fugace di due occhi inattesi in un volto niveo.
Mai mi fu dato di capire perché ricusasse di rispondere al campanello, ma notai che ogniqualvolta mi recavo a Studio 5 il cielo era pieno di mante della sabbia volteggianti e stridenti come afflitti pipistrelli. L'ultima volta, mentre sostavo dinanzi alla porta d'ingresso in vetro nero dilettandomi a scampanellare a più non posso, una manta gigantesca piombò dal cielo abbattendosi ai miei piedi.
Ma quella, come più tardi compresi, era la folle stagione di Vermilion Sands, quando Tony Sapphire udì cantare una manta della sabbia, e io vidi il dio Pan passarmi davanti in Cadillac.
Chi fosse Aurora Day, ora me lo domando spesso. Attraversando velocemente il placido cielo fuori stagione come una cometa estiva, pare abbia assunto un ruolo diverso per ciascuno di noi della comunità lungo Le Stelle. Per me, all'inizio, fu una magnifica nevrotica travestita da femme fatale, ma Raymond Mayo vide in lei una delle madonne esplosive di Salvador Dalí, un enigma tranquillamente capace di scampare all'apocalisse. Per Tony Sapphire e il resto dei suoi spasimanti balneari fu la reincarnazione di Astarte, una figlia del tempo dagli occhi di diamante vecchia di trenta secoli.
Ricordo distintamente come trovai la prima delle sue poesie. Dopo cena una sera riposavo in terrazza - non facevo quasi altro a Vermilion Sands - quando notai sulla sabbia una stella filante proprio sotto la ringhiera. A pochi metri ce n'erano parecchie altre, e per mezz'ora le osservai farsi sospingere dal vento lievemente fra le dune. Sul viale di Studio 5 brillavano i fari di un'auto, e ne dedussi che la villa, rimasta vuota per diversi mesi, aveva un nuovo inquilino.
Spinto infine dalla curiosità scavalcai la ringhiera, saltai giù sulla sabbia e raccolsi uno dei nastri di rosea carta velina. Era un frammento d'una novantina di centimetri, della consistenza di un petalo di rosa, talmente leggero che cominciò a sfaldarsi e dissolversi fra le mie dita.
Sollevandolo lessi: ... PARAGONARTI A UN GIORNO D'ESTATE, SEI PIÚ LEGGIADRA...
Lo lasciai svolazzare via nel buio sotto la balconata. Poi mi chinai e ne raccolsi delicatamente un altro dispiegandolo. Recava stampato nel medesimo elaborato carattere neoclassico: ... VOLGI LA CHIGLIA AI FRANGENTI. AVANZA SU QUEL MARE DIVINO...
Volsi lo sguardo dietro di me. La luce sul deserto era ormai svanita, e a trecento metri scarsi la villa della vicina era illuminata come una spettrale corona. Le vene di quarzo superficiali sulle scogliere di sabbia lungo Le Stelle s'increspavano come collane nei fari sciabolanti delle auto dirette a Red Beach.
Diedi un'altra occhiata al nastro.
Shakespeare ed Ezra Pound? Che gusti bizzarri aveva la mia vicina.
Venendo meno la curiosità, risalii sulla terrazza.

I giorni successivi le stelle filanti continuarono a svolazzare sulle dune; chissà perché cominciavano sempre di sera, quando le luci del traffico illuminavano gli spezzoni di garza colorata. Comunque le notavo appena: all'epoca dirigevo l'edizione di Onda IX, una rivista di poesia d'avanguardia, e lo studio era pieno di autonastri e vecchie bozze non impaginate. E poi non mi sorprendeva in modo particolare scoprire di avere per vicina una poetessa. Quasi tutti gli studi lungo Le Stelle sono occupati da pittori e poeti... in maggioranza astrusi e improduttivi. Molti di noi soffrivano in vario grado di stanchezza da spiaggia, malessere cronico che esilia la vittima in un limbo d'incessanti bagni di sole, occhiali scuri e terrazze pomeridiane.
In seguito, tuttavia, le stelle filanti raminghe sulla sabbia divennero abbastanza fastidiose. Non sortendo alcun esito i reclami scritti, mi recai alla villa della mia vicina intenzionato a incontrarla di persona. In tale circostanza, dopo che una manta moribonda precipitò dal cielo rischiando di trafiggermi nell'ultima convulsione, mi resi conto di avere poche speranze di prendere contatto con quella donna.
Sul viale un autista gobbo dal piede equino e la faccia storta da vecchio fauno stava pulendo la Cadillac rosso ciliegia. Avvicinatomi gli indicai le strisce di carta velina che penzolavano dalle finestre del primo piano e cadevano nel deserto sottostante.
"Quei nastri m'invadono la villa" gli dissi. "La sua padrona deve aver lasciato un apparecchio VT in sequenza aperta."
Lui mi scrutò attraverso l'ampio cofano della El Dorado, sedette al posto di guida e prese dal cruscotto un piccolo flauto.
Mentre aggiravo la macchina alla sua volta si diede a suonare certi accordi acuti, irritanti. Attesi che finisse, quindi a voce più alta domandai: "Le spiacerebbe dirle di chiudere le finestre?"
Le labbra strette al flauto con piglio imbronciato, mi ignorò.
Mi chinai, e stavo per gridargli all'orecchio quando una raffica di vento vorticò sopra una duna appena oltre il viale e in un battibaleno turbinò sulla ghiaia sollevando un minuscolo tornado di polvere e cenere. La tromba d'aria in miniatura ci avvolse completamente, accecandomi gli occhi e riempiendomi la bocca di sabbia. Riparandomi il volto con le braccia mi allontanai per il viale mentre le lunghe stelle filanti mi sferzavano attorno.
Repentinamente com'era iniziata la bufera scomparve. Il polverone si placò e svanì, lasciando l'aria immobile com'era pochi secondi prima. Mi accorsi di essere indietreggiato d'una trentina di metri lungo il viale, e mi resi conto con stupore che Cadillac e autista s'erano dileguati, sebbene la porta del garage fosse ancora aperta.
La testa mi rintronava stranamente, mi sentivo irritabile e a corto di fiato. Stavo per riavvicinarmi alla casa, in collera per non esservi stato ammesso venendo invece costretto a subire inerme l'odiosa aggressione della tempesta di polvere, allorché udii di nuovo risuonare in aria il fievole zufolante ritornello.
Sommesso ma chiaro e stranamente minaccioso mi cantava nelle orecchie, gli strati sonori si susseguivano quasi circondandomi. Guardandomi attorno per individuarne l'origine notai la polvere agitarsi sulla superficie delle dune su entrambi i lati del viale.
Senza attendere oltre, volsi i tacchi facendo ritorno in gran fretta alla mia villa.

Furibondo con me stesso per essermi fatto abbindolare a quel modo, e decisissimo ad avanzare un reclamo ufficiale, percorsi innanzitutto la terrazza in lungo e in largo raccogliendo dalla prima all'ultima le strisce di carta velina per poi lasciarle nello scarico dei rifiuti. Scesi quindi di sotto e recisi le aggrovigliate masse di stelle filanti.
Lessi a caso, frettolosamente, qualche nastro. Su tutti quanti erano stampati gli stessi frammenti bizzarri, intere frasi di Shakespeare, Wordsworth, Keats e Eliot. L'apparecchio VT della mia vicina sembrava avere un serio difetto di memoria, e invece di produrre varianti di un modello classico la testina selettrice si limitava a ripetere pedissequamente inutile versioni del modello stesso. Per un attimo pensai seriamente di telefonare alla filiale IBM di Red Beach per chiedere l'intervento di un riparatore.

Quella sera, comunque, riuscii finalmente a parlare di persona con la mia vicina.
Mi ero coricato verso le undici, e circa un'ora dopo qualcosa mi svegliò. Una fulgida luna toccava l'apogeo, navigando dietro filacce di nubi verdechiaro che gettavano una luce fioca sul deserto e Le Stelle. Uscito sulla veranda notai all'istante un bagliore curiosamente luminescente spostarsi fra le dune. Al pari della strana musica che avevo udito sgorgare dal flauto dell'autista il chiarore sembrava privo d'una origine precisa, ma immaginai fosse generato dalla luce lunare che filtrava entro un angusto varco tra le nubi.
Poi la vidi, comparsa un attimo in mezzo alle dune, passeggiare sulla sabbia di mezzanotte. Indossava una lunga veste bianca che le fluttuava dietro, sul cui sfondo la chioma turchina si librava libera nel vento come la coda a ventaglio di un uccello del paradiso. Stelle filanti le ondeggiavano tra i piedi, e sopra di lei due o tre mante purpuree volteggiavano incessantemente. Continuava a camminare apparentemente ignara della loro presenza; dietro di lei un'unica luce brillava a una finestra del piano superiore della sua villa.
Allacciandomi la cintola della vestaglia mi appoggiai a un pilastro e la osservai in silenzio, perdonandole per il momento le stelle filanti e l'autista screanzato. Di tanto in tanto scompariva dietro una duna adombrata di verde, col capo leggermente sollevato, procedendo dal viale in direzione delle scogliere di sabbia sul bordo del lago fossile.

Si trovava a un centinaio di metri dalla scogliera più vicina, una lunga galleria capovolta di argini sinuosi e grotte sospese, quando qualcosa nel percorso rettilineo e nell'andatura regolare e immutabile mi indusse a chiedermi se non potesse in realtà essere sonnambula.
Osservando le mante che le volteggiavano sul capo ebbi una breve esitazione, poi scavalcai la ringhiera e corsi sulla sabbia verso di lei.
Le scaglie di quarzo mi pungevano i piedi nudi, ma riuscii a raggiungerla proprio mentre si avvicinava al ciglio della scogliera. Rallentai il passo affiancandola e le toccai il gomito.
Meno di un metro sopra la mia testa le mante sibilavano e vorticavano nel buio. La strana luminosità che avevo creduto provenisse dalla Luna sembrava invece emanare dalla veste bianca di lei.
La mia vicina non era sonnambula come avevo pensato, bensì profondamente immersa in una fantasticheria o in un sogno. Occhi neri dallo sguardo opaco fissi innanzi, volto sottile dalla pelle candida immoto e inespressivo come una maschera di marmo. Si volse a guardarmi senza vedermi, facendomi con una mano cenno di andarmene. All'improvviso si fermò e chinò gli occhi a terra, acquisendo repentinamente coscienza di sé e della sua passeggiata notturna. Gli occhi le si schiarirono e vide la voragine della scogliera di sabbia. Indietreggiò d'istinto, mentre la luce irradiata dall'abito s'intensificava per lo sgomento.
Sopra di noi le mante s'innalzarono vertiginosamente. descrivendo archi più ampi adesso che lei era sveglia.
"Spiacente di averla spaventata" mi scusai. "Ma si stava avvicinando troppo alla scogliera."
Si ritrasse da me inarcando le lunghe sopracciglia nere.
"Come?" balbettò incerta. "Lei chi è?" Poi fra sé, quasi a completare il sogno, mormorò sommessamente: "Dio mio, Paride, scegli me, non Minerva..." S'interruppe e mi rivolse uno sguardo feroce contraendo corrucciata le labbra di carminio. Mentre le mante oscillavano come pendoli sopra di lei nell'aria cupa si allontanò quindi sulla sabbia a grandi passi portandosi via la pozza di luce ambrata.
Aspettai che giungesse alla villa e me ne andai. Guardando a terra notai luccicare qualcosa nella piccola depressione formata da una delle sue impronte. Chinatomi raccolsi una minuscola gemma, un diamante di un carato dal taglio perfetto, poi ne vidi un altro nell'orma successiva. Affrettandomi ad avanzare raccolsi una mezza dozzina di gemme, e mi apprestavo a chiamare la sua figura in procinto di scomparire allorché mi sentii in mano qualcosa di umido.
Il cavo del palmo ove avevo racchiuso i diamanti traboccava ora di gelida rugiada.

Il giorno dopo scoprii chi era.
Stavo seduto al bar dopo colazione quando vidi la El Dorado svoltare nel viale. L'autista dal piede equino balzò giù dall'auto e con quella sua curiosa andatura dondolante si diresse zoppicando all'ingresso. Nella mano inguantata di nero recava una busta rosa. Lo lasciai attendere qualche minuto, poi aprii la lettera sulla soglia mentre lui tornava in macchina e sedeva ad aspettarmi col motore acceso.

Mi spiace di essere stata così scortese ieri sera. Lei ha fatto irruzione nel mio sogno e mi ha spaventata. Potrei fare ammenda offrendole un cocktail? Il mio autista verrà a prenderla a mezzogiorno.

AURORA DAY

Guardai l'orologio. Cinque a mezzogiorno. Cinque minuti, probabilmente, per darmi il tempo di riprendermi.
L'autista scrutava il volante, apparentemente indifferente alla mia reazione. Lasciando la porta aperta entrai e indossai la giacca da spiaggia. Uscendo infilai in tasca una bozza di stampa di Onda IX.
Giusto il tempo di salire a bordo e l'autista sospinse il grosso automezzo giù per il viale.
"Quanto vi tratterrete a Vermilion Sands?" domandai, rivolto alla ghirlanda di riccioli color ruggine fra il berretto a visiera e il colletto nero.
Non rispose. Mentre percorrevamo Le Stelle si immise d'un tratto sulla corsia opposta e con uno scatto bruciante scagliò la Cadillac a tremenda velocità per sorpassare un'auto che ci precedeva. Ritrovata la calma tornai a porre la domanda e attesi inutilmente risposta, poi gli battei vivacemente sulla spalla rivestita di sargia nera.
"Ma è sordo o semplicemente maleducato?"
Distogliendo un attimo gli occhi dalla strada si voltò a guardarmi. Ebbi una fuggevole impressione di pupille rossovivo, occhi triviali che mi fissarono con un misto di disprezzo e aperta ferocia. Dall'angolo della bocca gli scaturì all'improvviso un torrente schiamazzante di violente imprecazioni, una breve raffica di oscenità che mi rispedì sul sedile.

Quando giungemmo a Studio 5 balzò fuori e mi apri lo sportello, invitandomi con un cenno a salire i gradini di marmo nero come un ragno usciere che facesse entrare una mosca piccolissima in una ragnatela particolarmente grande.
Quando ebbi varcata la soglia parve scomparire. Percorsi l'atrio garbatamente illuminato in direzione di una vasca interna ove zampillava una fontana e carpe bianche nuotavano instancabili in cerchio. Di là da essa, in soggiorno, scorsi la mia vicina distesa su una sdraio: la veste bianca le si dispiegava attorno come un ventaglio, adorna di gemme scintillanti alla luce della fontana.
Mentre sedevo mi scrutò incuriosita, posando un sottile volume rilegato in pelle di vitello gialla che aveva tutta l'aria di un libro di poesie in edizione fuori commercio. Sparpagliato sul pavimento accanto a lei giaceva un assortimento di altri volumi, in molti dei quali riconobbi raccolte e antologie stampate di recente.
Notai un po' di colorate stelle filanti sbucare fra le tende alla finestra, e guardandomi attorno per vedere dove tenesse il T mi versai un cocktail dal tavolinetto basso fra di noi.
"Legge molta poesia?" domandai indicando i volumi che l'attorniavano.
Annui. "Tutta quella che riesco a sopportare."
Risi. "La capisco. Io invece debbo sorbirmene più di quanto vorrei." Tolsi di tasca la copia di Onda IX e gliela porsi. "Le è mai capitata tra le mani?"
Diede un'occhiata al frontespizio con aria imbronciata e altezzosa. Mi chiesi perché mai si fosse presa la briga d'invitarmi. "Sì. Orrenda, vero?" Poi: "Paul Ransom" notò. "È lei? Dirige lei la rivista? Interessante."
Lo disse con un'inflessione particolare, quasi stesse decidendo come regolarsi. Per un attimo mi osservò con aria meditabonda. La sua personalità sembrava completamente dissociata, la percezione che aveva di me mutava bruscamente di livello, come variazioni luminose in un film malfatto. Tuttavia, nonostante l'impassibilità di quel volto simile a una maschera, avvertii un risveglio d'interesse.

"Bene, mi parli del suo lavoro. Deve saperla lunga su quel che non va nella poesia moderna. Come mai è tutta quanta così brutta?"
Mi strinsi nelle spalle. "Immagino che sia soprattutto un problema d'ispirazione. Anni fa ne scrissi anch'io un bel po', ma l'impulso svanì non appena potei permettermi un apparecchio VT. Onde padroneggiare il suo mezzo espressivo un poeta doveva fare non pochi sacrifici, ai vecchi tempi. Oggi che l'abilità tecnica è semplicemente questione di premere un pulsante, di scegliere metro, rime e assonanze su un quadrante, non c'è più bisogno di sacrificarsi e neppure necessità d'inventarsi un ideale che giustifichi il sacrificio..."
M'interruppi. Mi osservava con aria straordinariamente vigile, quasi come se si apprestasse a ingoiarmi.
Prendendola in contropiede dichiarai: "Ho letto anche molte delle sue poesie. Mi scusi se glielo dico, ma ritengo ci sia qualcosa che non va nel suo Versitrascrittore."
Si aggrondò di colpo e distolse irritata lo sguardo dalla mia persona. "Lungi da me il possedere una di quelle macchine abominevoli. Santo cielo, pensa forse che io ne farei uso?"
"Allora da dove vengono i nastri?" obiettai. "Le stelle filanti che ogni sera vagano nel vento. Sono ricoperte di frammenti poetici."
Non avrei potuto essere più perplesso. A quanto ricordavo, gran parte delle poesie presenti sui nastri erano state già scritte. Alzò gli occhi e mi rivolse un sorriso smagliante.
"Gliene manderò qualcuna."

Le prime giunsero la mattina successiva. Mi furono consegnate dall'autista in Cadillac rosa, nitidamente stampate su pergamena in quarto legata con nastro floreale. Quasi tutte le poesie proposte alla rivista mi giungevano per posta su nastri perforati da calcolatore arrotolati come biglietti per distributori automatici, ed era indubbiamente piacevole ricevere manoscritti tanto eleganti.
Le poesie, di contro, si rivelarono oltremodo brutte. Sei in tutto: due sonetti petrarcheschi, un'ode e tre composizioni più lunghe in versi sciolti. Tutte scritte nel medesimo tono aggressivo, minaccioso e oscuro a un tempo come i sibillini vaneggiamenti di una strega pazza. Il loro significato era nel complesso stranamente inquietante, non tanto per il contenuto in sé quanto in relazione alla mente squilibrata che le aveva ideate. Aurora Day viveva evidentemente in un mondo tutto suo e lo prendeva estremamente sul serio. Giunsi alla conclusione che si trattava di una ricca nevrotica in grado di abbandonarsi senza remore alle proprie fantasie personali.
Sfogliai le pagine, annusando l'aroma di muschio che ne esalava. Donde aveva esumato quello stile bizzarro, quei manierismi arcaici, quel 'sorgete, veggenti terreni, temprando all'ingiuria del tempo l'acciaro di voti veraci'? Mischiate ad alcune metafore si coglievano curiose eco miltoniane e virgiliane. Un tono che tutto sommato mi ricordava più che altro la sacerdotessa che nell'Eneide erompe in roventi monologhi ogni volta che Enea si siede un attimo a riposare.
Mi stavo ancora chiedendo cosa esattamente farne di quelle poesie - la mattina dopo, nove in punto, l'autista aveva consegnato una seconda mandata - quando passò Tony Sapphire per aiutarmi a comporre il nuovo numero della rivista. Trascorreva gran parte del tempo nella sua villetta sulla spiaggia a Laguna Ponente dedicandosi alla programmazione di un romanzo automatico, ma ogni settimana dedicava un giorno o due a Onda IX.
Arrivò che stavo controllando le successioni di rime interne in una raccolta di sonetti IBM di Xero Paris. Mentre sovrapponevo il diagramma di codifica ai sonetti verificando la configurazione delle rime, lui prese i rosei fogli in quarto su cui erano stampate le poesie di Aurora.
"Che profumo delizioso" commentò, sventolando i fogli in aria. "Bel sistema per ingraziarsi un direttore." Cominciò a leggere la prima poesia, poi accigliato la posò.
"Straordinaria. Sarebbero?"
"Non ne sono del tutto sicuro" ammisi. "Echi in un giardino di pietra."
Tony lesse la firma in calce ai fogli. "Aurora Day. Una nuova abbonata, immagino. Probabilmente pensa che Onda IX sia il VT Times. Ma che vuoi dire 'né salmi, né inni, né vacuo inventario per celebrare la regina della notte'?" Scosse il capo. "Allora, si può sapere che roba è?"
Gli sorrisi. Come moltissimi altri scrittori e poeti aveva passato tanto di quel tempo seduto davanti al suo apparecchio VT da dimenticare che in passato la poesia veniva realizzata a mano.
"Sono poesie... in un certo senso, ovviamente."
"Vuoi dire che le ha scritte da sé?"
Annuii. "Proprio così. Un metodo rimasto in voga per venti o trenta secoli, a dire il vero. Utilizzato da Shakespeare, Milton, Keats e Shelley... un tempo funzionava piuttosto bene."
"Ma non al giorno d'oggi" replicò Tony. "Non da quando è entrato in uso l'apparato T. Come si può competere con un elaboratore analogico logomatico IBM ad alte prestazioni? Guarda qua, santo cielo. Sembra T.S. Eliot. Non è una cosa seria."
"Forse hai ragione. Può darsi che la ragazza mi stia prendendo in giro."
"Ragazza? Probabilmente ha sessant'anni e sbevazza l'acqua di colonia. Che tristezza. Magari secondo una loro folle logica potrebbero anche significare qualcosa."
"Su, al lavoro" gli dissi. Stavo montando uno dei pastiche satirici di Rupert Brooke realizzati da Xero e mancavano sei versi. Porsi a Tony il nastro originale e lui lo inserì nell'IBM, regolò il metro, lo schema delle rime, le coppie verbali, poi accese. aspettò che il nastro spuntasse frusciando dalla testina di uscita, strappò sei versi e me li diede. Non ebbi nemmeno bisogno di leggerli.

Lavorammo sodo un paio d'ore. Al crepuscolo avevamo completato oltre mille versi e ci interrompemmo per una meritata bevuta. Uscimmo in terrazza e sedemmo nella quieta luce serotina a guardare i colori stemperarsi sul deserto, ad ascoltare le strida delle mante della sabbia nell'oscurità che avvolgeva la villa di Aurora.
"Cosa sono tutte queste stelle filanti sparse qui in giro?" domandò Tony. Ne trasse una a sé, afferrò le volute mentre gli si sfaldavano in mano e le poggiò sul piano in vetro del tavolo.
"... né inni, né vacuo inventario..." Lesse il verso, poi lasciò andare la carta velina abbandonandola ai capricci del vento.
Attraverso le dune ammantate d'ombra volse lo sguardo su Studio 5. L'unica luce come al solito accesa in una delle stanze al piano superiore illuminava i nastri che si sdipanavano sulla sabbia nel muoversi verso di noi.
Tony annui. "Dunque abita là." Raccolse un'altra stella filante che attorcigliatasi alla ringhiera gli fluttuava accanto al gomito. "Non c'è che dire, vecchio mio, sei letteralmente sotto assedio."

Proprio così. I giorni seguenti dovetti subire un incessante bombardamento di poesie ancor più oscure e bizzarre, sempre in due rate: la prima ogni mattina scodellata dall'autista alle nove in punto, la seconda alla sera quando il vento del crepuscolo cominciava a portarmi le stelle filanti. I brani di Shakespeare e Pound erano terminati, e le strisce recavano adesso frammentarie versioni delle poesie consegnate al mattino, quasi ne rappresentassero stesure provvisorie. Esaminando attentamente i nastri mi resi conto che, come affermato da Aurora Day, non erano prodotti da un apparecchio VT . Erano troppo delicati per essere transitati attraverso le bobine e le camme ad alta velocità di un meccanismo guidato dal computer, e quanto recavano scritto non risultava stampato bensì impresso con un sistema che non riuscivo a identificare.
Ogni giorno leggevo le ultime novità e le riponevo accuratamente nel cassetto centrale della scrivania. Infine, quando ebbi raccolto la produzione di una settimana, la infilai in una busta indirizzata ad 'Aurora Day, Studio 5, Le Stelle, Vermilion Sands', e vergai una cortese lettera di rifiuto in cui sostenevo che in definitiva lei si sarebbe sentita più soddisfatta se i suoi lavori fossero apparsi su un'altra delle tante riviste di poesia.
Quella notte feci il primo di una serie di sogni estremamente sgradevoli.

Preparandomi un caffè forte la mattina dopo attesi appannato che mi si schiarisse la mente. Uscii in terrazza, chiedendomi cosa fosse stato a scatenare l'incubo feroce che mi aveva tormentato tutta la notte. Erano anni che non sognavo affatto: uno degli aspetti positivi della stanchezza da spiaggia è un sonno profondo e senza sogni, e l'improvvisa irruzione di una notte prepotentemente onirica m'induceva a domandarmi se Aurora Day, e in particolare le sue pazzesche poesie, non stessero cominciando a logorarmi la mente più di quanto mi rendessi conto.
L'emicrania impiegò molto a placarsi. Rimasi disteso a osservare villa Day con le finestre chiuse, le serrande abbassate, i tendoni ripiegati, come una corolla rinserrata. Ma insomma, m'interrogavo, chi era costei, e cosa voleva veramente?
Cinque minuti dopo vidi la Cadillac uscire dal viale e percorrere Le Stelle alla mia volta.
Un'altra consegna no! Quella donna era instancabile. Attesi all'ingresso, incontrai l'autista a metà scale e ne ricevetti una busta sigillata con la ceralacca.
"Ascolti" gli dissi in tono confidenziale. "Non vorrei scoraggiare un talento emergente, ma ritengo che lei farebbe bene a esercitare tutto l'ascendente che ha sulla sua padrona e, diciamo pure, in senso lato..." Lasciando l'idea in sospeso aggiunsi: "A proposito, tutte quelle stelle filanti che continuano a svolazzare fin qui stanno diventando una grossa seccatura."
L'autista mi scrutò con quei suoi occhi volpini cerchiati di rosso, la faccia adunca contorta in un sogghigno mostruoso.
Scuotendo mestamente il capo tornò zoppicando alla macchina.
Mentre ripartiva aprii la busta. Dentro c'era un foglio solo.

Signor Ransom,
mi sorprende che lei abbia rifiutato le mie poesie. Le consiglio seriamente di tornare sui suoi passi. Non sottovaluti la situazione. Mi aspetto di vedere le poesie pubblicate sul prossimo numero.

AURORA DAY

Quella notte feci un altro sogno pazzesco.
La silloge successiva giunse che ero ancora a letto, intento a un delicato tentativo di recupero di un po' d'equilibrio psichico. Abbandonato il giaciglio mi preparai un abbondante Martini. ignorando la busta che sbucava sotto la porta come la punta di una lancia di carta.
Rimessomi in sesto l'aprii ed esaminai le tre brevi poesie ivi contenute.
Erano orrende. Mi domandai vagamente in qual modo convincere Aurora che le mancava l'indispensabile talento. Col Martini in una mano e scrutando le poesie che stringevo nell'altra uscii lentamente in terrazza e mi abbandonai su una sedia.
Schizzai su con un grugnito e il bicchiere mi sfuggi rovinosamente di mano. Mi ero seduto su qualcosa di grosso e spugnoso. le dimensioni di un cuscino ma contorni irregolari e ossuti.
Chinando lo sguardo vidi un'enorme manta della sabbia giacere morta nel bel mezzo della sedia con l'aculeo dalla punta bianca, ancora attivo, sporgente di quasi tre centimetri dalla guaina sopra la cresta cranica.
Digrignando i denti inferocito andai difilato nello studio e schiaffai le tre poesie dentro una busta con un prestampato di rifiuto su cui scarabocchiai: 'Spiacente, assolutamente inadatte. La prego di rivolgersi ad altre pubblicazioni.'
Mezz'ora dopo andai in macchina a Vermilion Sands e spedii personalmente. Al ritorno mi sentivo tranquillamente soddisfatto di me stesso.
Nel pomeriggio mi germogliò sulla guancia destra un colossale foruncolo.
Tony Sapphire e Raymond Mayo mi fecero visita la mattina seguente per condolersi. Mi ritenevano entrambi testardo e pignolo.
"Pubblicane una" mi consigliò Tony sedendosi ai piedi del letto.
"Il diavolo mi porti se lo farò" replicai. lo sguardo teso a varcare il deserto per inchiodarsi su Studio 5. Si muoveva di tanto in tanto una finestra rimandandomi un raggio di sole, ma a parte questo nessun segno della mia vicina.
Tony scrollò le spalle. "Non devi far altro che accettarne una e si accontenterà."
"Proprio sicuro?" obiettai, poco incline all'ottimismo. "Potrebbe essere solo l'inizio. Può anche darsi che abbia una decina di poemi epici in fondo alla valigia, per quel che ne sappiamo."
Raymond Mayo venne accanto a me davanti alla finestra, inforcò gli occhiali scuri ed esaminò la villa. Notai che appariva ancora più azzimato del solito, coi capelli scuri lisciati all'indietro e il profilo armonizzato per ottenere il massimo effetto.
"L'ho vista ieri sera allo psico i" disse meditabondo. "Aveva un palco privato al mezzanino. Assolutamente straordinaria. Hanno dovuto interrompere lo spettacolo due volte." Annui fra sé. "Ha qualcosa d'informe e d'inespresso che mi ricorda la 'Venere cosmogonica' di Dalí. Mi ha fatto riflettere a quanto in effetti le donne siano assolutamente terrificanti. Fossi in te farei tutto quel che mi chiede."
Irrigidii le mascelle per quanto possibile e scossi caparbio la testa. "Andatevene. Voi scrittori state sempre a disprezzare i direttori di riviste, ma quando le cose si mettono male siete i primi a calare le brache. So bene io come gestire una situazione del genere, tutta la mia preparazione e il mio autocontrollo mi suggeriscono istintivamente cosa fare. Quella pazza nevrotica sta tentando di stregarmi. Crede che basti scatenarmi addosso qualche flagello a base di incubi, mante morte e foruncoli per indurmi a rinnegare la mia coscienza."
Scuotendo tristemente il capo dinanzi a tanta ostinazione, Tony e Raymond mi lasciarono solo con me stesso.
Misteriosamente com'era comparso, due ore dopo il foruncolo s'era riassorbito. Stavo cominciando a chiedermene il motivo allorché un furgoncino scoperto della Graphis Press di Vermilion Sands mi consegnò le cinquecento copie di saggio del nuovo numero di Onda IX.
Portai le scatole in soggiorno e strappai l'involucro, pensando soddisfatto alla pretesa di Aurora Day di vedere ospitate le sue poesie su questo numero. Non si era resa conto che avendo licenziato le ultime pagine due giorni prima non avrei potuto pubblicare tali poesie nemmeno volendo.
Sfogliai sino alla pagina dell'editoriale, un'altra delle mie indagini sul malessere affliggente la poesia contemporanea. ma invece della solita mezza dozzina di paragrafi in corpo 10 quale non fu il mio sbalordimento nel trovare una sola riga in corpo 24 che proclamava in corsivo maiuscolo:

INVITO ALLA GRANDEZZA!

Trafitto, scoccai un'occhiata fulminea alla copertina per accertarmi che la Graphis mi avesse mandato le copie della rivista giusta, poi diedi una rapida scorsa alle pagine.
Riconobbi immediatamente la prima poesia. L'avevo respinta appena due giorni innanzi. Anche le successive tre le avevo già viste e rifiutate, poi una sequela che mi giungeva nuova: tutte firmate 'Aurora Day', avevano preso il posto delle poesie da me approvate in bozza impaginata.
L'intero numero era stato contraffatto! Non si era salvata neppure una delle poesie originali, e l'impaginazione risultava completamente alterata. Aprii una decina di copie. Tutte identiche.
Dieci minuti dopo avevo portato le tre scatole all'inceneritore, rovesciato il contenuto all'interno, inzuppato le copie di benzina, e gettato un fiammifero al centro della pira. Contemporaneamente, a qualche chilometro di distanza la Graphis Press stava facendo lo stesso col resto della tiratura di cinquemila copie. Non furono in grado di spiegare da dove fosse scaturito l'errore. Trovarono l'originale, interamente dattiloscritto su carta da lettere di Aurora ma con annotazioni redazionali di mio pugno! Il mio originale, invece, era scomparso, e di lì a poco negarono di averlo mai ricevuto.
Mentre le fiamme palpitavano alte nella calda luce solare, attraverso il denso fumo scuro mi parve di vedere fervere un'improvvisa attività nella casa della mia vicina. Sotto i tendoni si spalancavano le finestre, e la sagoma gobba dell'autista arrancava sulla terrazza.
Ritta sul tetto, la veste bianca ondeggiante attorno a sé come un enorme vello d'argento, Aurora Day mi guardava.

Non saprei dire se per colpa della gran quantità di Martini ingurgitata quella mattina, del foruncolo che mi aveva di recente molestato la guancia, o delle esalazioni della benzina in fiamme: fatto sta che al momento di rientrare in casa mi sentii vacillare e sedetti stordito sull'ultimo scalino, chiudendo gli occhi mentre la testa mi girava.
Dopo qualche secondo la mente tornò a schiarirsi. Poggiato com'ero alle ginocchia mi cadde lo sguardo fra i piedi sul gradino di vetro azzurro. Inciso sulla superficie a chiare lettere vidi:

Perché sì pallido ed esangue, dolce amore?
Di grazia, perché quel pallore?

Ancora troppo debole perché quell'atto di vandalismo suscitasse in me qualcosa più di un istintivo moto d'indignazione, feci lo sforzo di alzarmi e ripescai la chiave di casa nella tasca della vestaglia. Mentre l'infilavo nella serratura notai, vergato sul basamento in ottone della stessa:

Gira la chiave con destrezza nella toppa oliata.

Incise nel medesimo corsivo nitido altre iscrizioni istoriavano da cima a fondo la pannellatura in cuoio nero della porta; le linee s'intersecavano a casaccio come una decorazione a filigrana intorno a un vassoio barocco.
Chiusa la porta m'inoltrai fino in soggiorno. Le pareti sembravano più scure del solito, e mi accorsi che la loro superficie era completamente ricoperta d'innumerevoli file di parole finemente impresse, infiniti frammenti poetici dilaganti dal soffitto al pavimento.
Presi il bicchiere dal tavolo e lo portai alle labbra. La coppa d'azzurro cristallo s'epigrafava anch'essa del solito corsivo chiaro e regolare, che spiraleggiando giù per lo stelo raggiungeva la base.

Brinda a me solo con gli occhi.

Ogni cosa nel soggiorno era coperta dai medesimi frammenti: la scrivania, i lampadari e i paralumi, gli scaffali, i tasti del pianoforte a mezza coda, persino il bordo del disco sul piatto dello stereo.
Sbalordito sollevai una mano al volto e inorridii al vedere intrecciarsi sulla superficie della mia pelle migliaia di tatuaggi che guizzavano e s'attorcevano su mani e braccia come serpenti impazziti.
Lasciando cadere il bicchiere corsi allo specchio sopra il caminetto e mi vidi la faccia coperta degli stessi tatuaggi, un manoscritto vivente sul quale l'inchiostro continuava a scorrere e le lettere fluivano e mutavano come se la penna le stesse ancora tracciando.

Serpenti pezzati con lingua forcuta...
E voi ragni tessitori, via di qui.

Balzai lontano dallo specchio e mi precipitai in terrazza scivolando sulle caterve di policrome stelle filanti che il vento della sera trasportava sulla loggia, poi scavalcai con un volteggio la ringhiera e mi calai sul terreno sottostante.
Traversai la distanza fra le due ville in pochi secondi, divorai il viale che si rabbuiava raggiungendo l'ingresso principale. Mentre tendevo la mano al campanello la nera porta si aprì e varcai d'impeto la soglia piombando nell'atrio di cristallo.
Aurora Day mi attendeva sulla sdraio presso la vasca, intenta a pasturare i longevi pesci bianchi che si raccoglievano vicino a lei. Avvicinandomi la vidi sorridere tranquillamente agli animali e bisbigliare loro.
"Aurora!" esclamai. "Per amor del cielo, mi arrendo! Prendi tutto quel che vuoi, tutto, ma lasciami in pace!"
Per qualche istante mi ignorò continuando senza scomporsi a nutrire i pesci. All'improvviso un pensiero spaventoso mi traversò la mente. Le enormi carpe bianche che si accalcavano adesso alle sue dita erano state un tempo suoi amanti?

Sedevamo assieme nel crepuscolo luminescente. mentre le lunghe ombre si trastullavano col paesaggio violaceo della 'Persistenza della memoria' di Dalí sulla parete alle spalle di Aurora e i pesci nuotavano lenti in cerchio nella fontana accanto a noi.
Lei aveva dettato le sue condizioni: nientemeno che il completo controllo della rivista, libertà di imporre la propria linea, di scegliere il materiale secondo i suoi criteri. Nulla sarebbe andato in stampa senza la sua previa approvazione
"Non preoccuparti" mi aveva detto dolcemente. "Il nostro accordo varrà per un numero solo." Sorprendentemente non aveva intenzione di pubblicare le proprie poesie: il numero contraffatto era stato un mero espediente per indurmi alla resa.
"Pensi che un solo numero basterà?" domandai, chiedendomi che intenzioni avesse in realtà.
Levò pigramente lo sguardo su di me, arabescando la liquida superficie della vasca con un dito dall'unghia laccata di verde. "Dipende tutto da te e dai tuoi amici. Quando vi deciderete a rinsavire e a ritornare poeti?"
Osservavo i disegni tracciati dal dito nella vasca. In virtù di chissà quale miracolo rimanevano incisi sull'acqua.
Nelle ore, lunghe come millenni, che eravamo rimasti seduti assieme, mi sembrava di averle raccontato tutto di me, senza tuttavia apprendere quasi nulla di lei. Soltanto una cosa era chiara: la sua fissazione per l'arte poetica, del cui attuale declino si riteneva, chissà perché, personalmente responsabile, sebbene l'unico rimedio da lei proposto apparisse del tutto retrogrado.
"Devi venire a conoscere i miei amici della comunità" proposi.
"Ci verrò" promise. "Spero di poterli aiutare. Hanno tutti tanto da imparare."
Quell'affermazione mi indusse al sorriso. "In ciò li troverai tutt'altro che bendisposti, temo. Si considerano in gran parte raffinati specialisti. Per loro la ricerca del sonetto perfetto si è conclusa da anni. Il computer non produce altro."
"Non sono poeti ma semplici meccanici" replicò Aurora sprezzante. "Guarda queste raccolte di cosiddetti versi. Tre poesie e sessanta pagine di istruzioni per l'uso. Nient'altro che voltaggi e amperaggi. Quando dico che hanno tutto da imparare intendo a proposito del loro cuore, non su questioni tecniche; mi riferisco all'anima del verso, non alla sua forma."
S'interruppe per sgranchirsi, e il suo corpo stupendo si snodò come un pitone. Poi si protese e infervorandosi disse: "Se al giorno d'oggi la poesia è morta non è per colpa di queste macchine, ma perché i poeti non cercano più la vera ispirazione."
"Che sarebbe?"
Aurora scosse il capo mestamente. "Ti consideri un poeta e me lo chiedi?"
Chinò sulla vasca uno sguardo apatico. Le traversò per un attimo il volto un'espressione di estrema tristezza, e compresi che doveva provare un senso profondo di colpa o di inadeguatezza, come se una sua pecca fosse davvero responsabile dell'attuale malessere. Forse era tale senso di inadeguatezza che mi consentiva di non avere paura di lei.
"Hai mai sentito parlare della leggenda di Melandria e Coridone?" mi domandò.
"Vagamente" risposi, frugando nei ricordi. "Melandria era la musa della poesia, se la memoria non m'inganna. E Coridone non era un poeta di corte che si uccise per lei?"
"Bene" approvò Aurora. "Non sei completamente incolto, dopotutto. Esatto, i poeti di corte scoprirono di aver perso l'ispirazione e si accorsero che le loro dame li disdegnavano preferendo la compagnia dei cavalieri. Si rivolsero quindi a Melandria, la musa, la quale rivelò di averli colpiti con quel sortilegio perché davano per scontata la loro arte dimenticando da quale fonte in realtà scaturisse. Quelli, si capisce, affermarono solennemente - sfacciata menzogna - di pensare sempre a lei, ma la musa rifiutò di crederci e dichiarò che non avrebbero riacquistato l'ispirazione fin quando uno di loro non avesse sacrificato la vita per lei. Ovviamente nessuno era disposto a farlo, a eccezione di un giovane poeta di gran talento chiamato Coridone, che amava la dea ed era l'unico ad aver serbato la sua creatività. Per il bene degli altri poeti egli dunque si uccise..."
"... con sempiterno dolore di Melandria" conclusi io. "La musa non si aspettava che lui desse la vita per l'arte. Un bel mito" ammisi. "Ma temo che qui non troverai alcun Coridone."
"Chissà" disse Aurora in un sussurro. Agitò l'acqua nella vasca, e la superficie increspata proiettò un'ondulazione luminosa sulle pareti e sul soffitto. Vidi allora che tutt'intorno alla stanza correva una lunga serie di fregi raffiguranti proprio la leggenda narrata da Aurora. Il primo pannello, in fondo alla mia sinistra, mostrava poeti e trovatori adunati attorno alla dea, un'alta figura biancovestita il cui volto somigliava notevolmente a quello di Aurora. Seguendo la vicenda sui pannelli successivi mi accorsi che la somiglianza si faceva ancora più spiccata, e immaginai che Aurora avesse posato per l'artista nelle vesti di Melandria. Non poteva darsi che si fosse in qualche modo identificata con la dea del mito? Nel qual caso, chi era il suo Coridone? Forse l'artista stesso. Cercai sui pannelli il poeta suicida, un giovane snello dalla folta capigliatura bionda che non riuscii a identificare, sebbene il suo viso mi fosse leggermente familiare. Comunque, dietro i personaggi principali, riconobbi senz'altro in tutte le scene l'autista dalla faccia di fauno, raffigurato qui con zampe d'asino e rustica siringa a impersonare nientemeno che il fedele Pan.
Avevo quasi individuato un'altra somiglianza tra le figure dei fregi allorché Aurora si accorse che stavo esaminando i pannelli. Smise di agitare l'acqua. Cessando le increspature, i pannelli ripiombarono nel buio. Per qualche secondo Aurora mi fissò come se avesse dimenticato chi ero, taciturna e immusonita quasi che raccontare il mito avesse evocato personali ricordi di dolore e stanchezza. Contemporaneamente l'atrio e il portico a vetri parvero divenire oscuri e tetri riflettendo l'incupirsi del suo umore: a tal punto dominante era la sua presenza che l'aria stessa impallidiva di concerto con lei. Sentii ancora una volta che il suo mondo, nel quale ero entrato, si componeva completamente di illusioni.

Aurora dormiva. Attorno a lei la stanza era quasi al buio. Le luci della vasca erano svanite, le colonne di cristallo che avevano sfavillato intorno a noi gravavano fosche e spente come tronchi di vetro opaco. L'unica luce proveniva dal gioiello simile a un fiore che le riposava tra i placidi seni.
Mi alzai, mi avvicinai a lei in silenzio, chinai lo sguardo su quel volto strano dalla pelle levigata e grigia, sembrava la sposa di un faraone immersa in un sogno di basalto. Non lontano, sulla porta, notai la sagoma gibbosa dell'autista. La visiera del berretto gli celava il volto, ma due occhi vigili erano fissi su di me come piccoli tizzoni.
Quando uscimmo centinaia di mante addormentate costellavano il deserto inondato di luna. Camminammo fra loro per raggiungere la Cadillac e ci allontanammo in silenzio.
Una volta alla villa mi diressi immediatamente allo studio, pronto a mettermi al lavoro per comporre il numero successivo.
Strada facendo avevo rapidamente deciso i principali spunti tematici e le immagini chiave da inserire negli apparecchi T. Programmandoli tutti sul massimo d'iterazione, entro ventiquattr'ore avrei avuto un in folio di trasognati, sfrenati ditirambi che avrebbero sbalordito Aurora Day con la loro profonda schiettezza e genuina ispirazione.
Entrando nello studio inciampai in qualcosa di appuntito. Chinatomi al buio trovai una dilaniata scheda elettronica incastrata nel pavimento di cuoio bianco.
Accesa poi la luce vidi che qualcuno aveva fracassato i tre apparecchi T riducendoli con violenza selvaggia a un contorto guazzabuglio.
La mia attrezzatura non era stata l'unico bersaglio. La mattina dopo, mentre sedevo alla scrivania contemplando i tre elaboratori distrutti, squillò il telefono per recarmi notizia che analoga devastazione s'era abbattuta da un capo all'altro delle Stelle. L'IBM da 50 watt di Tony Sapphire era stato fatto a pezzi, e dei quattro nuovi Philco Versomatic di Raymond Mayo non restavano che rottami impossibili da riparare. Venni insomma a sapere che non un solo apparato T era rimasto intatto. La sera prima, fra le sei e mezzanotte, qualcuno aveva velocemente percorso Le Stelle penetrando in studi e appartamenti per annientare con implacabile determinazione l'intero parco T.
Non mi fu difficile attribuire la responsabilità di quello scempio. Di ritorno dalla villa di Aurora, scendendo dalla Cadillac avevo notato, sul sedile accanto all'autista, due pesanti chiavi inglesi. Decisi tuttavia di non avvertire la polizia e di non sporgere denuncia. Tanto per cominciare il problema di riempire Onda IX appariva adesso pressoché insolubile. Quando telefonai alla Graphis Press scoprii, ma più o meno me l'aspettavo, che il materiale di Aurora era andato misteriosamente smarrito.
Arduo dilemma: cosa mettere in quel numero? Non potevo permettermi di saltarlo, perché i miei abbonati si sarebbero dileguati come fantasmi.
Telefonai ad Aurora e le esposi a chiare lettere la situazione.
"Dobbiamo tornare in stampa entro una settimana, altrimenti il nostro contratto scade e non ne otterrò mai un altro. E se dovessi rimborsare un anno di abbonamenti anticipati andrei fallito. Dobbiamo semplicemente trovare un po' di materiale. In qualità di nuovo direttore editoriale hai qualche suggerimento?"
Aurora ridacchiò. "Pensi forse che possa chissà come rimettere in sesto quelle macchine sfasciate?"
"Sarebbe un'idea" convenni, facendo un cenno di saluto a Tony Sapphire appena entrato. "Temo altrimenti che risulterà impossibile procurarsi del materiale."
"Proprio non ti capisco" replicò Aurora. "C'è di sicuro un modo semplicissimo."
"Davvero? E quale?"
"Scrivetelo da voi!"
Prima che potessi protestare si abbandonò a uno scroscio di risa. "Mi risulta che a Vermilion Sands esistono circa ventitré gagliardi versificatori e cosiddetti poeti..." (esattamente il numero di luoghi violati la sera prima) "... be', vediamo un po' se qualcuno di loro li sa scrivere davvero, questi versi."
"Aurora!" insorsi. "Non puoi dire sul serio. Ascolta, per amor del cielo, qui non stiamo scherzando..."

Ma aveva riabbassato. Mi girai verso Tony Sapphire, poi sedetti affranto a rimirare una bobina intatta recuperata da uno degli apparecchi. "A quanto pare sono spacciato. L'hai sentita? Scrivetelo da voi!..."
"Quella è matta" fu d'accordo Tony.
"Tutta colpa della sua tragica ossessione" spiegai abbassando la voce. "E davvero convinta di essere la musa della poesia, tornata sulla Terra per restituire l'ispirazione alla languente razza dei poeti. Ieri sera mi ha parlato del mito di Melandria e Coridone. Credo stia davvero aspettando che un giovane poeta sacrifichi la vita per lei."
Tony annui. "Comunque non ha capito nulla. Cinquant'anni fa c'era ancora qualcuno che scriveva poesie, ma nessuno le leggeva. Oggi non c'è nemmeno più qualcuno che le scriva. L'apparecchio T non fa altro che semplificare il processo."
Ero d'accordo con lui, anche se Tony ovviamente parlava un po' per partito preso, essendo una di quelle persone convinte che la letteratura, in fondo, non si possa né leggere né scrivere. Il romanzo automatico che stava "scrivendo" era lungo oltre dieci milioni di parole, e ambiva ad ascriversi al novero di quelle gigantesche opere paradossali che torreggiano sulle vie maestre della storia della letteratura terrorizzando l'incauto viandante. Malauguratamente non si era mai preso la briga di farlo stampare, e il cilindro mnemonico recante la codifica elettronica era andato in malora nel pogrom della sera precedente.
Io ero altrettanto irritato. Uno dei miei apparati T era costantemente impegnato nel produrre una traslitterazione dell'Ulisse di James Joyce secondo un'ambientazione greca classica, un piacevole esercizio accademico che avrebbe offerto una verifica oggettiva del capolavoro di Joyce secondo il grado di esattezza con cui la traslitterazione avrebbe corrisposto all'Odissea originale. Distrutto anche quello.
Scrutammo Studio 5 nella fulgida luce mattutina. La Cadillac rosso ciliegia era scomparsa chissà dove: era quindi probabile che Aurora stesse scorrazzando per Vermilion Sands davanti agli occhi attoniti dei sempre numerosissimi avventori dei caffè.
Presi il telefono installato in terrazza e sedetti sulla ringhiera.
"Immagino tanto valga chiamare tutti e sentire un po' cosa possono fare."
Composi il primo numero.
Raymond Mayo disse: "Scrivere qualche poesia da me? Paul, tu sei matto."
Xero Paris disse: "Da me? Come no, Paul, coi piedi." Fairchild de Mille disse: "Sarebbe piuttosto chic, però..."
Kurt Butterworth disse stizzito: "Tu ci hai mai provato? Come si fa?"
Marlene McClintic disse: "Caro, non oserei. Potrebbe svilupparmi i muscoli sbagliati o roba del genere."
Sigismud Lutitsch disse: "No, no. Siggy adesso in nuova zona. Scultura elettronica, plasma in collisioni supercosmiche. Ascolta..."
Robin Saunders, Macmillan Freebody e Angel Petit dissero: "No."

Tony mi portò da bere e io continuai senza tregua a saggiare l'elenco. "Niente da fare" esclamai alla fine. "Nessuno scrive più versi, parliamoci chiaro. Neanche tu, nemmeno io."
Tony indicò il taccuino. "C'è ancora un nome... tanto vale far piazza pulita prima di partire per Red Beach."
"Tristram Caldwell" lessi. "Quel giovanotto timido col fisico da calciatore. Il T non gli ha mai funzionato bene. Ma si, già che ci siamo proviamo anche con lui."
Rispose sommessa al telefono una ragazza dalla voce dolcissima.
"Tristram?" flautò. "Be', si. Credo che ci sia."
Si udì rumor di zuffa sopra un letto e il telefono cadde più volte a terra, poi Caldwell rispose.
"Ciao, Ransom, qual buon vento?"
"Tristram" dissi "immagino che ieri sera sia toccata pure a te la visitina a sorpresa. O non te ne sei accorto? In che condizioni è il tuo T?"
"Il VT?" ripeté lui. "È a posto, nessun problema."
"Cosa?" gridai. "Vuoi dire che il tuo non ha subito danni? Tristram, fai mente locale e stammi bene a sentire." Gli spiegai in fretta il nostro problema, ma Tristram d'un tratto scoppiò a ridere.
"Be', ma questa è proprio buffa, non credi? Da sbellicarsi. Secondo me quella donna ha ragione. Torniamo ai vecchi sistemi..."
"Lascia perdere i vecchi sistemi" replicai seccato. "M'interessa soltanto mettere insieme un po' di materiale per il prossimo numero. Se il tuo apparecchio funziona siamo salvi."
"Be, ecco, aspetta un momento, Paul. Ultimamente sono stato un po' preso e non ho avuto occasione di controllare l'apparecchio."
Attesi in linea mentre lui si allontanava. Dal suono dei suoi passi e da un richiamo impaziente della ragazza, al quale egli rispose da lontano, mi parve che fosse uscito in cortile. Da qualche parte si spalancò rumorosamente una porta e vi fu un vago rovistare. Strano posto per tenerci un apparecchio VT, pensai. Poi si udì un sonoro martellare.
Finalmente Tristram tornò al telefono. "Mi spiace. Paul, ma quella donna a quanto pare è passata anche da queste parti. L'apparecchio è ridotto a un rottame." Tacque un momento mentre io imprecavo fra me, poi soggiunse: "Senti, comunque, quella dice sul serio riguardo al materiale fatto a mano? E per questo che hai chiamato, no?"
"Certo" risposi. "Credimi, sono disposto a stampare qualunque cosa. Previo assenso di Aurora, beninteso. Ce l'hai un po' di vecchio materiale pronta consegna?"
Tristram ridacchiò. "Paul, sai che ti dico? Credo proprio di sì. Non speravo più di vederlo pubblicato, ma ora sono contento di averlo conservato. Senti, lo riordino un po' e te lo faccio avere domattina. Qualche sonetto, un paio di ballate, dovresti trovarlo interessante."
Poco ma sicuro. Il mattino seguente, cinque minuti dopo avere aperto il pacchetto, ebbi la certezza che stava cercando d'imbrogliarci.
"Niente di nuovo sotto il sole" spiegai a Tony. "Quell'Adone furbacchione. Guarda queste assonanze, queste rime piane, la cesura mobile... il marchio inconfondibile di Caldwell, nastri logori nei circuiti rettificatori e un condensatore difettoso. La sua produzione sono anni che mi tocca limarla e risistemarla. Evidentemente quel suo macinino funziona ancora."
"Che intendi fare?" domandò Tony. "Lui negherà." "Ovviamente. Comunque è materiale utilizzabile. Chi se ne frega se sarà un numero tutto targato Tristram Caldwell..."
Avevo cominciato a infilare i fogli in una busta per portarli ad Aurora quando mi venne un'idea.
"Tony, ho appena avuto uno dei miei lampi di genio. Il modo perfetto per curare quella strega dalla sua fissazione e gustare al tempo stesso il dolce sapore della vendetta. Supponiamo di stare al gioco di Tristram e diciamo ad Aurora che queste poesie le ha scritte lui di suo pugno. Ha uno stile assolutamente antiquato. e quanto a soggetti, Aurora non potrebbe chiedere di meglio... senti qua: 'Omaggio a Clio', `Minerva 23F, Il silenzio si addice a Elettra'. Lei darà il suo assenso, noi stamperemo in settimana e poi... la sorpresa!, riveleremo che queste poesie a prima vista sgorgate dal petto veemente di Tristram Caldwell altro non sono che un centone di stereotipate trascrizioni sfornate da un malconcio apparecchio T, vaneggiamenti automatici della peggior specie."
Tony lanciò un grido di giubilo. "Formidabile! Quella se ne ricorderà finché campa. Ma credi che ci cascherà?"
"Perché no? Renditi conto che lei si aspetta veramente che noi ci mettiamo tutti lì d'impegno a partorire una serie di raffinate esercitazioni su classici temi tipo 'Giorno e notte', 'Estate e inverno' e via dicendo. Dal momento che soltanto Caldwell produrrà qualcosa, lei sarà felicissima di concedergli il suo imprimatur. Ricorda, il nostro accordo riguarda esclusivamente questo numero e la responsabilità è tutta sua. Dovrà pur trovare del materiale da qualche parte."

Mettemmo dunque in atto il nostro piano. Tutto il pomeriggio assillai Tristram dicendogli che Aurora aveva immensamente apprezzato la prima consegna e attendeva con ansia nuove poesie. Il giorno dopo arrivò puntualmente la seconda mandata: tutto materiale, per fortuna, scritto a mano, benché stranamente sbiadito per essere uscito il giorno prima dal suo apparecchio T. Qualunque cosa servisse a rafforzare l'illusione, comunque, mi giungeva gradita. Aurora era sempre più soddisfatta, e sembrava non nutrire alcun sospetto. Pur avanzando qui e là qualche piccola critica, pretese che nulla venisse alterato o riscritto.
"Ma noi riscriviamo sempre, Aurora" le dissi. "Non ci si può aspettare un assortimento infallibile di immagini. Il numero dei sinonimi è smisuratamente grande." Temendo di essermi spinto troppo oltre mi affrettai ad aggiungere: "Che l'autore sia umano o robotico non importa, il principio è lo stesso."
"Davvero?" replicò Aurora maliziosa. "Credo comunque che lasceremo queste poesie esattamente come le ha scritte il signor Caldwell."
Non mi presi la briga di farle notare l'irrimediabile fallacia del suo atteggiamento; limitandomi a ritirare i manoscritti siglati tornai di fretta a casa. Seduto alla mia scrivania, attaccato al telefono, Tony torchiava Tristram per avere altro materiale.
Tappò con una mano il microfono e mi rivolse un cenno. "Fa il modesto, probabilmente cerca di alzare il prezzo a due centesimi al migliaio. Sostiene di essere a corto di materiale. Vale la pena di fargli scoprire le carte?"
Scossi il capo. "Troppo pericoloso. Se Aurora capisse che siamo coinvolti nell'imbroglio sarebbe capace di tutto. Lascia che gli parli io." Presi il telefono. "Che succede, Tristram? La produzione è in ribasso. Ci serve altro materiale, ragazzo mio. Accorcia i versi, perché sprecare nastri con tutti quegli alessandrini?"
"Ransom, di che diavolo parli? Sono un poeta. mica una dannata fabbrica, scrivo quando ho qualcosa da dire e nell'unico modo appropriato per dirlo."
"Va bene, va bene," replicai "ma ho cinquanta pagine da riempire e solo pochi giorni per farlo. Me ne hai date circa dieci, quindi devi mantenere il ritmo. Oggi cos'hai prodotto?"
"Be', sto lavorando a un nuovo sonetto con dentro delle cosine graziose... dedicato ad Aurora, in effetti."
"Splendido" gli dissi "ma attento con quei selettori lessicali. Ricorda la regola aurea: la frase ideale contiene una sola parola. E poi che altro?"
"Che altro? Niente. Questo probabilmente mi richiederà tutta la settimana, forse tutto l'anno."
Per poco non mi andò di traverso il telefono. "Tristram, si può sapere che succede? Santo cielo, non hai pagato la bolletta della corrente o che? Ti hanno staccato i fili?"
Prima che riuscissi a scoprirlo lui comunque riattaccò.
"Un sonetto al giorno" dissi a Tony. "Buon Dio, deve averlo messo in manuale. Razza d'imbecille, non si rende mica conto di quanto siano complicati quei circuiti!"

Tenemmo duro e aspettammo. La mattina dopo neanche un verso, e così pure la mattina successiva. Fortunatamente, però. Aurora non rimase affatto sorpresa; anzi, semmai era soddisfatta che il ritmo produttivo di Tristram stesse rallentando.
"Una poesia" mi disse "è quanto di più vicino a un'enunciazione completa. Non occorre dire altro, un intervallo d'eternità si chiude per sempre."
Pensierosa, raddrizzò i petali di un giacinto. "Forse ha bisogno di un piccolo incoraggiamento" decise.
Capii che desiderava conoscerlo.
"Perché non lo inviti qui a cena?" suggerii.
Lei s'illuminò immediatamente. "Ottima idea." Prese il telefono e me lo porse.
Mentre componevo il numero di Tristram provai un'improvvisa fitta d'invidia e delusione. Intorno a me i fregi narravano la favola di Melandria e Condone, ma ero troppo preoccupato per prevedere la tragedia che si sarebbe consumata la settimana successiva.

Nei giorni che seguirono Tristram e Aurora stettero sempre insieme. Accompagnati dall'autista al volante dell'enorme Cadillac, la mattina si recavano in genere ai set cinematografici di Laguna Ponente. La sera, mentre sedevo da solo in terrazza osservando le luci di Studio 5 brillare nella calda oscurità, udivo giungermi valicando la sabbia frammenti delle loro voci, fievoli suoni d'una musica cristallina.
Mi piacerebbe pensare che la loro relazione mi irritasse, ma in tutta franchezza, superata la delusione iniziale me ne importava ben poco. La stanchezza da spiaggia di cui soffrivo ottundeva insidiosamente i sensi, smorzando in egual modo disperazione e speranza.
Quando, tre giorni dopo il loro primo incontro, Aurora e Tristram proposero di andarcene tutti a pesca di mante a Laguna Ponente, accettai volentieri, ansioso di osservare più da vicino la loro tresca.

Mentre ci avviavamo lungo Le Stelle niente lasciava presagire quanto sarebbe accaduto. Tristram e Aurora viaggiavano sulla Cadillac insieme a Tony Sapphire, mentre Raymond Mayo e io stavamo alla retroguardia nella Chevrolet di Tony. Li vedevamo attraverso il lunotto azzurro della Cadillac; Tristram leggeva il sonetto ad Aurora or ora ultimato. Quando smontammo dalle auto a Laguna Ponente e avanzammo verso i vecchi scenari astratti presso le scogliere di sabbia, loro due camminarono mano nella mano. In scarpe e abito bianchi da spiaggia Tristram sembrava proprio un damerino edoardiano a una gita in barca.
L'autista portava i panieri da picnic, Raymond Mayo e Tony i fucili lanciarpione e le reti. Sulle scogliere sottostanti si vedevano mante annidate a migliaia, schiere innumerevoli di corpi resi lucidi dal letargo di bassa stagione.
Dopo che ci fummo sistemati sotto i teloni, Raymond e Tristram decisero il da farsi, poi riunirono il gruppo. Disposti in fila cominciammo a scendere lungo una scogliera, Aurora al braccio di Tristram.
"Mai stato a pesca di mante?" mi domandò Tristram mentre entravamo in una delle gallerie inferiori.
"Mai" risposi. "Stavolta resterò a guardare. Ho saputo che sei un esperto."
"Be', con un po' di fortuna non ci lascerò la pelle." Indicò le mante aggrappate alle cornici sopra di noi, che al nostro approssimarsi spiccavano il volo volteggiando in cielo, fischiando e stridendo. Nella luce fioca le punte bianche degli aculei si flettevano entro le guaine. "A meno che non siano veramente spaventate si terranno alla larga" ci disse. "L'abilità consiste nell'evitare che si spaventino, sceglierne una e accostarsi tanto lentamente che quella resti ferma a guardarti finché non sei abbastanza vicino da colpirla."
Raymond Mayo aveva individuato una grossa manta purpurea acquattata in una stretta fenditura circa dieci metri alla nostra destra. Le si appressò in silenzio osservando l'aculeo sporgere dalla guaina e agitarsi minaccioso, sostando quel tanto che bastava perché si ritraesse, cullando l'animale con un sommesso suono mormorante. Infine, giunto a circa un metro e mezzo, sollevò l'arma e prese accuratamente la mira.
"Sembra una cosa da niente" sussurrò Tristram ad Aurora e a me "ma in effetti al momento è completamente in balla della manta. Se l'animale decidesse di attaccare, lui non potrebbe difendersi." In quel mentre il dardo eruppe dal fucile e colpi la manta sulla cresta dorsale, stordendola all'istante. Avvicinatosi senza esitare Raymond la raccolse nella rete, dove la preda si riebbe entro pochi secondi e dimenò impotente le nere ali triangolari per poi giacere inerte.
Avanzammo per canali e gallerie, col cielo ridotto a un angusto varco sinuoso sopra di noi, seguendo i tortuosi sentieri che scendevano verso la base della scogliera. Ogni tanto le mante che s'innalzavano volteggiando sul nostro cammino sfioravano la concrezione e cascatelle di sabbia fine ci inondavano. Raymond e Tristram colpirono diverse altre mante, lasciando all'autista il compito di portare le reti. Pian piano il nostro gruppo si divise in due: Tony e Raymond scelsero un percorso insieme all'autista, mentre io rimasi con Aurora e Tristram.
Mentre procedevamo notai che il viso di Aurora si era fatto più teso, i suoi movimenti leggermente pia guardinghi e controllati. Avevo l'impressione che osservasse Tristram attentamente, lanciandogli occhiate in tralice mentre gli teneva il braccio.
Entrammo nel fornice terminale della scogliera, un profonda sala che ricordava una cattedrale e da cui si dipartivano un gran numero di gallerie, spiraleggianti verso la superficie come le braccia di una galassia. Nell'oscurità circostante migliaia di mante penzolavano immobili, con gli aculei fosforescenti che si flettevano e si ritraevano come stelle ammiccanti.

A una sessantina di metri da noi, in fondo alla sala, Raymond Mayo e l'autista emersero da una galleria. Si fermarono qualche istante in attesa. D'un tratto udii Tony gridare. Raymond lasciò cadere il lanciarpione e scomparve nella galleria.
Mi scusai e traversai di corsa la sala. Li trovai nello stretto corridoio intenti a scrutare nelle tenebre.
"Ti dico di si" stava insistendo Tony. "Ho sentito cantare quella bestiaccia."
"Impossibile" replicò Raymond. Discussero un po', quindi abbandonarono la ricerca della fantomatica manta canterina ed entrarono nella sala. Mentre riprendevamo il cammino mi parve di vedere l'autista rimettersi qualcosa in tasca. Con la faccia adunca e gli occhi folli, la figura gibbosa oberata di reti piene di mante che si contorcevano, sembrava uscito da un quadro di Hieronymus Bosch.
Scambiate poche parole con Raymond e Tony mi girai per tornare dagli altri, ma avevano lasciato la sala. Chiedendomi quale galleria avessero preso percorsi alcuni metri entro l'imboccatura di ciascuna, e finalmente li vidi su una delle rampe che s'inarcavano sopra di me.
Stavo per tornare sui miei passi e raggiungerli quando intravidi il profilo di Aurora e colsi di nuovo quell'espressione vigile e risoluta. Cambiando idea mi avviai silenziosamente, col fruscio della sabbia cadente a mascherare i miei passi, lungo la spirale proprio sotto di loro, senza perderli di vista nei varchi fra le colonne incombenti.
Trovandomi a un certo punto a pochi metri da loro udii Aurora dire distintamente: "Non c'è una teoria secondo cui si possono catturare le mante col canto?"
"Ipnotizzandole?" domandò Tristram. "Proviamo."
Si allontanarono, e la voce di Aurora risuonò sommessa, in tono cupo e cantilenante. Poco a poco quel suono crebbe, echeggiando e riecheggiando in alto fra le volte, e le mante si agitarono nell'oscurità.
Man mano che ci avvicinavamo alla superficie il loro numero aumentava. A un certo punto Aurora si fermò e guidò Tristram verso un esiguo spiazzo pieno di sole, cinto da pareti alte trenta metri aperte verso il cielo.
Avendoli persi di vista tornai nella galleria e risalii il pendio interno fino al livello successivo, dal quale poi raggiunsi la piattaforma superiore. Mi accostai al margine della galleria, donde potevo adesso agevolmente osservare lo spiazzo sottostante. Mi ero intanto accorto che un rumore strano e penetrante, inespressivo e onnipervasivo a un tempo, riempiva l'intera scogliera, simile ai suoni acuti percepiti dagli epilettici prima di un attacco. Giù nello spiazzo Tristram, la testa stretta fra le mani, scrutava le pareti cercando di identificare la fonte del rumore. Aveva distolto lo sguardo da Aurora, che ritta dietro di lui teneva le braccia abbandonate immobili lungo i fianchi con i palmi leggermente sollevati, come una medium in trance.
Stavo lì a osservarla affascinato in quell'atteggiamento singolare quando venni bruscamente distratto da uno stridio atterrito proveniente dai livelli inferiori della scogliera. Lo accompagnava un confuso pergamenaceo sbatter d'ali, e quasi immediatamente un nugolo di mante scaturì a volo dalle gallerie sottostanti nel frenetico tentativo di fuggire dalla scogliera.
Mentre irrompevano nello spiazzo, volando basse sulla testa di Tristram e Aurora, parvero smarrire il senso dell'orientamento, e in un attimo lo slargo fu stracolmo di una moltitudine di mante roteanti che svolazzavano senza meta.
Urlando di terrore per le mante che le sfrecciavano davanti al viso, Aurora usci dalla trance. Tristram si era tolto il cappello di paglia e le percuoteva furiosamente, facendo scudo ad Aurora con l'altro braccio. Indietreggiarono assieme in direzione di un'angusta fenditura nella parete posteriore dello spiazzo, che offriva una via di fuga verso le gallerie interne. Facendo scorrere lo sguardo al ciglio della rupe sovrastante fui sorpreso di scorgere la tarchiata sagoma dell'autista che liberatosi di reti ed equipaggiamento osservava la coppia in basso.
Ormai le centinaia di mante che si accalcavano nello spiazzo quasi sottraevano alla vista Tristram e Aurora. Lei ricomparve dalla fenditura scuotendo disperatamente il capo. La via di fuga era sbarrata! Tristram le fece immediatamente cenno d'inginocchiarsi, poi balzò in mezzo allo spiazzo, schiaffeggiando selvaggiamente le mante col cappello nel tentativo di allontanarle da Aurora.
Per qualche secondo vi riuscì. Come un nugolo di giganteschi calabroni le mante rotearono via disordinatamente. Poi, inorridito, le vidi ridiscendere su di lui. Prima che potessi gridare Tristram era caduto. Le mante si avventarono e volteggiarono sul suo corpo disteso, quindi turbinarono via librandosi alte in cielo, evidentemente libere dal vortice.
Tristram giaceva bocconi, i biondi capelli sparsi sulla sabbia, le braccia scompostamente contorte. Fissai il suo corpo, sbalordito dalla subitaneità della sua morte, poi volsi lo sguardo su Aurora.
Anche lei osservava il corpo, ma con una espressione che non manifestava né pietà né onore. Raccogliendo la gonna in una mano si girò e sgusciò via attraverso la fenditura...
La via di fuga era libera, dunque! Stupefatto, compresi che Aurora aveva intenzionalmente fatto credere a Tristram il contrario, costringendolo in pratica ad attaccare le mante.
Un minuto dopo emerse dall'imboccatura della galleria soprastante. Gettò un breve sguardo sullo spiazzo, l'autista in divisa nera a fianco, scrutando il corpo immobile di Tristram. Poi si allontanarono in fretta.
Precipitandomi al loro inseguimento presi a urlare con quanto fiato avevo nella speranza di far accorrere Tony e Raymond Mayo. Pervenni all'imboccatura della scogliera che la mia voce rimbombava ed echeggiava ancora nelle gallerie sottostanti. A un centinaio di metri Aurora e l'autista stavano salendo sulla Cadillac. L'auto sfrecciò via ruggendo fra gli scenari, sollevando nubi di polvere a offuscare i giganteschi disegni astratti.
Corsi verso la macchina di Tony. Quando vi giunsi la Cadillac, già in vantaggio di quasi un chilometro, fiammeggiava attraverso il deserto come un drago fuggiasco.

Quella fu l'ultima volta che vidi Aurora Day. Riuscii a tallonarli fino all'autostrada per Laguna Ponente, ma là, complice la strada a scorrimento veloce, la potente vettura mi distanziò inesorabilmente, e quindici chilometri più avanti, quando raggiunsi Laguna Ponente, li avevo completamente persi. A una stazione di servizio, dove l'autostrada si biforca per Vermilion Sands e Red Beach, chiesi se qualcuno avesse visto passare una Cadillac rosso ciliegia. Due benzinai giurarono di averne vista una diretta in senso opposto, ma immagino che la magia di Aurora gli avesse confuso le idee.
Decisi di provare alla loro villa e tornato indietro uscii al bivio per Vermilion Sands, maledicendomi per non aver previsto l'accaduto. lo, preteso poeta, non ero stato capace di prendere sul serio i sogni di un altro poeta. Aurora aveva preconizzato la morte di Tristram in modo esplicito.

Studio 5, Le Stelle, era silenzioso e vuoto. Le mante avevano abbandonato il viale, la porta di vetro nero era spalancata e i resti di qualche stella filante indugiavano nella polvere che si ammucchiava sul pavimento. Atrio e soggiorno erano immersi nell'oscurità, e soltanto le carpe bianche nella vasca fornivano un barlume di luce. L'aria era immobile, inerte, come se la casa fosse vuota da secoli.
Passando frettolosamente lo sguardo sui fregi in soggiorno mi accorsi che i volti dei personaggi raffigurati sui pannelli li conoscevo tutti. La somiglianza era quasi fotografica. Tristram era Coridone, Aurora era Melandria e l'autista era il dio Pan, certo, ma vidi anche me stesso, Tony Sapphire, Raymond Mayo. Fairchild de Mille e gli altri membri della comunità.
Lasciai perdere i fregi, oltrepassai la vasca. Era calata la sera, e attraverso la porta aperta scorgevo le luci lontane di Vermilion Sands, vedevo i fari delle macchine in corsa lungo Le Stelle riflettersi sulle tegole di vetro della mia villa. Si era alzata una brezza leggera che faceva rabbrividire le stelle filanti, e mentre scendevo gli scalini una folata d'aria attraversò la casa e aggredì la porta, chiudendomela rumorosamente alle spalle. Il forte colpo rimbombò nell'edificio, dichiarazione finale a suggello di quella vicenda fantastica e tragica, definitiva conferma della partenza dell'incantatrice.
Riavviatomi nel deserto e incontrando le ultime stelle filanti vagolanti sulla sabbia scura le calpestai risolutamente, cercando di ricostruire la mia realtà. I frammenti delle folli poesie di Aurora Day catturavano la luce languente del deserto nel dissolversi ai miei piedi, agonizzanti frammenti di un sogno.

Giungendo alla villa vidi le luci accese. Corsi dentro e trasecolai nel trovare pigramente sdraiata su una poltrona in terrazza la bionda figura di Tristram con un bicchiere colmo di ghiaccio in mano.
Mi squadrò affabilmente, ammiccò vistosamente prima che potessi aprire bocca e si portò un dito alle labbra.
Mi avvicinai. "Tristram" sussurrai rauco. "Ti credevo morto. Che diavolo è successo laggiù?"
Mi sorrise. "Spiacente, Paul, me lo sentivo che stavi guardando. Aurora se n'è andata, vero?"
Annuii. "La loro auto era troppo veloce per la Chevrolet. Ma non eri stato trafitto da una manta? Ti ho visto cadere, credevo t'avesse ammazzato sul colpo."
"La stessa cosa che ha pensato Aurora. Né tu né lei ve ne intendete granché di mante, vero? I loro aculei sono innocui in alta stagione, vecchio mio, altrimenti nessuno potrebbe entrare là dentro." Sogghignò. "Mai sentito nominare il mito di Melandria e Coridone?"
Sedetti, stanco, lì accanto. In due minuti mi spiegò l'accaduto. Aurora gli aveva parlato del mito, e un po' per compassione un po' per gioco, lui aveva deciso di fare la propria parte fino in fondo. Ogni volta che aveva descritto la pericolosità e la cattiveria delle mante aveva deliberatamente istigato Aurora, fornendole l'occasione perfetta per inscenare il suo omicidio sacrificale.
"Si è veramente trattato di un omicidio" precisai. "Credimi, ho visto come le brillavano gli occhi. Lei voleva ucciderti sul serio."
Tristram diede una scrollata di spalle. "Non fare quella faccia, vecchio mio. Dopotutto la poesia è una cosa seria."

Raymond e Tony Sapphire non sapevano niente dell'accaduto. Tristram si era inventato che Aurora aveva avuto un improvviso attacco di claustrofobia ed era fuggita sconvolta.
"Chissà cosa farà adesso Aurora" si chiese Tristram. "La sua profezia si è compiuta. Forse si sentirà più sicura della propria bellezza. Sai, era afflitta da un tremendo senso di inadeguatezza fisica. Come la Melandria del mito, che rimase sorpresa quando Coridone si uccise, Aurora confondeva la sua arte con la sua persona."
Annuii. "Spero non rimanga troppo delusa quando scoprirà che la poesia continua a essere scritta col solito vecchio indegno sistema. A proposito, ho da riempire venticinque pagine. Come va il tuo apparato T?"
"Non ce l'ho più. L'ho sfasciato la mattina che mi hai telefonato. Erano anni che non lo usavo."
Scattai sulla sedia. "Vuoi dire che i sonetti che mi mandavi sono tutti scritti a mano?"
"Dal primo all'ultimo verso, vecchio mio. Ciascuno di essi è una gemma germogliata dall'anima."
Mi riafflosciai gemendo. "Santo cielo, e io che contavo sul tuo apparecchio per levarmi dai guai... Adesso che diavolo invento?"
Tristram sogghignò. "Comincia a scrivere da te. Ricorda la profezia. Potrebbe anche avverarsi. Dopotutto Aurora mi crede morto."
Lo maledissi chiaro e tondo. "Servisse a qualcosa, meglio sarebbe. Ti rendi conto di quanto verrà a costarmi?"
Tolto che ebbe il disturbo andai nello studio, feci il conto del materiale disponibile e giunsi alla conclusione che mi restavano da riempire esattamente ventitré pagine. Strano a dirsi, significava una pagina per ciascuno dei poeti ufficiali di Vermilion Sands. A parte il fatto che nessuno di loro tranne Tristram era capace di creare un solo verso.

Era mezzanotte, ma i problemi della rivista avrebbero assorbito ogni minuto delle successive ventiquattr'ore, dopodiché sarebbe scaduto il termine ultimo. Avevo quasi deciso di mettermi a scrivere qualcosa di mia mano quando squillò il telefono. Lì per lì pensai fosse Aurora Day - voce acuta, femminea - invece era soltanto Fairchild de Mille.
"Che diavolo fai alzato a quest'ora?" ringhiai. "Non dovresti essere nel primo sonno?"
"Be', immagino di sì, Paul, ma il fatto è che stasera mi è successa una cosa abbastanza incredibile. Dimmi, stai ancora cercando versi originali confezionati a mano? Mi sono messo a scrivere qualcosa un paio d'ore fa, e ti dirò, non mi sembra malaccio. Su Aurora Day, per l'esattezza. Penso che ti piacerà."
Sentendomi quasi riavere lo colmai di complimenti sperticati e annotai il numero dei versi.
Cinque minuti dopo il telefono squillò di nuovo. Stavolta era Angel Petit. Anche lui aveva un pizzico di versucoli manoscritti da sottopormi, casomai. Dedicati ad Aurora Day, s'intende.
Tempo mezz'ora, il telefono aveva squillato un bel po' di volte. Fra i poeti di Vermilion Sands sembrava scoppiata un'epidemia d'insonnia. Ebbi buone nuove da Macmillan Freebody, Robin Saunders e compagnia bella. Tutti, quella sera, all'improvviso avevano misteriosamente avvertito l'incoercibile necessità di scrivere qualcosa di originale, e in pochi minuti avevano buttato giù un paio di strofe in ricordo di Aurora Day.
Rimuginandoci, mi alzai dopo l'ultima chiamata. Mancava un quarto all'una e avrei dovuto essere stanco morto, ma il mio cervello si sentiva lucido ed effervescente, percorso da un profluvio d'idee. Mi si formò in mente una frase. Presi il blocco e la trascrissi.
Il tempo parve dissolversi. Nel giro di cinque minuti avevo creato la mia prima poesia da dieci anni e passa a quella parte. E un'altra dozzina riposavano appena sotto la superficie della mia mente in attesa, come l'oro di una ricca vena, di venire portate alla luce.
Il sonno? Che aspettasse. Nel prendere un altro foglio di carta notai sulla scrivania una lettera indirizzata alla filiale IBM di Red Beach con l'ordinazione di tre nuovi apparecchi T.
Sorridendo fra me la strappai in mille pezzi
.


(Tratto da Tutti i racconti (1956-1962), Fanucci editore, 2003, Roma; titolo originale: Studio 5, The Stars [pubblicato originalmente su Science Fantasy, 1961])


James G. Ballard


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