QUANDO GLI UOMINI TI CHIAMANO

Soledad Puértolas


 

Improvvisamente sono di buon umore. Non ce n’è ragione. O forse sì. Sono sola. Carlos è in viaggio. Starà fuori per una settimana. Quando va via, m’invade una certa calma. Ascolto lo squillo del telefono con tranquillità. Quando Carlos è in casa, cerco di non rispondere al telefono. Persino quando sono molto vicina, mi allontano e dico ad uno dei miei figli:
“Rispondi , sarà per te.”
E’ vero, è sempre per loro. Ma a volte riattaccano, arrabbiati.
“Niente, non era nessuno.”
Respiro con sollievo. E’ strano quanto li irritano queste chiamate sbagliate.
Chiamate mancate.
“Nessuno?”, chiede Carlos, e mi guarda abbassando il quotidiano.
Carlos è un uomo geloso. Sono sposata con lui da quindici anni e, naturalmente, durante tutto questo tempo sono molto cambiata , ho avuto quattro figli e ho provato qualche delusione e qualche dispiacere. Mi guardo allo specchio e sono cosciente di tutto quello che è cambiato. Ma è rimasto ancora qualcosa in fondo ai miei occhi. Qualcosa è rimasto. Non so neppure cosa sia. Forse l’inquietudine.
Ma ora mi sento bene, molto tranquilla, non solo perché Carlos non è in casa, ma anche perché Fernando non mi telefonerà. Appoggio la testa sui cuscini, mentre le mie mani sfogliano le pagine del libro. Lentamente. Non riesco a concentrarmi nella lettura. Quando sono sola, mi piace pensare.
La mia storia con Fernando è finita un paio di settimane fa. Sembrerà assurdo, ma Fernando non sapeva guidare. Mi faceva trascorrere tutto il giorno portandomi da una parte all’altra di Madrid. Era giornalista. Era sempre al telefono, ad organizzare un’intervista, a prepararne un’altra. S’interessava a qualsiasi cosa. Era un uomo indaffarato. Non smetteva mai di fumare. Mi riempiva la macchina di fumo. Le cicche erano la mia maggiore preoccupazione. Poco prima di parcheggiare la macchina, dovevo fermarmi per svuotare il portacenere. Carlos presta attenzione a queste cose. Un giorno, finii col dimenticarmele. Non si può vivere dipendendo da questi dettagli. Proprio quella mattina, Carlos mi chiese di dargli uno strappo fino al suo ufficio. Carlos fuma tabacco biondo americano. Winston. Fernando lo fuma nero e senza filtro. Io fumo di tutto. Fumo poco e fumo di tutto. Entrambi mi dicono:
“Non sei una vera patita”.
Non lo sono e in cuor mio mi rallegro che finalmente, le cose per i fumatori si stiano mettendo male. Mi stanno riempiendo i polmoni di fumo. E se quelli che conosco smettessero di fumare, non dovrei passare il tempo pensando a svuotare il portacenere della macchina.
Carlos accese una sigaretta e aprì il portacenere. Le cicche erano tutte lì. Schiacciate e sudice, come tutte le cicche. Ma non erano delle Winston. Né delle Malboro. Rimasi in silenzio e guardai davanti a me. La domanda non si fece attendere:
“Di chi sono tutte queste cicche?”
“Di Esther”, dissi tutta d’un fiato.
Naturalmente, Carlos non sapeva chi fosse Esther. Nessuno lo sapeva. Non perse tempo a chiedermelo:
“Chi è Esther?”
“La nuova arrivata”, dissi senza titubare.”Una ragazza stupenda. L’hanno appena trasferita al mio reparto. Credo che diventeremo grandi amiche.”
“Non conosco nessuna donna che fumi tabacco nero senza filtro”, disse Carlos con un tono convincente, pieno di logica.
“E’ una ragazza molto speciale.”
“Molto speciale”, mi guardò con diffidenza, “non vorrai dirmi che…”
“Beh, non lo so.”. Lo guardai di sbieco. Decisi di giocarmi il tutto per tutto. “ Ora che me lo fai notare effettivamente è un po’ mascolina. Ti fa davvero sospettare il fatto che fumi tabacco nero?”
“Stai lontana da lei”, mi disse con calma.
Schiacciò la sua sigaretta bionda nel portacenere traboccante di cicche di tabacco nero.
Noi funzionari siamo pieni di risorse. C’è sempre gente che viene e va di sessione in sessione, di reparto in reparto. Per niente al mondo cambierei il mio lavoro di funzionario. Si guadagna poco, ma in cambio dà molta libertà. E facciamo sempre i turni. Ogni tanto, quando meno me lo aspetto, mi tocca andare di pomeriggio.
Arrivammo nella strada dove si trova l’ufficio di Carlos, scese dalla macchina ed estrasse il portacenere. Gettò le cicche in un cestino. Poi lo rimise al suo posto.
“Niente di Esther”, disse.
Anch’io allora pensai di essere stanca di Esther. Di tutte le bugie della mia vita. Quando rividi Fernando non gli dissi niente, ma lo guardai con svogliatezza.
“Mi sembri molto strana”, disse.
Dopo un momento, insistette:
“Sei preoccupata per qualcosa”.
Alla fine sarebbe dovuto succedere. Una donna sposata deve scegliere. Ed ero stanca, molto stanca. Una donna ha il diritto di esserlo.
“Sai quello che penso?”, disse, mentre teneva lo sportello della macchina con la mano destra. “Credo che tu ti sia stancata di me.”
Sorrisi e rimasi in silenzio. La storia finì qui. Mi chiamò un paio di volte ed inventai delle scuse. Mi chiamò un’altra volta e riattaccai il telefono non volevo più sentire la sua voce.
Oggi sono sola e sto bene, la calma m’invade. Non ho bisogno di loro, ne di Carlos né di Fernando. Federico, mio figlio maggiore, è in camera sua. Studia e ascolta musica. Carlos dice sempre: “Non si può studiare ascoltando la musica”. Mi piace ascoltare la musica che esce, smorzata, della sua camera. Da poco i miei figli più piccoli dormono.
Questa sera potrei uscire. Potrei prendere la macchina e mettermi in strada. Madrid è vicina. Potrei comporre un numero di telefono. Basterebbe.
Mi verso un whisky. Bevo sempre in compagnia. Accendo una Winston, qualcosa di secco, Fumo sempre in compagnia. Faccio sempre quello che fanno gli uomini che mi accompagnano. Premo la tastiera del compact-disc. Schubert. Tutto quello che conosco della musica lo so grazie a Carlos. A Fernando piaceva la musica pop. Quella che ora esce dalla stanza di mio figlio maggiore e che invade tenuamente il corridoio. Gli uomini sanno che musica amano.
Ma questo momento mi appartiene. Ascolto il silenzio del mio cuore. Non è più tardi delle undici della sera. Due settimane senza Fernando. Due giorni senza Carlos. Un pomeriggio, portai Fernando a casa mia, la guardò tutta, molto interessato, con i suoi occhi indagatori da giornalista.
“E’ molto ben messa”, disse.
Non era un rimprovero, ma ebbi la sensazione che qualcuno stesse offendendo qualcun altro, non sapevo se lui me o io lui.
Ora che sono sola mi guardo intorno e concludo che, certamente, sono ben messa. Ma il tempo si è fermato. Sono le undici, ancora. All’improvviso, suona il telefono. Mi spavento. Quello che meno aspettavo in questo momento era il suono del telefono. La linea ha delle interferenze. Alla fine, sento una voce.
“Irene?”
E’ la voce di Carlos. Mi racconta dove si trova, che cosa ha fatto. Mi chiede che cosa ho fatto. Sa già dove sono. Riattacchiamo. Ha chiamato alle undici. Perché alle undici, perché non alle dieci, alle nove, alle otto? Vuole sapere che sono in casa, che tutto è a posto. Gli ho detto:
“Sto ascoltando Schubert”.
“Cosa?”
“Schubert, una sonata di Schubert. I bambini stanno dormendo. Federico sta studiando. Vado a letto subito.
“Buona notte”, mormora, e si congeda.
La sera non resto mai ad ascoltare la musica. Schubert sfuma. Ho finito il mio whisky.
Rimango per un momento sul divano, pensierosa, assorta. Nonostante tutto non voglio andare a letto. All’improvviso, il telefono suona nuovamente e la voce ,quasi dimenticata, di Fernando è lì, dall’altro capo della cornetta, a chilometri, pochi, di distanza, chilometri che ho percorso molte volte per andargli incontro.
“Irene?”, mi chiede. “ Lo so che non vuoi che ti chiami. Ma avevo l’impressione che fossi sola.”
“Si”, dico. “Sono felice che mi hai chiamata. Sono sola.”
“Potremmo vederci?”, chiede.
“Si”, dico.
E penso ancora una volta che ho avuto molta fortuna con gli uomini. Mi chiamano nello stesso momento in cui ne ho bisogno. Mi spruzzo il profumo e m’inciprio il viso. Metto in moto la macchina. Accendo la radio. Cerco l’emittente di musica classica. Forse Schubert un‘altra volta. Dico addio ai semafori. Mi addentro nell’autostrada.


(Traduzione dallo Spagnolo di Samanta Catastini)


(Tratto dal libro Adiós a las novias, (2000), Anagrama editrice)


Soledad Puértolas nasce a Zaragoza il 3 novembre del 1947. Studia giornalismo a Madrid e diventa redattrice della rivista Espaňa Económica dal 1968 al 1970. Dopo il matrimonio vive in Norvegia e in California, dove nasce suo figlio. Rientra a Madrid e nel 1975 diventa assessore nel ministero della Cultura, durante il mandato di Javier Solana. Nel 1980 dirige la casa editrice Destino e si fa conoscere grazie alle sue prime opere narrative. I libri pubblicati fino ad oggi sono molti, tra cui El bandido doblemente armado (1980), Burdeos (1986), Todos mienten (1988), Queda la noche (1989, Premio Planeta), Días del Arenal (1992), Si al atardecer llegara el mensajero (1995), Una vida inesperada (1997) e La señora Berg (1999). Quattro libri di racconti: Una enfermedad moral (1983), La corrente del golfo (1993), Gente que vino a mi boda (1998) e Adiós a las novias(2000). Due racconti per un pubblico giovanile: La sombra de una noche (1986) e El recorrido de los animales (1988). Con La vida oculta (1993) ha vinto il XXI Premio Anagramma de Ensayo. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue.

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