SCONFITTO

Jacob Arjouni


A venticinque anni, Paul era già uno su cui si poteva puntare. Dopo due anni di accademia cinematografica a Berlino e tre cortometraggi lodatissimi, era considerato dagli insegnanti, dagli osservatori, dai produttori cinematografici e dai promotori il più grande talento della sua annata. Anche coloro che provavano una profonda avversione per la sua ambizione e per la sua ferrea volontà — che gli permettevano di imporsi sempre e ovunque — dovevano ammettere che fra i suoi compagni di corso era l'unico ad avere la stoffa per fare una carriera straordinaria. Gli altri studenti scrivevano sceneggiature sui problemi di coppia, su divertenti equivoci oppure sul destino di piccoli criminali; rivelavano immancabilmente i modelli di Truffaut, Billy Wilder e Mean Streets di Scorsese; durante il lavoro per un seminario si scervellavano per decidere se un uomo disperato, costretto a confessare alla moglie il licenziamento, doveva camminare per strada leggermente piegato in avanti, oppure con ampie falcate. Le sceneggiature di Paul, invece, trattavano del grande amore assoluto, dell'amicizia e della morte. I suoi modelli erano Leone, Coppola e Cimino; nelle sue sceneggiature, l'uomo appena licenziato entrava in casa carponi completamente sbronzo, vomitava sul pianerottolo e addosso alla moglie e intanto gridava che la sua azienda l'aveva scelto come miglior dipendente dell'anno. Per gli altri quelle piccole sceneggiature erano del tutto prive di importanza — al punto che avrebbero rinunciato senza problemi alla loro realizzazione nella seconda parte del seminario — invece Paul le approfondiva ulteriormente (alla sera l'uomo, per festeggiare e per scusarsi di averle sporcato di vomito il vestito, portava la moglie in un ristorante di lusso, dove incontrava il capo del personale che al mattino l'aveva licenziato e accoltellava la moglie prima che scoprisse la verità), si faceva prestare il denaro necessario e girava un film di sei minuti in cinemascope.
Paul doveva fare sempre tutto alla grande e in maniera sconvolgente, e in genere possedeva sufficiente energia, coraggio e audacia per riuscirci. Proprio per questo il colpo fu così duro quando per la prima volta l'energia, il coraggio e l'audacia lo abbandonarono.
Durante il lavoro alla sceneggiatura del suo film per il diploma, atteso con ansia da molti — la storia di tre berlinesi disoccupati che vanno in Siberia in autostop per cercare l'oro, e che durante il viaggio si innamorano, litigano, si separano, si ritrovano e alla fine muoiono tutti congelati, tranne uno – qualche cosa si insinuò nella sua vita. Cosa fosse e perché gli succedesse per lui rimase a lungo un mistero, anche perché si era sempre rifiutato di affrontarlo con decisione. Inconsciamente sperava che, mantenendo un atteggiamento di totale indifferenza, quel qualcosa sarebbe sparito di colpo, esattamente com'era arrivato.
Tutto iniziò con attacchi di panico. Improvvisamente aveva la sensazione di perdere l'equilibrio, come se avesse mancato un gradino e stesse cadendo nel vuoto. Poteva succedere in pieno giorno, mentre camminava, mentre stava fermo e addirittura mentre era seduto. Se era seduto, per un attimo gli sembrava di sprofondare con la sedia e il tavolo, Subito dopo tremava come se fosse percorso dalla corrente elettrica e il cuore gli batteva all'impazzata. Quando il cuore tornava calmo, rimanevano lo shock e una sorta di incoscienza a occhi aperti.
Una volta fu assalito da un simile attacco mentre stava andando al banco della mensa dell'accademia cinematografica per prendersi dell'acqua minerale. Rimase come paralizzato in mezzo alla sala, attorniato dagli altri studenti che se ne stavano seduti senza prestargli attenzione; a un certo punto gli passò vicino un conoscente che gli chiese: “Cosa c'è, ti è venuta l'ispirazione?” Paul prima lo guardò spaventato, poi si sforzò di sorridere e, per fare qualche cosa che lo mostrasse ancora in vita, e poiché non si fidava delle proprie gambe per fare i pochi passi fino al bancone, si grattò furiosamente la testa. “Sì, un'ispirazione. Stavo giusto pensando che...” “Me lo racconti dopo, adesso ho fame.” Il suo conoscente era già seduto da un po' davanti allo sformato e Paul se ne stava ancora lì a grattarsi la testa. Quando finalmente riuscì ad arrivare al bancone, ordinò una birra.
Nel periodo seguente, per tirare avanti doveva avere sempre la birra a portata di mano. Dapprima bastava una bottiglia, poi gliene servirono due, poi tre, poi quattro; gli attacchi erano sempre più frequenti e sempre più lunghi; Paul cominciò a bere preventivamente, all'inizio solo prima degli incontri importanti, poi in ogni altra occasione in cui avrebbe potuto incontrare delle persone; in breve arrivò a vuotare una cassa da venti al giorno. Il confine fra eccezione e normalità si confondeva. La vita di Paul divenne una successione di situazioni sempre uguali che non lasciavano spazio quasi a nient'altro: paura dell'attacco, l'attacco stesso, sollievo per avere superato l'attacco, paura per il prossimo attacco. L'unica cosa che ogni tanto gli offriva un rifugio era il lavoro alla sceneggiatura. Quando riusciva a concentrarsi, a immergersi completamente nei personaggi e nelle scene, per un po' dimenticava la paura. Ma il più delle volte si rendeva conto di aver messo sulla carta solo frasi senza senso. Spesso rifletteva sulle possibili correlazioni: a volte gli sembrava che le paure fossero la condizione necessaria per una vera creatività, ma poi tornava a convincersi che il suo stato dipendeva solo dal terrore di fallire nella sceneggiatura. Per un po' arrivò a paragonare il suo rapporto con la scrittura a quello con le droghe. Quanto più se ne stava alla scrivania a cercare sollievo, sicurezza e tranquillità nella scrittura, tanto più debole si faceva l'effetto. L'unica cosa che ottenne dallo stare sempre più a lungo al computer e da un crescente consumo di carta, fu una dipendenza senza nessun effetto positivo. Dopo due giorni e due notti ininterrotti a scrivere, a spremersi, a cancellare, ad accartocciare i fogli e a fumare una sigaretta dopo l'altra, decise di disintossicarsi. Per una settimana la scrivania sarebbe stata tabù. Quindi: passeggiate quotidiane, alimentazione regolare e scelta casuale di programmi televisivi, solo per l'intrattenimento, senza ricerca di possibili ritorni intellettuali o di tecnica cinematografica. Effettivamente gli “attacchi” diminuirono. Pochi passi all'aperto e l'ansia spariva quasi completamente. Ma nei giorni seguenti, anziché rilassarsi e dimenticare il lavoro, continuò a pensarci. E poiché si atteneva strettamente al divieto di sedersi alla scrivania e di riportare i suoi pensieri sul computer, si sentiva come se gli stesse per esplodere la testa. Alla fine della settimana dormiva e mangiava appena, mentre passeggiava recitava dei dialoghi ad alta voce cambiando la voce a seconda dei personaggi e quando guardava la televisione, pensava a come migliorare la sceneggiatura di qualsiasi cosa vedesse, compreso il telegiornale. Quando si rimise alla scrivania, le prime ore gli sembrarono una liberazione; ma già il giorno dopo ritornarono al gran trotto le paure e le lotte disperate per le frasi dei dialoghi. Però, tutto sommato, gli sembrava decisamente meglio della settimana di disintossicazione.
Ormai andava raramente all'accademia cinematografica. Quando ci andava era ubriaco, ma nessuno se ne accorgeva. Infatti la paura costante gli impediva di perdere il controllo, di barcollare o di balbettare. Bruciava l'alcol troppo in fretta, prima che si potessero manifestare gli effetti della sbronza. Chiedeva sempre più spesso a Betty, la sua ragazza che lavorava come fotografa per un giornale di Amburgo, di non andarlo a trovare. Diceva che lavorava giorno e notte alla sceneggiatura, che era in una fase in cui preferiva stare da solo, che aveva l'influenza, che aveva degli appuntamenti, insomma, aveva sempre qualche scusa. Se per caso andava a trovarlo nonostante il divieto, le faceva capire che avrebbe fatto meglio a lasciarlo perdere. Si ritirava nei suoi “attacchi”, anche quando non li aveva. Stava seduto in un angolo con lo sguardo fisso nel vuoto, parlava appena e alle domande reagiva per lo più facendo cenno di no. Quando a Betty non bastarono più le spiegazioni del superlavoro e della tensione, lui passò all'attacco. Cosa poteva capire delle sue condizioni? Quello che cercava di fare non era un reportage fotografico sulla prossima moda primaverile, ma un mondo nuovo, unico, che doveva stare in piedi per un'ora e mezzo. E per questo aveva bisogno di starsene per i fatti suoi, di pace e, ogni tanto, di una bevuta che spazzasse via la vita quotidiana. Le prime volte Betty reagì con comprensione, poi passò al contrattacco: “Prima di creare il tuo nuovo mondo, cerca di fare qualche cosa con quello che hai qui”. Poi aggiunse con dura oggettività: “E qui non vedo nessun nuovo mondo, non vedo scritta neppure una nuova pagina. L'unica cosa nuova che vedo sono le bottiglie vuote”. A un certo punto smise di andare a trovarlo e poco dopo ciascuno dei due decise che non avrebbe chiamato l'altro per primo.
In queste settimane, Paul scrisse più di venti versioni del terzo atto. Nessuna gli piaceva. Al più tardi durante la seconda lettura, le frasi, fossero dialoghi o descrizione della scena, gli sembravano troppo comuni, troppo banali, troppo superficiali. Il suo nuovo mondo non era qualche cosa di ultraterreno (come invece, ne era convinto, pensava Betty: una storia sui marziani o i dinosauri. In realtà, Betty aveva capito perfettamente cosa intendeva), ma un microcosmo che doveva funzionare indipendentemente dai tempi e dalle circostanze. Perché, secondo Paul, i migliori film erano quelli in cui si aveva la sensazione che i personaggi sullo schermo non avessero bisogno di lui come spettatore. A un certo punto gli venne l'idea che simili film, proprio perché escludevano la sua vita quotidiana e le sue condizioni, fermavano il tempo almeno per un'ora e mezzo; inoltre potevano vivere quasi in eterno, perché erano fatti di pellicola e di sostanze chimiche. E se un simile microcosmo si costruisse da sé? Il tempo, dalla prima frase della sceneggiatura fino all'ultimo montaggio dei suoni, non si ferma per due o tre anni? E se si è fatto il film, non si vive almeno un po' in eterno? Queste domande non lo abbandonavano mai, gli si sommavano nel cervello e, ogni volta che cercava una risposta, era preso da una tale debolezza che subito si doveva stendere e si addormentava.
Circa due mesi dopo il primo “attacco”, Paul smise di andare all'accademia cinematografica; quando si svegliava rimaneva a letto sempre più a lungo e usciva di casa solo per comperare sigarette, birra e lo stretto necessario per non morire di fame. Usava il telefono esclusivamente per trattare lo scoperto con l'impiegata della banca, oppure per chiedere ai genitori che abitavano a Gelsenkirchen un ultimo, “e questa volta davvero ultimo”, bonifico. Ammucchiava da una parte senza leggerle le cartoline e le lettere degli amici, che si preoccupavano e si chiedevano che fine avesse fatto; se qualcuno suonava o bussava alla porta, aspettava trattenendo il fiato fino a quando non sentiva allontanarsi i passi. Trascorreva i pomeriggi davanti al portatile, ma non scriveva nulla. Se ne stava seduto tre o quattro ore, poi si stendeva di nuovo a letto davanti al televisore. L'unica cosa che gli faceva sperare l'arrivo a breve di tempi migliori era la minore frequenza degli “attacchi”, che da una settimana erano cessati. Registrava una sorta di ottundimento dei sensi. Gli sembrava che nelle sue percezioni i colori, gli odori e i suoni si sbiadissero. Come se Mozart, Bob Dylan o il camion della nettezza urbana giù in strada facessero un unico rumore indistinto. Allo stesso modo, presto gli divenne difficile distinguere dall'odore se la sua vicina stava cucinando i fagioli o le polpette. Ma lo sbiadimento più evidente era quello dei colori. Il coloratissimo show televisivo del sabato sera gli sembrava così grigio che passava metà della trasmissione a manipolare i tasti per la regolazione della luminosità e del colore. E quando il sole splendeva nel cortile sopra i castagni in fiore, quell'immagine a Paul sembrava uno schizzo a matita con i contorni a volte più a volte meno marcati. Un giorno fu preso dal panico perché credeva di aver perso il tatto, allora cominciò a toccare con foga la carta da parati e il piano della scrivania, e per sicurezza si colpi le dita con una bottiglia di birra piena. Si fece male, ma ne fu contento. Si rassegnò a tutte le altre carenze, ma prese delle contromisure per quanto riguardava i colori. Lo fece in fretta e si sarebbe irritato se qualcuno si fosse messo a ridere della sua cucina componibile pitturata di rosso fiammante.


Paul se ne stava sdraiato a letto a guardare Starsky & Hutch. Non lasciava l'appartamento da una settimana, si nutriva di Honey Smacks, di patate lesse in scatola, di biscotti al burro e di birra; trascorreva quasi tutto il giorno davanti alla televisione e voltava lo sguardo dall'altra parte quando passava vicino alla porta chiusa dello studio. I rumori dei vicini lo spaventavano, di notte andava continuamente alla porta d'ingresso a controllare che fosse chiusa e, se gli cadeva qualche cosa, oppure gli capitava qualche piccolo contrattempo, scoppiava in lacrime.
Dopo Starsky & Hutch Paul cambiò sulla ZDF. C'era la serie serale Il nostro insegnate professor Specht. Paul lasciò sprofondare la testa fra i cuscini. Il professor Specht lo tranquillizzava. Paul non sopportava più i lungometraggi, specie quelli di qualità. Lo sconvolgevano e non lo facevano dormire. Spesso, dopo averne visto uno, passava metà della notte alla scrivania a scrivere dialoghi del tipo: “Devo andare”, “Ti aspetto”, “C'è sempre qualcuno che aspetta”. Fino a quando prendeva brutalmente coscienza che li aveva semplicemente ripescati dalla memoria. C'era una volta il West era uno dei suoi film preferiti. Paul aveva la videocassetta e prima, prima degli “attacchi”, quando gli sembrava che il coraggio nel lavoro lo stesse abbandonando, gli bastava guardare due o tre scene qualsiasi del film per riprendere la consapevolezza di cosa era possibile fare e di dove volesse andare. Leone non l'aveva mai abbandonato. Si inventava storie che corrispondevano quasi esattamente alla visione del mondo di Paul e le raccontava in maniera tale che in ogni immagine, in ogni scena Paul trovava conforto alla propria concezione del narrare. E ora. mentre rimuginava sul film per il diploma, gli venne in mente C’era una volta il West, e fu preso da un pensiero paralizzante: un film del genere si poteva fare; ma lui, allora, cosa faceva?
Questa volta il professor Specht si occupava dei cento marchi che uno studente aveva fregato a un altro per comperarsi dell'hashish. Il professor Specht, dopo aver scoperto cos'era successo, prese l'hashish al colpevole e gli fece promettere solennemente di non fare mai più una cosa del genere; subito dopo si difendeva dai rimproveri scherzosi di una collega innamorata di lui, perché, a causa dell'agitazione per il denaro rubato, si era dimenticato del suo invito a bere un caffè e a mangiare una fetta di torta, ed era invece rimasto tutta la sera in un locale con un amico di gioventù, uno dall'aspetto un po' trasandato, che non vedeva da tempo. Dopo un paio di bicchieri di vino, il vecchio amico gli aveva chiesto dove poteva comperare del fumo. Taglio: il professor Specht rende al derubato i cento marchi e, ridendo sotto i baffi, risponde così alla richiesta di spiegazioni su dove avesse ritrovato il denaro: “Sebastian, non solo nella matematica, ma a volte anche nella vita, meno per meno fa più”. Fine.
Niente di eccezionale. Ma neppure così orribile. Telefilm da tardo pomeriggio, appunto. E se facesse qualche cosa del genere, senza stare a menarsela troppo?
Paul prese una bottiglia di birra dalla cassa vicino al letto, la aprì e cambiò canale, Pro Sieben. Una sit-com. Un uomo e una donna stanno seduti in un bar al loro primo incontro e l'uomo si inceppa in papere del tipo: “C è stata un'erezione.., no, cioè, un'eruzione vulcanica”.
O qualcosa del genere...
Su Eurosport c'era il tennis. Un incontro su terra fra due spagnoli sconosciuti. Monotonia per minuti, solo scambi di palla basati esclusivamente sulla forza. Nel gioco non c'erano picchi di abilità. Paul finì la birra, ne aprì un'altra e registrò con gratitudine che il continuo movimento della pallina lo faceva appisolare. Nonostante passasse quasi tutto il giorno a letto, non dormiva più di due o tre ore.
Quando, verso la fine del secondo set, bussarono alla porta, in un primo momento non se ne accorse. Poi si sentì bussare più forte. Per un attimo Paul non riuscì a inquadrare questo nuovo rumore e si piegò irritato verso il televisore, ma poi capì e trasalì. Mise velocemente il volume a zero, appoggiò la bottiglia di birra di fianco al letto, senza fare rumore, e drizzò subito le orecchie.
“Paul, apri! Sono Sergej!”
Ormai più che un bussare sembrava un martellare.
“Non fare stronzate! Ho sentito la tele! E non me ne vado fino a quando non riesco a parlarti!”
Paul si guardò intorno, in tensione. Era tutto in ordine. Tutto normale. Tranne forse che per la cassa di birra vicino al letto...
“Paul!”
Paul in punta di piedi trascinò la cassa in cucina. Anche lì si guardò attorno, e anche lì era tutto in ordine. Forse troppo in ordine. Prese dei giornali dalla pila sistemata nell'angolo, li aprì a caso e li stese sul tavolo della cucina. Poi accese la radio e cercò una stazione che trasmetteva musica allegra.
“Se è necessario butto giù la porta! Oppure chiamo i pompieri!”
Trovò qualche cosa di cubano con le congas e le chitarre. Poi guardò l'orologio della cucina. Era un vecchio aggeggio da mercato delle pulci. Non lo caricava da settimane. Dov'era il suo orologio da polso? Sfrecciò di nuovo nello studio in punta di piedi.
“Adesso ne ho abbastanza!”
Cominciò a prendere la porta a calci, probabilmente si sentiva in tutto il condominio. Paul gettò un'occhiata all'orologio da polso, tornò indietro di corsa, caricò l'orologio della cucina e mise le lancette sulle otto e mezzo. Poi si fermò e cercò di concentrarsi. Quindi andò alla porta con passi pesanti e lenti.
“Sì, sì! Arrivo.”
I calci contro la porta cessarono. Quando Paul aprì, vide l'amico appoggiato alla parete che, con le mani infilate nelle tasche del giubbotto, lo osservava con distaccata curiosità. Se era sollevato, non lo dava a vedere.
Paul lo guardò raggiante: “Allora, Sergej?”
“Cos'è sta roba, un'aggressione? Oppure in Serbia si fa così a chiedere permesso?”
Negli ultimi tre mesi, Sergej aveva girato un documentario a Belgrado. Alla battuta di Paul non fece una piega. Lentamente si staccò dalla parete e si avvicinò alla porta.
“Posso?”
Paul cercava di mostrarsi felice, perché riteneva che quello dovesse essere lo stato d'animo di chi rivede il migliore amico dopo tre mesi, ma sotto lo sguardo sempre freddo di Sergej non riuscì ad accentuare l'espressione entusiasta.
“Ma certo, entra. Che domande idiote fai?”
Doveva abbracciare Sergej? Era una cosa che facevano sempre quando non si vedevano per una settimana. Ma ora... c'era qualche cosa che non andava.
Sergej entrò e Paul chiuse la porta.
“Faccio domande idiote come si fanno a qualcuno che da tre mesi non si fa più vedere, non risponde al telefono, non risponde alle lettere e dice alla sua ragazza che ormai è entrato nel novero dei geni.”
Sergej disse queste cose con il tono di chi non si aspetta una risposta. Con le mani sempre infilate nelle tasche guardò il soffitto. “Si può accendere la luce?”
“Ah, no. Mi dispiace, la lampadina è bruciata. Ma tanto non dobbiamo restare nel corridoio, no?”
Paul cercava di mostrarsi divertito. Ma in realtà era infastidito perché la lampadina si era bruciata solo due giorni prima. E ora Sergej stava certamente pensando che viveva da settimane senza luce nel corridoio. Doveva spiegarlo? Sarebbe stato più normale vivere con un corridoio senza luce oppure, dopo tre mesi, come prima cosa, spiegare che fino a due giorni prima il corridoio era illuminato? E poi, perché Sergej chiedeva una cosa del genere? Prima se ne sarebbe fregato. Voleva metterlo alle strette? Solo perché per un po' non si era fatto vivo? Sergej faceva presto a parlare: come regista di documentari non doveva inventarsi una storia, scrivere i dialoghi, pensare agli interpreti; aveva bisogno solo di scegliere un tema e tenere la telecamera, tutto il resto si faceva con il montaggio. In realtà non era così semplice, e Paul lo sapeva bene, ma...
“Non volevamo stare in corridoio ma ci siamo già da un pezzo” disse Sergej.
Paul lo guardò. Cosa intendeva con quel tono ironico? Si girò verso il guardaroba alla ricerca di un appendiabiti per il giubbotto di Sergej.
“Allora, andiamo da qualche parte?”
“Certo, in cucina. Stavo solo guardando se c'era un appendiabiti per il tuo giubbotto.”
“Un appendiabiti per il mio giubbotto?” Sergej guardò la giacca sportiva con il cappuccio. “Mah, credo che possa anche farne a meno.”
Intanto la radio in cucina aveva cominciato a trasmettere un servizio sul culto dei morti in Sud America. Paul si lanciò per cambiare canale: avrebbe voluto scagliarla contro il frigorifero.
“Cosa combinano quelli della radio!” Sorrise a Sergej scuotendo la testa. “Prima trasmettono musica da sogno, poi ci si allontana per un attimo e quando si torna trasmettono roba del genere.”
“Mmm.” Sergej si sedette al tavolo della cucina e gettò un'occhiata ai giornali aperti. Paul, dopo aver sintonizzato la radio su un programma di jazz, si appoggiò con la schiena al frigorifero e incrociò le braccia. Ma gli venne subito in mente che le braccia incrociate sono un segnale di difesa, così le lasciò cadere lungo i fianchi; non sapendo dove mettere le mani, dopo un po' le infilò nelle tasche dei pantaloni. Non del tutto, però, per non dare l'impressione di voler esibire un atteggiamento disinvolto.
“Stavo leggendo e devo essermi assopito, per questo non ho sentito subito che bussavi.”
Sergej guardò il giornale e poi osservò impassibile Paul. “Cerchi lavoro?”
“Come?”
Sergej batté col dito sul giornale. “Offerte dilavoro: direttore delle vendite, direttore del personale, contabile. E il tuo nuovo settore?”
“Ma...” Mentre cercava di sbirciare sul tavolo della cucina, Paul rimase a bocca aperta. Era un trucco? No, c'erano davvero le offerte di lavoro. Che cretino! “... E per le ricerche. Nel mio film parlo di disoccupati. Dovrò andare anche all'ufficio di collocamento per incontrare delle persone, ma prima...”
“Come va la sceneggiatura?”
“Così così: a volte bene a volte male. Ma proprio oggi c'è stato un momento in cui ho pensato finalmente di aver trovato il nocciolo della storia, la metafora che aleggia su tutto, capisci?”
“E sarebbe?”
Paul tirò in dentro le labbra e guardò il pavimento davanti a sé, come se stesse cercando le parole. Aveva reagito più o meno allo stesso modo alle domande di Betty: come un fisico che deve spiegare la teoria della relatività a un profano.
“... Così su due piedi non riesco a verbalizzarla. E ancora poco più di un'intuizione. Solo ora comincio a capire cosa voglio ottenere, ma non ci sono ancora arrivato, capisci?”
“Non continuare a ripetere 'capisci', se non spieghi nulla.”
“Ma lo dico solo così, io...”
“Dov'è la sceneggiatura?”
Paul indugiò, cominciava a sudare. “Nello studio.”
“Posso dare un'occhiata?”
Fino a tre mesi prima, i testi che uno dei due scriveva non potevano essere considerati finiti se l'altro non li aveva letti diverse volte e non aveva espresso il proprio giudizio. Si erano letti a vicenda persino le lettere d'amore. A quel tempo la domanda di Sergej sarebbe stata quasi un affronto.
Paul tentò di salvare la situazione. Per la prima volta da quando gli aveva aperto la porta, guardò Sergej negli occhi e gli sorrise in segno di scusa, come se dovesse scaricarlo per una festa.
“Non ancora. Lo so che è stupido, ma questa volta sono superstizioso. Te la mostrerò solo quando sarà finita. La storia si esaspera fino all'ultima scena, e solo se funziona quella, funziona anche tutto il resto. Capisci, cioè voglio dire, è chiaro o no?”
“Non c'è nessuna sceneggiatura.”
“Cosa?”
“Betty mi ha detto che non c'è nessuna sceneggiatura. C'è una gran quantità di bottiglie di birra vuote e molte pagine con dialoghi di Leone cancellati, ma nulla che possa essere definito una sceneggiatura o anche solo l'inizio di una sceneggiatura.”
“Ma che cazzata!” Paul tirò fuori le manidalle tasche e si allontanò dal frigorifero. “Voglio dire, cosa vuoi che ne capisca Betty!” Cominciò a girare attorno al tavolo e a ripiegare i giornali con movimenti bruschi. “E poi, da quando la stai a sentire?”
“Mostramela.”
“Io...” Paul si irrigidì. Teneva i giornali davanti al petto e le dita strette attorno alla carta. Cosa si era messo in testa Sergej? Piombava qui e si comportava come Dio in terra! Gli aveva forse chiesto qualche cosa? “... non voglio.”
“Okay” disse Sergej, “allora me la cerco da solo.” E fece per alzarsi. Ma Paul gli si mise davanti per sbarrargli la strada. “Lascia perdere!”
“Senti un po'...” Sergej guardò gli occhi di Paul sbarrati per il panico e si chiese cosa significasse, per Dio, tutta quella sceneggiata. “... ma sei normale?”
“Ho detto che non voglio!”
“Mi risulta che da tempo ci sono troppe cose che non vuoi: aprire la porta, per esempio, oppure comunicare a qualcuno che sei ancora vivo. Perciò non me ne frega niente di cosa non vuoi.”
Paul sostenne ancora un attimo lo sguardo di sfida di Sergej, poi guardò da una parte e sentì allentarsi la tensione del corpo: un momento dopo provò una gran debolezza. Lentamente, pesantemente si appoggiò con una mano al tavolo, lasciò cadere i giornali, prese una sedia e si accomodò. Gettò a Sergej sguardi timidi con cui chiedeva comprensione, senza sapere esattamente per che cosa voleva essere compreso. Infine disse: “Non ci riesco più.”
“Non riesci più a fare cosa?”
“Tutto. Ho paura. Della sceneggiatura, del fallimento, della vita, della morte...” Poi raccontò del progressivo tracollo degli ultimi tre mesi. Sergej lo stava a sentire, faceva cenni di assenso e apriva bottiglie di birra.
Intorno alle dodici bevvero le ultime due bottiglie della cassa e, dopo un momento di silenzio, Sergej disse: “Ne verremo fuori”. Paul sorrise, sfinito.
Più tardi – mentre Paul fissava la luce della lampada da comodino proiettata sul soffitto, ascoltava il russare di Sergej nella stanza a fianco e per la prima volta stava pensando seriamente di deludere le attese di tutti, di mollare il film per il diploma e di ingoiare la sua più grande sconfitta – arrivò la fata.
Aleggiava ai piedi del letto e disse: “Buona sera”.
Paul si drizzò e levò le mani in gesto di difesa. Neppure l'aura della fata riusciva a superare la sua momentanea tendenza al terrore.
“Non abbia paura” disse la fata, “sono una fata e sono venuta per esaudire un suo desiderio. Mi scusi per l'ora tarda, ma oggi ho avuto molto da fare. A dire la verità volevo venire domani mattina, ma il suo caso è stato definito particolarmente urgente.” La fata sorrise gentilmente. Poi si guardò intorno e notò le bottiglie di birra vuote, la scatola aperta di Honey Smacks e l'odore di lenzuola non cambiate da molto tempo. L'appartamento era ordinato e pulito, ma le lenzuola, i vestiti e il frigorifero puzzavano, perché ormai Paul non sentiva quasi più gli odori.
Lentamente Paul ritrasse le mani, ma continuò a guardarla terrorizzato. A terrorizzarlo non era il fatto che lei sostenesse di essere una fata e che attraverso di lei vedesse in trasparenza il televisore. Nelle settimane precedenti, Paul aveva combattuto con tanti incubi, deliri e scenari apocalittici che un'apparizione fantastica in più non lo sconvolgeva di certo. Anzi, la fata si inseriva naturalmente in una lunga serie di esseri (Dio, il diavolo e il gatto nero del vicino) con cui negli ultimi tempi si era intrattenuto regolarmente. Molto di rado una fata era stata considerata da un essere umano più reale di quanto facesse Paul in quel momento. Ma in fondo era proprio per questo che il terrore cresceva di secondo in secondo. Perché il fatto che fosse comparsa una fata, per lui poteva avere un solo motivo logico.
Con voce angosciata chiese: “Sto per morire?”
“Morire?” La fata lo guardò sorpresa. “Ma no, cosa le viene in mente?”
“Pensavo...” Paul si interruppe. Si sentiva come se avesse perso il peso corporeo e fosse così leggero da doversi tenere saldo ai bordi del materasso. “...perché allora... come... è sicura?”
“Certo che sono sicura. Non andiamo mai dai moribondi. Desiderano quasi sempre la stessa cosa e non possiamo esaudirla.”
Paul non capiva cosa volesse dire la fata, e non gli interessava neppure. Voleva solo esultare.
“Va bene, adesso si calmi e cerchi di ricordare il desiderio.”
“Quale desiderio?”
“Quello che ha espresso o pensato alcuni giorni fa. Altrimenti non sarei qui.”
“Un desiderio?” Per la prima volta da settimane, Paul sorrise sollevato e, quando si sentì ridere, rise ancora di più.
La fata aspettò che finisse l'attacco di riso. “Per quello che ne so erano venti. Ma ne posso esaudire uno solo. Sono esclusi i seguenti settori: immortalità, salute, denaro, amore.”
Appena la fata ebbe finito, Paul rimase immobile a fissarla, ma il suo sguardo si faceva sempre più rilassato. “Perché l'immortalità no?”
“Non lo deve chiedere a me. Le regole non le ho fatte io.”
“E... diciamo...” Paul si passò la lingua sulle labbra, pensava che se non avesse dovuto morire, o per lo meno avesse avuto più tempo, un fallimento come sceneggiatore forse non sarebbe stato più così importante. E forse, se anche lui avesse partecipato almeno un po' all'eternità, non avrebbe sentito la necessità di fare un film che diventasse eterno. “...Solo due secoli di vita?”
La fata scosse la testa. “L'immortalità esclude anche una vita più lunga. Cioè, potrebbe esserci l'eccezione di un paio di giorni o addirittura di una settimana, ma deve essere ben motivata e chiaramente definita.”
“Ben motivata?”
“Ma sì, prendiamo il caso che lei desideri – cosa che alla sua età è davvero inverosimile, ma prendiamolo lo stesso come esempio – far arrivare a qualcuno dopo la sua morte una determinata informazione, perché teme di non avere il coraggio di farlo mentre è in vita. Una cosa simile potremmo arrangiarla. Oppure se volesse dire addio alla vita durante un fine settimana a Venezia con sua moglie o qualche cosa del genere. Allora si potrebbe allungare. Capisce?”
“Certo, ma...” Paul sentì che stava riprendendo forza. La fata voleva un buon motivo e lui ce l'aveva. Si piegò un po' in avanti. “... Vede, io sono un regista e uno sceneggiatore e ho in testa un film davvero grande. Voglio dire, un film che posso fare solo io. Anche se spiegassi ogni dettaglio a un'altra persona, non potrebbe mai realizzarlo come lo immagino io. Sarebbe scadente e artefatto, perché nessuno avrebbe alle spalle la mia anima, la mia melodia, il mio scopo. E per questo ho bisogno di più tempo...” Paul levò la testa all'altezza della fata e le gettò uno sguardo febbricitante e implorante. “... Altrimenti non ce la faccio!”
“Stia pur certo” disse la fata “che è proprio se dovesse avere più tempo che non ce la farebbe.” E si arrabbiò con il suo capo che le stava sempre col fiato sul collo. È vero che quelli che hanno paura di morire erano considerati casi urgenti, ma con gli artisti conta l'esperienza: senza la paura della morte non riescono a combinare niente. Ne hanno bisogno. Probabilmente sarebbe bastato venire l'indomani, o magari la settimana dopo.
“Ma non decida così in fretta! Prima ha detto: 'Se è ben motivato'. Il mio film...”
“Il suo film” lo interruppe la fata “in questo caso non c'entra nulla. Le ho spiegato le regole e non posso cambiarle. Non ci sono altre possibilità, o un desiderio secondo le regole o niente desiderio. A parte questo, mi pare che il desiderio di vivere in eterno sia eccessivo anche per chi, qualunque ne sia il motivo, crede di essere in punto di morte.”
Paul guardò furibondo la fata. Come? Il suo film non c'entrava nulla? Aveva fatto visita a lui e voleva sentire il suo desiderio, oppure si limitava a svolazzare da chiunque per esaudire un desiderio qualsiasi? Come se lui fosse uguale a tutti gli altri. E poi perché considerare eccessivo voler vivere in eterno? Lui aveva in mente cose importantissime!
“Giovanotto, devo davvero pregarla di esprimere il desiderio. A causa sua ci sono altre persone che devono aspettare e che probabilmente sarebbero felicissime di vedere esauditi desideri realizzabili.”
“Altre persone!” Paul fece un gesto sprezzante. “Che cosa possono desiderare? Un'auto nuova, una settimana a Ibiza?”
“Suvvia, forza! E nel caso non lo avesse capito, la possibilità di esprimere un desiderio non è illimitata nel tempo.”
“Ah sì?! Allora...!” Paul avrebbe voluto cacciare la fata.
“Cerchi di ricordare i desideri degli ultimi giorni. È poco probabile che fra quelli ci fosse vivere duecento anni.”
“Come fa a saperlo?”
“Lo so. Non si desidera una cosa così fantastica. E anche lei ci ha pensato solo quando le ho detto che non era possibile.”
“E allora perché lo dice?!”
“Mi dispiace. Di solito le mie visite si svolgono in maniera meno complicata. Nel suo caso tuttavia... probabilmente ha ragione, avrei fatto meglio a tenere la bocca chiusa, ma questo adesso non ci aiuta.”
Il tono conciliante della fata fece sparire la rabbia di Paul. Gli serviva un po' di tempo per potersi allontanare dalla porta del paradiso – si sentiva in questo stato d'animo – e ritornare alla vita quotidiana, ma alla fine disse, sospirando: “Va bene. Nell'ultimo periodo ho quasi sempre desiderato di non avere più paura”.
“Bene, ha visto? Ora se potesse essere un po' più preciso. Non vuole avere più paura, per esempio, che bruci la sua casa o che scoppi una guerra? Oppure si tratta di una paura speciale?”
“Di fallire. Nella mia sceneggiatura, nel mio film, nel mio lavoro. Sono settimane che non combino niente per la folle paura di fare un passo falso.”
“Va bene...” La fata esitò. Aveva fatto pressioni sul giovane, e lui non aveva nessuna colpa se il suo capo la spediva lì a tarda sera, quando era già stanca morta. “... Ma è sicuro che di tanto in tanto un po' di paura non le mancherà?”
“Mancarmi la paura? Certo che no!”
“Come vuole” disse la fata, “il suo desiderio è esaudito.”


Il mattino seguente, Sergej convinse Paul a fare colazione in un caffè, e per Ia prima volta da settimane Paul si ritrovava fra altre persone. Si comportavano come se tutto fosse normale: Sergej raccontò di Belgrado, parlarono dei conoscenti, sparlarono dei colleghi e Paul era felice che l'amico non accennasse alla sera precedente. Solo alla fine, prima di recarsi a un appuntamento, Sergej chiese: “Devo tornare oggi pomeriggio?”
La notte precedente, tranquillizzato dalla presenza di Sergej, Paul per la prima volta da molto tempo aveva dormito più di tre ore di fila. Tuttavia rispose: “No, grazie, ci sentiamo al telefono più tardi. Dopo la chiacchierata di ieri mi sembra di stare molto meglio e ora posso finalmente riflettere con calma. E forse è meglio se lo faccio da solo”.
“Va bene, ma devi promettermi di non piazzarti a letto a guardare telefilm di merda.”
“Promesso” disse Paul, e si meravigliò di quanto fosse sicuro di mantenere la promessa. Quella mattina non c'era più nulla che lo potesse trascinare nel pantano fatto di Starsky & Hutch, Honey Smacks e birra. Al contrario, era felice di comperarsi del cibo che fosse davvero tale, di aprire le finestre di casa, di ascoltare musica e di scambiare qualche parola con il vicino sulle scale.
A mezzogiorno – sul fornello cuocevano patate e asparagi, dallo studio si sentiva un concerto per violino di Mozart e nel cortile interno c'erano dei bambini che giocavano rumorosamente a calcio – Paul decise di staccarsi un po' dalla sceneggiatura, fino a quando non si fosse liberato la testa e avesse potuto riprendere dall'inizio. Ma per tutta la serata e il giorno seguente si chiese se la storia che aveva in mente lo coinvolgesse davvero. Era un disoccupato? Si sarebbe trasferito in Siberia? E oggi chi cerca ancora l'oro? E se c'era ancora qualcuno, lui conosceva gente del genere? In fondo era un argomento di cui non sapeva nulla. Cosa si poteva inventare?
Lui e Sergej parlavano ogni sera al telefono delle cose successe durante la giornata, Sergej si informava sulle condizioni di Paul e Paul rispondeva senza mentire che si sentiva sempre meglio. Alla fine della settimana, dopo una lunga assenza, tornò all'accademia cinematografica e poi in birreria con alcuni studenti. Lì, osservò un uomo al tavolo vicino che stava seduto davanti a una birra e guardava verso la porta ogni volta che entrava qualcuno. Gli altri studenti parlavano dei film appena usciti, ma Paul non riusciva a staccarsi dall'immagine dell'uomo seduto al tavolo vicino. Beveva una birra ogni due ore, quindi o non aveva molti soldi oppure non si voleva ubriacare. Forse perché stava aspettando qualcuno con cui doveva parlare di cose importanti? La moglie? L'amante? Aveva una storia d'amore? Quante volte, quando Betty era ancora ufficialmente con un altro, Paul l'aveva aspettata in una birreria! Si riconobbe in questa attesa eccitata, in cui si pregusta la gioia dell'incontro imminente, seppure velata dalla paura che non sia più come l'ultima volta.
Mentre uscivano in strada per andarsene, uno degli studenti disse a Paul: “Sono contento che ti sia rifatto vivo”. E gli altri fecero un cenno di saluto per poi sparire in direzioni diverse. Paul decise di andare a casa a piedi, e sulla strada ripensò ai primi mesi con Betty. Prima non era mai stato così innamorato, credeva di aver trovato la donna della sua vita ed era convinto che non avrebbe più guardato le altre. Un'ebbrezza eccezionale. E vero che col tempo era cambiato tutto, ma i film non durano mai così a lungo.
Di notte, quando per telefono raccontò a Sergej la sua idea, quello disse: “Eh? Una storia sull'attesa e sull'essere innamorati? Ma dov'è la storia?”
“E la condizione in sé. Non voglio un plot particolare e nessun colpo di scena, ma solo l'esatta osservazione di una condizione eccezionale.”
“Condizione eccezionale? Essere innamorato di una donna che ha un altro uomo?”
“Ma certo, naturalmente c'è il lieto fine.”
“Naturalmente. Posso darti un consiglio? Fai passare un paio di settimane e poi torna alla storia dei cercatori d'oro. Quella è una storia, e una storia buona, lascia perdere queste scemenze alla Rohmer.”
“Non mi sembra una scemenza, almeno non come la immagino. Tutto si svolge a Berlino e così c'è il ritmo particolare della città, le birrerie, i bar, le sale da biliardo, la metropolitana, il mercato dei turchi, i cortili interni e tutto con una luce bianca e blu, già lo vedo.”
“Anch'io” sospirò Sergej.
“Sai, nelle ultime settimane mi sono reso conto che non ho nulla a che fare con i cercatori d'oro.”
“Anche ammesso che sia così, resta comunque una storia interessante. Però sono contento che tu stia meglio e che le tue paure siano sparite; anche se forse dovresti avere quantomeno la paura di annoiare a morte, con uno stato d'animo a luci bianche e blu.”
“E anche se fosse? Al massimo annoierà qualcuno. La cosa più importante è che mi sento in sintonia con la vicenda. Per il resto, è solo un film. Nessuna delle due storie cambierà il mondo. E ho tutto il tempo di girare altri film. In ogni caso, mi sembra che un breve momento di tranquillità sia proprio quello che ora mi ci vuole.”
“Okay. Ascolta, adesso purtroppo devo fare le valigie, domattina parto per Belgrado. Ma ritorno fra una settimana e ne parliamo con calma. Non mandare tutto a puttane.”
“Okay. Divertiti e non stressarti troppo a Belgrado.”
“Invece sarà proprio quello che succederà.”
Appena riagganciato, Paul scosse la testa. Per la prima volta si rese conto che Sergej doveva avere dei problemi. Sergej si gettava in maniera fanatica nei suoi progetti, rischiava la pelle per i film, era decisamente un po' troppo isterico. E poi, voleva fare un documentario di sei ore sulla storia di Belgrado nel ventesimo secolo: una cosa meno esagerata non sarebbe andata bene lo stesso? Pretendeva forse di spiegare la guerra in Iugoslavia a tutta Europa o addirittura a tutto il mondo? Certo, era coraggioso, ma non è forse vero che il coraggio lo si alimenta con il timore di non saper rispondere alle attese di qualcuno? Dei redattori televisivi? Degli amici? Dei genitori? Del pubblico? Alle proprie? E anche ammesso che gli effetti collaterali dei timori di Sergej fossero il perfezionismo, l'assorbimento totale e una certa genialità, queste cose alla fine non l'avrebbero distrutto? E un film, anche se è un capolavoro, può costare la vita? No, no, doveva parlargli: tanto, alla fine, l'unica cosa che contava era passare decentemente il tempo. Non era il caso di sotterrarsi se veniva fuori solo una cosa mediocre.
Paul inserì nel lettore un tranquillo CD di Ben Webster, si fece un tè, si accomodò sul divano e pensò a come iniziare il film. L'uomo nella birreria beveva birra o vino? Forse vino bianco, era effervescente, alludeva meglio del vino rosso allo stato di agitazione in cui si trovava. Poteva addirittura funzionare come titolo. Vino bianco, notte nera oppure Vino bianco e pane nero: forse la donna mangiava sempre e solo pane? Ma sì, ormai non aveva più paura e gli sarebbe venuto in mente qualche cosa di bello.


(Racconto tratto dalla raccolta Idioti, Guanda editori, Parma, 2003)


Jacob Arjouni , nato a Francoforte nel 1964, dopo gli studi in Francia ha frequentato la scuola di recitazione a Berlino. Vive attualmente tra Berlino e la Francia. Fra i suoi romanzi, sono apparsi in Italia Happy Birthday, turco!, Carta straccia, Troppa birra, detective, Magic Hoffmann, Un amico.

 

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