COMUNI MORTALI

Tobias Wolff

Il caporedattore della cronaca cittadina gridò il mio nome in sala stampa e mi fece cenno di raggiungerlo. Quando entrai nel suo ufficio, lo trovai dietro la scrivania. Con lui c'erano un signore e una signora, l'uomo era in piedi e aveva l'aria nervosa, la donna, col viso ossuto e vigile, era seduta su una sedia e stringeva con entrambe le mani il manico della borsetta. Indossava un vestito dello stesso grigio bluastro dei capelli e nell'insieme aveva un'aria quasi militaresca. Lui era basso, molle e rotondetto. I capillari rotti delle guance gli davano un'espressione allegra, almeno finché sorrideva.
– Non voglio mica piantare una grana, – disse l'uomo – Solo, pensavamo che dovesse saperlo –. Guardò la moglie.
– Ma certo che dovevo saperlo, – rispose il caporedattore. – Questo è il signor Givens, – disse, rivolto a me. –– Il signor Ronald Givens. Il nome ti dice qualcosa?
– Vagamente.
– Ti darò un indizio. Il signor Givens non è morto.
– Ok, – dissi. – Ho capito.
– Un altro indizio, – disse il caporedattore e lesse ad alta voce, dal giornale di quella mattina, il necrologio che avevo scritto annunciando la dipartita del signor Givens. Il giorno prima avevo dovuto scrivere un mare di annunci mortuari, piú di venti, e non ricordavo granché, tuttavia mi era rimasto in mente il punto in cui si diceva che Givens aveva lavorato per trent'anni ai Dipartimento delle Imposte. Di recente avevo avuto dei problemi col Dipartimento delle Imposte, cosi la faccenda mi era rimasta impressa.
Il signor Givens ascoltò il suo necrologio scrutandoci in viso uno dopo l'altro. Non era così basso come mi era sembrato all'inizio. Questa impressione era dovuta al fatto che se ne stava tutto ingobbito spingendo avanti il collo come una tartaruga. Gli occhi erano miti, inquieti. Lo sguardo. da contadino: veloce e furtivo nel soppesarti.
Rise quando il caporedattore concluse la lettura. Be', è tutto esatto, – disse. – Questo ve lo concedo.
– Salvo un particolare, –– aggiunse la moglie, fissandomi.
– Le debbo le mie scuse, –– dissi a Givens. – Evidentemente qualcuno mi ha detto una cosa per un'altra.
– Scuse accettate! –– disse lui, e si sfregò le mani come se avessimo appena concluso un affare. – Bisogna prenderla dal lato buffo, Dolly. Come diceva Mark Twain ? “La notizia della mia morte... ”
– Be', cos'è successo? –– mi domandò il caporedattore.
– Vorrei tanto saperlo.
– Tutto qui.? – esclamò la donna.
– Dolly è molto seccata. – spiegò Givens.
– Ha tutto il diritto di esserlo, – disse il caporedattore. – Chi ti ha passato la notizia ? – mi domandò.
– A dire la verità, non me lo ricordo. Immagino che sia stato qualcuno delle pompe funebri. –– Li hai richiamati?
– No, non credo, no. E hai verificato la notizia telefonando alla famiglia ?
– Questo è sicuro che non l'ha fatto, – disse la signora Givens.
– Infatti, – ammisi.
Il caporedattore prosegui. – Qual è la nostra prassi, prima di pubblicare un necrologio?
– Occorre verificare la notizia telefonando a quelli delle pompe funebri e ai famigliari.
– Ma tu non l'hai fatto.
– No, signore. Temo di no.
– Perché ?
Allargai le braccia per mostrare il mio sconcerto e mi sforzai di apparire opportunamente impressionato, ma non avevo una risposta. La verità era che non seguivo mai la prassi. Gente ne moriva tutti i minuti. Mi sembrava assurdo chiamare i parenti per chiedere se il loro congiunto era davvero morto, o telefonare a quelli delle pompe funebri per accertarmi della veridicità di quanto loro stessi mi avevano appena comunicato. Avevo deciso che questa trafila era solo uno spreco di tempo; sembrava impossibile che qualcuno potesse divertirsi a inventare false notizie di morte, fingendosi il becchino. Adesso capivo che la mia era stata una decisione sciocca, che rivelava una radicale incapacità a comprendere la varietà dei piaceri coltivati dagli esseri umani.
Ma non era solo questo. Siccome ero ancora l'ultima ruota del carro, lì in cronaca, scrivevo un sacco di necrologi. Certe volte mi davano la possibilità di scegliere fra gli annunci dei decessi e quelli dei matrimoni, ma la piú parte dei giorni ero impegnato a redigere un mortuario dopo l'altro, da mattina a sera. Dopo quattro mesi di questo lavoro, ero pieno della coscienza della morte. Questa coscienza mi aveva reso acido. Mi aveva fatto montare la testa inducendomi a un morboso snobismo, dandomi la sensazione di conoscere un segreto di cui nessun altro nemmeno aveva cominciato a sospettare l'esistenza. Mi aveva reso stancamente scettico circa l'utilità della fede, della passione e del duro lavoro, in un momento in cui la mia vita avrebbe richiesto tutte e tre queste cose. Mi aveva fatto cadere in depressione.
Avrei dovuto lasciare l'impiego, ma non volevo tornare al genere di attività che avevo svolto prima che un amico di mio padre mi procurasse questo posto al giornale, lavorando per lo piú come cameriere o come guardiano notturno, disposto a tutto pur di avere la giornata libera per scrivere. Avevo fatto quella vita per
qualche racconto su certe riviste letterarie che nessuno leggeva, me compreso. Stavo cominciando a perdermi d'animo. Avevo rinunciato a un sacco di cose per scrivere, e in cambio non me ne stava venendo niente: niente rispettabilità, niente soldi, niente amore. Così quando era saltato fuori quell'incarico al giornale lo avevo preso al volo. Lo detestavo e lo svolgevo malamente, ma volevo tenere duro. Un giorno o l'altro mi avrebbero passato alla raccolta delle notizie dai commissariati. Le cose sarebbero migliorate.
Speravo che il caporedattore facesse una sfuriata e mi lasciasse andare, ma quello invece continuò a tartassarmi di domande, probabilmente per fare colpo su Givens e la moglie, mostrando loro un vero saggio di giornalismo investigativo. Così alla fine fui costretto ad ammettere che non avevo telefonato ai famigliari dei defunti e alle pompe funebri né quel giorno, né, in realtà, nei giorni passati. Anzi, da un bel pezzo avevo abbandonato la nostra prassi.
Adesso che aveva avuto la risposta che cercava, il caporedattore sembrava non sapere cosa fare. La magagna era piú grossa di quanto avesse immaginato. Lipperlí si limitò a starsene seduto, muto come un pesce. Poi disse: – Fammi capire bene. In sostanza, da quanto tempo il nostro giornale pubblica dei necrologi non confermati?
– Da circa tre mesi, – dissi. E mentre facevo quest'ammissione sentii un sorriso spuntarmi all'improvviso sulle labbra, senza che avessi tempo di ricacciarlo indietro o dissimularlo. Era un sorriso da panico, lo stesso sorriso che avevo rivolto a mia madre quando mi aveva detto che mio padre era morto. Ma ovviamente il caporedattore questo non lo sapeva.
Si protese dalla sedia, diede una scrollatina col capo, un po' come un cavallo, e disse: – Libera la tua scrivania –. Non credo che avesse davvero l'intenzione di licenziarmi; sembrò lui stesso sorpreso dalle proprie parole. Ma non se le rimangiò.
Givens ci guardò, prima uno, poi l'altro. – Ehi, calma, – disse. – Non mettiamola giú così dura. Come si dice? Sbagliando si impara. Che il giovanotto perda il suo lavoro mi sembra esagerato.
– Non l'avrebbe perso, – disse la signora Givens, – se avesse seguito le regole.
Era una verità incontrovertibile.
Liberai la mia scrivania. Uscendo dal palazzo, vidi Givens vicino all'edicola, stava tenendo d'occhio il portone. Non vidi la moglie. Lui mi venne incontro allargando le braccia ed esclamò: – Cosa posso dire? Sono senza parole !
– Non si preoccupi, – gli dissi.
– Non volevo mica che la licenziassero, giuro. Se vuole sapere la verità, non è stata nemmeno un'idea mia venire al giornale.
– Non ci pensi. E stata tutta colpa mia –. Avevo con me uno scatolone pieno di taccuini, di fascicoli e di libri. Era pesante. Lo passai sull'altro braccio.
– Senta, – disse Givens, – cosa ne direbbe se l'invitassi a pranzo? Mi sembra il minimo che posso fare. Mi guardai attorno.
– Dolly è andata a casa, – prosegui lui. – Allora, le va ?
Non avevo nessun particolare desiderio di pranzare con Givens, ma sembrava che lui ci tenesse un sacco, e io ancora non ero pronto a tornare a casa. Cosa avrei fatto lì ? Certo, gli dissi, altroché se mi andava. Mi chiese se conoscevo qualche posto decente da quelle parti. C'era un cinese pochi portoni piú in là, ma era sempre pieno di cronisti. Non avevo voglia di starli a guardare mentre si sforzavano di mostrare comprensione per il mio caso di cui comunque avrebbero riso appena fossi uscito, e onestamente non potevo biasimarli. Ragione per cui proposi la Tad's Steakhouse, vicino al capolinea del tram elettrico. Per un dollaro e ventinove ti davano una lombata di manzo di quasi due etti, insalata e patate al forno. Eravamo nel '74.
– Non sono mica così al verde, – fece Givens. Ma non si mise a discutere, così fu li che andammo.
Givens spilluzzicò dal proprio piatto, poi lo spinse da parte e contemplò il mio. Quando gli domandai se la bistecca era ok, disse di non avere molto appetito.
– Insomma, – dissi, – secondo lei chi è stato a telefonarmi la notizia?
Stava a capo chino. Alzò gli occhi e mi guardò da sotto le sopracciglia. – Chissà? E un vero mistero.
– Se la sarà fatta un'idea.
– Macché.
– Pensa che potrebbe essere stato qualche suo ex collega di lavoro?
– No, questo è escluso –. Tirò fuori uno stuzzicadenti dal portastuzzicadenti. Aveva le mani bianche, coi tendini in rilievo.
– Dev'essere stato per forza qualcuno che la conosce. Lei avrà degli amici, no?
– Sicuro.
– Allora forse c'è stata una lite, roba cosi. E stato qualcuno che ce l'ha con lei.
Si copri la bocca con una mano mentre con l'altra lavorava di stuzzicadente. – Crede ? Io l'avevo preso piú come uno scherzo.
– Be', è uno scherzo piuttosto macabro diffondere false notizie di morte. Piú che altro mi sembra una minaccia. Fosse successo a me, mi sentirei minacciato.
Givens esaminò lo stuzzicadenti, poi lo buttò nel posacenere. – Non ci avevo pensato, – disse. – Forse ha ragione lei.
Ma era del tutto evidente che non ci credeva affatto e non si rendeva conto di cosa era accaduto. Su di lui erano state pronunciate parole di morte e d'ora in avanti la sua vita sarebbe stata legata a esse, in flebile contrapposizione con esse, fin quando non avrebbero avuto il sopravvento, diventando vere. Qualcuno lo voleva morto, e quelle parole erano le sue pallottole. O almeno cosi la vedevo io.
– E sicuro che non può essere stato uno dei suoi amici? – insistei. – Magari per futili motivi. Non so, giocavate a carte, lei ha vinto forte qualche mano di seguito e poi ha piantato il tavolo prima che lo spennato avesse la possibilità di rifarsi...
– Non gioco a carte, – disse Givens.
– E di sua moglie cosa mi dice? Nessun problema in quel reparto?
– Nemmeno l'ombra.
– Tutto liscio come l'olio, si?
Si strinse nelle spalle. – Sì, come sempre.
– Come mai la chiama Dolly? Non era questo il nome sul necrologio.
– Boh, così. L'ho sempre chiamata Dolly. Tutti la chiamano Dolly.
– Non mi sembra il diminutivo piú adatto, – dissi. Non rispose. Mi stava guardando.
– Ecco, mettiamo che Dolly sia arrabbiata con lei, molto arrabbiata... Vuole mandarle un messaggio, qualcosa che esca dai soliti canali.
– Impossibile –. Givens questo lo disse con gran semplicità. Non provò nemmeno a convincermi che mi sbagliavo, e ne dedussi che probabilmente diceva il vero.
– Dal necrologio risultava che lasciava una figlia, giusto? Com'è che fa di nome? ora mi sfugge.
– Tina, – disse lui, non senza una certa tenerezza.
– Già, Tina. Come vanno le cose con Tina?
– Abbiamo avuto i nostri problemi, non dico di no.
Ma le assicuro che non può essere stata lei, ci metto la mano sul fuoco.
– Be', cavolo, – esclamai. – Qualcuno è stato.
Finii la mia bistecca osservando lo spettacolo della strada: alcolizzati, predicatori, mentecatti, puttane, falsi hippy che vendevano origano ai turisti in scarpe bianche. Puro teatro, fin nell'odore di popcorn che usciva a zaffate da Woolworth's. Richard Brautigan veniva spesso qui. Alto e scontroso, stava chino sul piatto e mangiava lentamente, masticando a lungo ogni boccone, gli occhi fissi sulla strada. Là accadevano alcune cose buffe, altre terrificanti. E lui studiava tutto, senza mai smettere di mangiare.
Dissi a Givens che eravamo seduti allo stesso tavolo dove si sedeva Richard Brautigan, quando veniva qui.
– Prego?
– Richard Brautigan, lo scrittore.
Givens scosse la testa.
Ormai ero pronto a tornare a casa. – Ok, – feci, – me lo dica lei. Mi dica chi la vuole morto.
– Nessuno mi vuole morto.
– Be', qualcuno ha voluto immaginare la sua morte. Ci rifletta. Il desiderio è il padre dell'azione.
– Nessuno mi vuole morto. Sbaglia a pensare che ogni cosa debba avere un significato.
Questo era appunto uno dei miei problemi, come negarlo ?
– Giusto per curiosità, – prosegui Givens, – mi dica, cosa ne pensa?
– Di cosa?
– Del mio necrologio –. Si protese e cominciò a giocherellare con la saliera e la pepiera, sbattendoli l'uno contro l'altro e facendoli scivolare in qua e in là come ballassero la quadriglia. – Voglio dire, le ha dato un'idea del tipo di persona che ero? Del tipo di persona che sono?
Scossi la testa.
– Non c'era niente che spiccasse?
Dissi di no.
– Capisco. Le dispiacerebbe dirmi, allora, cosa ci vuole esattamente perché lei si ricordi di qualcuno?
– Senta, – dissi, – quando scrivi necrologi tutto il giorno, finisci col confonderli uno con l'altro.
– Si, certo, ma qualcuno le resterà pure in mente, no?
– Qualcuno, be', si, qualcuno sí.
– Chi?
– Oh, gli scrittori che amo. Gli assi del baseball. Le stelle del cinema di cui sono stato innamorato.
– In altre parole, tutta gente famosa.
– Alcuni, sì. Ma non tutti.
– Si può vivere una bella vita anche senza essere famosi, sa? – disse Givens. – Quelli che hanno nomi altisonanti non sempre sono altrettanto grandi come persone.
– Questo è vero, – dissi, – ma è una verità da gente piccina.
– Davvero? E lei cosa crede di essere?
Non risposi.
– Se l'unica cosa che le fa impressione è essere famosi, allora lei deve essere un vero nano. Almeno cosi la penso io –. Mi diede un'occhiata dura e strinse la saliera e la pepiera come un mitragliatore pronto a scaricare una raffica di colpi.
– Non è solo la fama che mi impressiona.
– Ah, no? Cos'altro, allora?
Lasciai che la domanda decantasse. – L'eccellenza morale, – dissi.
Lui ripeté le mie parole. Suonarono pompose.
– Be', sa cosa intendo, no? – dissi.
– Mi corregga se sbaglio, – fece lui, – ma ho l'impressione che lei non brilli quanto a eccellenza morale. Non mi misi a discutere.
– Inoltre, – prosegui Givens, – ovviamente lei non è una persona famosa.
– Ovviamente.
– Dunque, cosa ne deduce? – Quando non risposi, prosegui: – Pensa che se leggesse il suo necrologio se lo ricorderebbe?
– Probabilmente no.
– Altro che probabilmente! Non le resterebbe ir mente nemmeno per un minuto!
– Va bene. Diciamo che senz'altro non me lo ricorderei.
– Esatto. E sarebbe un peccato. Perché certo lei possiede altre cose, qualità che spiccherebbero se solo vi prestasse piú attenzione. Tutti hanno qualcosa di buono. Lei, per quanto la riguarda, di cosa va orgoglioso?
– Io sono un sopravvissuto, – dichiarai. Ma non pensavo che questo titolo avrebbe avuto molto peso in un necrologio.
Givens disse: – Per quello che riguarda me, è la fedeltà. La fedeltà è il segno caratteristico della mia vita. Se ne sarebbe reso conto anche lei, se non l'avessero accecata i pregiudizi. Quando legge che un uomo ha servito il suo paese in tempo di guerra, che è rimasto sposato con la stessa donna per quarantadue anni, che ha lavorato tutta la vita nel medesimo ufficio, Dio santo, questo dovrebbe ben dirle qualcosa. Dovrebbe darle un certo quadro.
Si interruppe per annuire alle proprie parole. – E non è che sia stato sempre facile, – concluse.
Mi venne proprio da ridere, soprattutto di me, della mia ottusità. – E stato lei, – esclamai. – L'ha fatto lei!
– Fatto cosa?
– E stato lei a telefonarmi la notizia della sua morte!
– Oh, bella! E perché avrei dovuto farlo?
– Me lo dica lei.
– Sarebbe come ammettere di essere stato io –. Givens non poté fare a meno di sorridere, orgoglioso della propria scaltrezza.
Dissi: – Lei è fuori di testa, a forza di fedeltà è impazzito, – ma non dicevo sul serio. Non c'era niente in quello che Givens aveva fatto che non potessi comprendere o addirittura, mio malgrado, ammirare. Aveva trovato il modo di assistere al proprio funerale. Aveva provato il suo ultimo vestito, per così dire, si era visto imbellettato e composto nella bara, aveva ascoltato il proprio elogio funebre. E dopo, dulcis in fundo, era risorto! Questo era il punto, anche se magari Givens credeva di averlo fatto per mettere un po' di paura addosso alla sua Dolly o per fare risaltare le proprie virtù. Al centro c'era questa resurrezione che il fedele esattore delle imposte era riuscito ad assaporare. La faccenda aveva un gusto biblico.
– Ma che sagoma! Lo sa, signor Givens? Lei è proprio una sagoma.
– Non sono venuto qui per farmi insultare.
– Si rilassi, – gli dissi. – Non sono mica arrabbiato. Spinse indietro la sedia facendola stridere sul pavimento e si alzò. – Ho di meglio da fare che stare qui ad ascoltare assurdità.
Lo seguii fuori del locale. Non ero ancora pronto a mollarlo. Prima, doveva darmi qualcosa. – Suvvia, ammetta di essere stato lei, – gli dissi.
Si girò dall'altra parte e si incamminò su per la Powell.
– Lo ammetta e basta, – dissi. – Giuro che non me ne servirò contro di lei.
Continuò a camminare, fendendo la calca, la testa protesa a mo' di tartaruga. Era sgusciante e veloce. Alla fine riuscii ad agguantarlo per un braccio e lo spinsi dentro un portone. Sentii i suoi muscoli contrarsi sotto le mie dita. Ebbe uno scatto e riuscí quasi a liberarsi, ma io lo strinsi piú forte e restammo là immobili, a guardarci in cagnesco.
– Lo ammetta.
Scosse la testa.
– Se non parla, giuro che le spezzo il collo, – sibilai.
– Mi lasci andare, – disse.
– Se le succede qualcosa adesso, il suo necrologio non sarà piú una notizia infondata. E io riavrò il mio lavoro.
Cercò di nuovo di liberarsi, ma invano.
– Ne verrebbe fuori un articolo fantastico, – dissi. Sentii il suo braccio infiacchirsi. Poi Givens disse, con un filo di voce, – Sì –. Nient'altro.
Era il massimo che avrei potuto cavargli di bocca. Doveva bastarmi. Quando gli lasciai libero il braccio, si girò, incassò la testa fra le spalle e si rituffò nel flusso pedonale. Io presi la direzione opposta, per tornare da Tad's a recuperare la mia scatola. Proprio davanti a me c'era un mimo, seguiva un giovane yuppy che indossava un completo con tanto di gilet, lo imitava cogliendo perfettamente la sicumera del tipo, l'arrogante inclinazione del mento. Una ragazza rise con voce roca. Lo yuppy si girò a guardare e il mimo si immobilizzò. Era ancora pietrificato nella medesima posizione quando lo superai. Gli allungai una moneta da venticinque centesimi, sperando che mi lasciasse passare.



(Tratto dalla raccolta Proprio quella notte, Einaudi, Torino, 2001, traduzione di Laura Noulian)


Tobias Wolff


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