ESTRATTI DAL DIARIO DI LIMA BARRETO

 

Lima Barreto

 

1920, 4 gennaio

Sono in manicomio o, meglio, nei diversi suoi reparti, dal 25 del mese scorso. Sono stato nel padiglione osservazione, che è la tappa peggiore per chi, come me, ci entra trascinato dalla polizia. Ci tolgono i vestiti che portiamo e ce ne danno altri, appena in grado di coprire le nudità, e non ci danno né ciabatte né zoccoli. L’ultima volta che sono stato là mi hanno dato questo articolo di vestiario che mi è oggi indispensabile. Stavolta no. (…). Mi hanno dato una tazza di mate e, subito dopo, quando era ancora giorno, mi hanno buttato sopra un materasso di vegetale con una copertaccia, ben conosciuta dalla nostra povertà e miseria.
Non mi importa molto del manicomio, ma ciò che mi infastidisce è l’intromissione della polizia nella mia vita. Tra me e me, sono sicuro di non essere matto; ma a causa dell’alcol, mescolato a tutti i tipi di preoccupazioni che le difficoltà della mia vita materiale mi danno da sei anni, ogni tanto do qualche segno di pazzia: deliro.
Apparte questa prima volta in manicomio, sono stato colpito da una crisi identica, a Ouro Fino, e portato all’ospedale nel 1916; nel 1917 mi hanno ricoverato all’Ospedale Centrale dell’Esercito per la stessa ragione; ora torno in manicomio.
Sono sicuro che non ci tornerò per una terza volta; se ci esco è per andare al cimitero, che è qui vicino. Do troppo disturbo agli altri, compresi i miei parenti. Non è giusto che vada avanti così.
(…)
Sono tornato in cortile. Che cosa, Dio mio! Stavo lì come un tacchino, in mezzo a tanti altri, governato da un portoghese buono, che aveva un’aria rozza ma anche dolce e compassionevole, da contadino di Tras-os-Montes. Già mi conosceva dall’altra volta. Mi dava del tu e mi ha offerto delle sigarette. La prima volta che venni qui mi misero in isolamento e lui mi fece pulire il terrazzo, lavare i cessi dove mi fece anche un bel bagno con la sistola. Eravamo tutti nudi, con le porte aperte, e io mi sono vergognato molto. Mi sono ricordato del bagni di vapore di Dostoievski, nella Casa dei Morti. Mentre pulivo, ho pianto; ma ho pensato a Cervantes, allo stesso Dostoevskij, che hanno sofferto più di me ad Algeri e in Siberia.
Ah! La letteratura o mi uccide o mi dà ciò che le chiedo.



Dal 29/12/’19 al 4/01/’20

Un’altra cosa che mi ha fatto rabbrividire di paura nel reparto Pinel è stato lo psichiatra. Se da noi, a Rio, ci fosse un’università, potrei dire che lui era stato un mio collega, dato che, quando lui frequentava la facoltà di Medicina io passeggiavo per i corridoi del Politecnico. Non abbiamo mai allacciato rapporti, ma ci conoscevamo. Lui, però, non si è mai presentato e nello stato di umiliazione in cui mi trovavo, non potevo di certo essere io il primo a farlo. Non mi sta antipatico, ma lo ritengo più nevrotico e svanito di me. È capace anche di leggere qualsiasi novità di chirurgia applicata a psichiatria in una rivista norvegese e applicarla, senza alcuna previa riflessione, su di un paziente qualunque.

(…)
Il giorno dopo il mio ingresso nel reparto e il giorno dopo ancora, mi trovai al cospetto del dottore. È un ragazzo dei miei tempi, e deve avere la mia età; l’ho conosciuto che era ancora studente; lui, però, non mi conosceva a quel tempo.
Nei nostri giornaletti scolastici lo prendevamo sempre in giro. Io, però, non mi ricordo di nessuna burla fatta a lui per opera mia. Lui mi trattò molto bene, mi auscultò, gli dissi tutto ciò che sapevo delle conseguenze del mio alcolismo e uscii dalla visita molto soddisfatto per aver visto nel ragazzo una bella persona che non serbava rancore degli scherzi che avrebbe potuto attribuirmi.
Era un’anima buona in cui il dandismo era più un’acquisizione che una manifestazione di superficialità dell’anima e dell’intelligenza. Non mi trovò tanto malridotto e, molto educatamente, mi diede consigli per combattere il mio vizio. Oh! Dio mio! Quanto ho fatto per estirparlo e, sembrandomi che tutti i problemi economici che patisco sono da attribuire a lui, proprio perché li patisco, mi do al bere. Sembra una contraddizione; però è ciò che succede dentro di me. Desideravo un grande shock morale, poiché quelli fisici già li soffro, così come quelli semimorali e come tutte le specie di umiliazioni. Se è stato lo shock morale dell’impazzire progressivo di mio padre, del sentimento di non poter avere la libertà di realizzare l’ideale che avevo nella vita, che mi ha portato al bere, solo un altro altrettanto forte, ma piacevole, che mi aprisse altre prospettive nella vita, forse mi tirerebbe via da questo bere immondo che, oltre a rendermi porco, mi rende anche asino.

Non voglio morire, no; voglio un’altra vita.
Questo non l’ho detto al dottor H., ma avrei voluto dirglielo.



Il mio vizio e la mia pazzia

Sono molte le cause che mi hanno indotto a bere; ma, tra tutte, la principale è stata un sentimento o un presentimento, una paura, senza ragione né spiegazione, di una catastrofe domestica sempre presente. Prevedevo la morte di mio padre e io senza un soldo per seppellirlo; prevedevo malattie dalle terapie costose e io senza i mezzi; mi terrorizzavo per un licenziamento e io senza nessuna raccomandazione di qualcuno che mi trovasse un posto degno della mia istruzione; e io mi avvilivo e cercavo di distrarmi, restando in città a fare le ore piccole; e così ho incontrato la birra, il whisky, le nottate svegliandomi a casa di uno o dell’altro.
La mia casa mi deprimeva, era tanto triste! Mio padre delirava, si lamentava, mugugnava. Io mi intristivo, tanto più che non ne aveva motivo. All’infuori dell’isola del Governatore, in piena campagna a quell’epoca, i cui vantaggi di residenza sono facili da prevedere, non mi ricordavo di aver vissuto in una casa migliore e di aver mai mangiato meglio; ma lui, nonostante ciò, si lamentava.
Inoltre detestavo i vicini e, per questo e per quello che ho detto prima, cercavo sempre di tornare a a casa di buio, quando tutti si erano coricati. Era una sciocchezza completa, visto che uscivo per andare in ufficio in pieno giorno e davanti a tutti. Cose da pazzi…



Qualche malato

Che dire della pazzia? Immerso tra quasi due decine di malati non se ne ha per niente un’idea generale. Ci sono, come in tutte le manifestazioni della natura, i singoli, i casi individuali, ma non c’è o non si percepisce tra loro una forte relazione di parentela. Non ci sono specie, né razze di matti; ci sono i matti e basta.
Ci sono quelli che delirano; ci sono quelli che si chiudono in un mutismo totale. Ci sono anche quelli a cui la molestia mentale fa perdere l’uso della parola o quasi. Quando ero bambino ho visto tanti pazzi e, da studente, conversai molto con coloro che studiano queste cose di matti ma, dall’osservazione diretta e da quello che ho letto e sentito dagli esperti, ho capito bene le loro perplessità di fronte a un problema tanto penoso della nostra natura.
C’è una nomenclatura, una terminologia a seconda dell’uno o dell’altro; ci sono solo descrizioni pazienti.



Sorveglianti ed infermieri.

I sorveglianti in generale, soprattutto quelli del reparto dei poveri, considerano i malati di mente come soggetti senza diritto ad essere trattati con rispetto, esseri inferiori con i quali possono fare ciò che vogliono. Vi ho già raccontato di come pulii il reparto, di come lavai il bagno e di come un medico o tirocinante mi tolse la scopa di mano quando stavo spazzando il giardino.
Ma nella sezione Pinel mi successe una cosa più eclatante a proposito della stupidità del sorvegliante e della sua idea di essere il mio signore e padrone. Costui era un ragazzotto di venti e passa anni, brasiliano, coi capelli sciolti ed un aspetto da chitarrista bohemien. Ero sdraiato sul letto che mi avevano assegnato e lui arrivò sulla porta e domandò:
- Chi di voi è Tito Flaminio? – Sono io, mi affrettai. – Il tuo responsabile manda a dirti di prendere il tuo letto e di andare nella stanza del dottor Q.
Questo era uno studente che aveva avuto un colpo e che viveva nell’ospedale per curare gli effetti dell’insulto che lo aveva lasciato semiparalitico.
Ero stremato per aver trasportato il letto da solo; il beota non si era minimamente preoccupato di mandare un collega ad aiutarmi, dato che lui non lo voleva fare. Fu necessario che un altro malato si offrisse spontaneamente.
Questo sorvegliante è brasiliano. Dopo la mia scalata all’interno del manicomio, lui, quando mi incontra nel refettorio, mi guarda con una certa sfiducia. Verso di lui e verso il Bragança nutro un certo rancore, ma verso quelli che mi dettero del tu e verso Camillo, del reparto, che mi fece lavare, pulire e spazzare, non ne nutro nessuno.

(…) Dico con franchezza che, dovessi anche vivere cent’anni, non riuscirò mai a cancellare dalla memoria le umiliazioni che ho sofferto. Non per le umiliazioni in quanto tali, ma perché queste mi hanno convinto del fatto che questa vita non vale niente, tutti i ruoli vengono meno e tutte le precauzioni per un grande futuro sono vane.
Io avevo tutto, io ho tutto per averle potute evitare e soprattutto non le ho provocate. Sono istruito, sono educato, sono onesto, ho cercato il più possibile di avere una vita pura. Sembrava che essendo così – essendo cioè un ragazzo che prima di sedici anni era già in una scuola superiore ( e tutti mi lodavano per la mia intelligenza, che anche oggi nessuno mi nega) fossi a riparo da tutto questo.
Ma io e la sorte, la sorte ed io ci siamo fusi in tale maniera, affratellati, da finire immersi in queste disgrazie.
Fin dalla mia entrata al Politecnico sono caduto di sogno in sogno ed ora, che ho quasi quarant’anni, sebbene la gloria mi abbia dato qualche bacio furtivo, io sento che la vita non ha più sapore per me. Comunque non voglio morire; vorrei un’altra vita, vorrei dimenticare quella che ho vissuto, magari anche perdendo qualcuna delle qualità che ho, ma vorrei che fosse placida, serena, mediocre e pacifica, come quella di tutti.
A volte penso così, altre volte vorrei soffocare in me qualsiasi desiderio, annichilire la mia vita e svanire nel tutto universale. Questo passare più volte da un manicomio all’altro, da un ospedale all’altro mi ha dato una angoscia di vivere talmente dolorosa da farmi pensare che per il mio dolore non esista medicina.

Sono orgoglioso di essermi sforzato molto per realizzare il mio ideale, ma allo stesso tempo mi avvilisce il fatto di non essere riuscito a trovare denaro né una posizione redditizia che mi facesse rispettare.
Ho sognato Spinoza, ma non ho avuto la forza per realizzare la sua vita; ho sognato Dostoevskij, ma mi è mancata la sua nebbia.



Una recensione:

IL MULATTO GENIALE

Alvaro Costa E Silva


– Due libri, Toda Crônica (Tutta la cronaca) e O cementério dos vivos (Il cimitero dei vivi), attestano la permanenza nella letteratura dello scrittore carioca Lima Barreto –



Bastava un sorso di cachaça, fosse anche il primo, perché Lima Barreto cominciasse a barcollare. Nipote di schiavi, scribacchino al Ministero della Difesa, privo di eleganza e vanità (si direbbe proprio il contrario di quei damerini che timbravano il cartellino sulla porta delle pasticcerie e caffè della Rua do Ouvidor, della Rua Gonçalves Dias o della Avenida Central, al Centro di Rio, era quasi un barbone), alcolista, sottostimato e ripudiato dalla società preconcetta di allora, fu tuttavia il più importante romanziere brasiliano dell’inizio del secolo passato.
Uno stupendo scrittore, la cui opera è sempre attuale. La pubblicazione di Toda Crônica (2 vol.), a cura di Beatriz Resende e Rachel Valença, novità più importante tra quelle che segnano i 60 anni della casa editrice Agir, e la ristampa di O cemitério dos vivos della Planeta, confermano appieno questo giudizio.
Mulatto dalla pelle olivastra, Lima Barreto aveva spesso gli occhi socchiusi, come un gattino appena nato. Il critico Agrippino Grieco notò in lui “un sorriso un po’ misterioso da malese”, soprattutto quando si lasciava andare nelle bettole del centro di Rio, con gli altri beoni, facendosi coraggio per tornare a casa, nel quartiere periferico di Todos os Santos dove viveva col padre, vedovo e malato di mente, e i due fratelli.
Sul treno della Central do Brasil viaggiava sempre in seconda classe e, essendo ubriaco, era solito parlare da solo, spacciandosi per un gran duca esiliato dalla Russia, disposto a mandare tutti quelli che giudicava suoi nemici ( si legga di scrittori di successo tra i quali Machado de Assis e Coelho Neto) in Siberia. Dava l’impressione di non notare niente di quel che lo circondava ma vedeva tutto e ne prendeva nota mentalmente per i suoi futuri romanzi, racconti e cronache. In quel periodo, vicino ai 30 anni, era all’apice della sua carriera di scrittore, avendo pubblicato O triste fim de Policarpo Quaresma a puntate, sul Jornal do Commercio.
Nato nel 1881, Lima Barreto visse la Rio che si civilizzava. Ciò significa che lui apparteneva a quel periodo in cui la città era sottoposta a una enorme ristrutturazione: il Bota-Abaixo, durante il quale si demolirono più di 500 case solo per aprire la Avenida Central (oggi Rio Branco). Per le strade fangose comparivano le prime automobili e i tram elettrici che Lima, sempre critico, chiamava “i mastodonti della Light”. Oltre alle pasticcerie Colombo e Pascoal, grandi rivali, c’erano i caffè dove si riuniva l’ambiente intellettuale dell’epoca: Cascata, Java e Papagaio. La popolazione non superava le 730mila anime e sembrava che tutte passeggiassero per la Rua do Ouvidor. Ma non era proprio così: c’erano le periferie. E Lima Barreto, per ricordare quello che tutti cercavano di dimenticare.
In quella Rio che voleva ostentare arie chic da straniera, – il sindaco Pereira Passos era, esageratemente, paragonato al barone Haussmann, autore della ristrutturazione di Parigi – Lima Barreto nuotava controcorrente. Nelle sue cronache egli preferiva scrivere delle zone Nord e Leopoldina; dei loro balli e delle loro feste popolari, dei viaggi interminabili in treno, dei funerali più tristi del mondo, della vita della classe medio bassa e del proletariato, dei neri, degli ubriachi, dei pazzi, delle difficoltà che provava sulla propria pelle. Per lo scrittore quello che caratterizzava il cambiamento della città – sbancamento di colline, interramento del mare – la sfiguarava e vedeva in esso un privilegio per i ricchi e il disprezzo verso le aree in cui si concentrava la povertà.
Lima non faceva sconti: in un articolo pubblicato sulla rivista Época, del 20 luglio 1917, mostrava tutta la sua indignazione, usando come pretesto un incidente avvenuto nella Rua da Carioca: “Rio è una città con una grande estensione e una popolazione poco densa, così andare da Méier a Copacabana diventa un vero e proprio viaggio e tutto senza uscire dalla zona urbana. Del resto non si è fatta una stima dei terreni, tranne che in certe strade o addirittura, solo per alcuni tratti di esse. Non si è fatta però, diceva, in modo così tirannico da richiedere la costruzione di sky- scrapers su fazzoletti di terra. Perché si fanno allora? Per imitare, per cattiva e sordida imitazione degli Stati Uniti, di quello che è più stupido – la brutalità. C’entra anche la cupidigia ma è stimolata dalla filosofia corrente che ci insegna ad imitare quel potente paese”.
Come si può notare, leggendo le sue cronache, ci sorprende il fatto che sembrino scritte ieri; persino l’impiego del termine inglese per grattacieli – o sarà piuttosto l’ironia del mulatto geniale?


(Tratto da Idéias, supplemento di letteratura del Jornal do Brasil, Gennaio 2005. Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi allievi della Laurea di Specializzazione in Traduzione Letteraria dell’Università di Pisa.)

Afonso Henriques de Lima Barreto nacque a Rio de Janeiro nel 1881. Fu impiegato pubblico, giornalista e scrittore. Figlio di un tipografo dell’Imprensa Nacional (Stampa Nazionale) e di una professoressa, entrambi mulatti, fu avviato agli studi dalla madre, che perse quando aveva sette anni.
Suo padre avrebbe voluto che il figlio diventasse medico, ma Lima Barreto optò inizialmente per l’ingegneria civile. Dovette però abbandonare gli studi, nel 1902, per assumersi la responsabilità ed il sostentamento della famiglia a causa della malattia mentale del padre, allora magazziniere della Colonia Psichiatrica nell’Ilha do Governador (Isola del Governatore). Entrò, per concorso, nella Segreteria della Difesa dove iniziò a lavorare come scrivano.
Nel 1905 cominciò a scrivere dei reportage per il Correio da Manhã (Corriere del Mattino). Nel 1909 pubblicò il suo primo libro, il romanzo “Recordações do Escrivão Isaías Caminha” (“Ricordi del cancelliere Isaias Caminha”). Nell’agosto del 1911, il “Jornal do Commercio” (Giornale del Commercio) comincia a pubblicare, a puntate, il suo romanzo “Triste fim de Policarpo Quaresima” (“Triste fine di Policarpo Quaresima”) che aveva scritto dal gennaio al marzo di quell’anno.
Nel 1914 fu internato per la prima volta in manicomio (dal 18 de agosto al 13 di ottobre). Da lì in poi si sarebbero succeduti i ricoveri e le licenze mediche, quasi sempre derivanti dall’alcoolismo.
Nei primi mesi del 1916 esce, sotto forma di volume, il romanzo “Triste fine di Policarpo Quaresima” che include anche alcuni notevoli racconti come “A Nova Caliofòrnia” (“ La Nuova California”) e “O homen que sabia javanês” (“L’uomo che sapeva il giavanese”) che vennero accolti bene dalla critica che vide in Lima Barreto il successore legittimo di Machado de Assis.
Passò a scrivere per il settimanale politico A.B.C. Nel luglio del 1917, dopo il ricovero in ospedale, consegna al suo editore J. Ribeiro dos Santos gli originali de “I Bruzundangas” , satire, pubblicato solo nel 1922, in mese dopo la morte dell’autore.
Gli fu preclusa una promozione all’interno della Segreteria della Difesa per aver partecipato, come giurato, al processo degli accusati nell’episodio denominato “Primavera di Sangue” (1910) che condannò i militari coinvolti nell’assassinio di una studentessa.
Influenzato dalla Rivoluzione Russa, a partire dal 1918 passò a militare nella stampa socialista, pubblicando nel settimanale alternativo A.B.C. un manifesto in difesa del comunismo. Nel 1919 fu internato per la seconda volta in manicomio.
Candidatosi per due volte a membro dell’Accademia Brasiliana di Lettere, la prima volta la sua richiesta non fu presa in considerazione, la seconda non riuscì a farsi eleggere.
A posteriori ricevette menzione onorevole dalla stessa Accademia.
Morì di cirrosi epatica; al suo funerale parteciparono in molti, ma non c’erano gli intellettuali e l’alta società; c’erano i poveri e gli anonimi della periferia dei quali scriveva.




.
.
         Precedente    Successivo         Copertina.