TRIBUNALI CIVILI
– 3 novembre –

Virginia Woolf



Sono stata spinta dalla curiosità a entrare in un tribunale, perché avevo letto di un prete che sembrava possedere una fede incrollabile, tanto da portare la religione a contatto con gli aspetti più intimi della vita. Sembrava degno di nota: faceva pregare il nemico con lui.
A ogni modo, devo riconoscere che all’inizio pareva di assistere a una tortura. L’uomo era in piedi di fronte a tutti noi, e gli fu richiesto di descrivere i suoi rapporti con la moglie. Si trattava della natura umana che rendeva conto alla natura umana. Stava a noi giudicare. Per fortuna l’uomo, a ogni evidenza, era sorretto da una specie di formalismo, di modo che le sue espressioni non erano così intime e quindi così penose come avrebbero potuto essere. Rivendicò il ruolo del marito ideale che deve insegnare, tollerare e aiutare la parte più debole.
Non diceva che la pura verità e la corroborava con giuramenti. Era stato attento a non commettere mai alcun peccato: allo stesso tempo, era inflessibile. La moglie si sentiva depressa; lui aveva ritenuto doveroso, nonostante i suoi scrupoli, farla andare a teatro, era assai occupato con i doveri parrocchiali – sempre a predicare, sempre sovraffaticato. La moglie era caduta nelle mani di Miss Lewis, che le aveva rivelato di essere un’incompresa. “Quella parola terribile, incompresa” disse il parroco, compiaciuto di scoprire che i suoi non erano che guai comuni. Miss Lewis sedeva accanto a me. Aveva un viso ardito, volgare, tutto teso nello sforzo di sfidare il mondo apertamente. Era vecchia e infelice, ma forse non aveva neanche quarant’anni.
Il suo unico scopo era stato quello di assorbire completamente la signora Whittingstall; non era in cerca di denaro. Aveva distrutto il loro matrimonio con il più vile degli attacchi. La signora W. era una donnetta isterica tutta presa a curare la propria salute, con un carattere bisbetico; ma era pur sempre una signora e (forse) non interamente a suo agio con la vile amica del cuore; Miss Lewis era quella che prendeva le decisioni. Come al solito, il signor Whittingstall aveva ragione; la W. si disperava, vedendo che nessuno riusciva a capire la crudeltà insita nella rettitudine del marito. Per lei era un incubo. La Lewis insieme a un paio di amiche e a un’infermiera erano le uniche a capire: l’intero mondo maschile era contro di lei. Nessuno poteva nutrire dubbi su un uomo che ricordava ogni singola data; che era così preciso da ammettere il proprio carattere irascibile – eppure aveva provato a controllarsi con la preghiera e il silenzio; che aveva subito affermato di “adorare” la moglie - ma per lui la cosa più importante era la sua reputazione come pastore della Chiesa anglicana; che chiaramente aveva sofferto e che, a quanto gli era dato di capire, si era comportato bene. Bisognava credergli; ma, mentre parlava, metteva in luce anche l’altro punto di vista. Era un uomo privo di pietà o di fantasia; un formalista e, forse, un egoista. La religione, tra l’altro, lo assorbiva completamente. La religione, credo, era in gran parte responsabile di tutto questo. E poi si preoccupava di ciò che pensavano di lui i parrocchiani.
Senz’altro lei era la meno convenzionale dei due, anche se la meno irreprensibile. Lui era chiaramente confortato, comprendendo che la sua reputazione era intatta e sapendo di aver agito correttamente e di aver detto la verità. C’è da immaginare che lei si agiterà per un po’; poi verrà il momento del disinganno, quando Miss Lewis l’abbandonerà per un’altra donna; quindi lei tornerà dal marito e verrà accolta con la dovuta carità cristiana; e le verrà assegnata qualche penitenza che durerà per tutta la vita.
Mi hanno colpito due cose: la prima è il modo in cui lui diceva: “Come può davvero chiedermi, Sir Edward, se nel corso di quattordici anni di matrimonio mi sono mai avvicinato a mia moglie quando piangeva?”. Sembrava rivelare la vera vita matrimoniale; che tipo di rapporto monotono e naturale sia; gli esseri umani così reali, che si danno l’un l’altro un po’ di conforto, dopo aver logorato tutti i travestimenti, ed entrambi oppressi. Entrambi che soffrono.
L’altra cosa che mi ha colpito è il suo racconto di un’accesa discussione con la moglie, durante la quale lui brandì un crocifisso per “rendere solenne la scena”; lei disse che era un sacrilegio, e lui prese un candeliere di terracotta e cominciò a maneggiarlo “come si maneggia una penna o una matita”. Ma il candeliere apparteneva a lei, perciò dovette riporlo quando lei glielo chiese; c’era però una ciotola che apparteneva a lui, perciò cominciò ad armeggiare con quella, e non ci fu verso di fargliela rimettere a posto. E’ strano che in un momento come quello ciò potesse occupare la loro mente; che pensassero a chi appartenevano il candeliere e la ciotola.


(Brano tratto da Casa Carlyle di Virginia Woolf, Mondadori, 2004. I testi raccolti in questo libro sono stati pubblicati per la prima volta in Inghilterra solo nel 2003: casualmente è stato ritrovato questo quaderno inedito contenente appunti scritti nel 1909. Tradotto da Alessandro Gallenzi ed Elisabetta Minervini.)



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