Eccessi di culture

 

Mauro Aimé

 

Babbo Natale e i crocifissi.

Ottobre 2001. A Ceva, tranquilla cittadina in provincia di Cuneo, il preside di una scuola decide di fissare uno dei giorni di vacanza facoltativi alla data di inizio del Ramadan. La decisione, presa collegialmente con gli insegnanti, scatena immediatamente reazioni di protesta di chi accusa la scuola di piegarsi alle esigenze dei musulmani.
Dicembre 2001. A Drezzo, paese di mille abitanti in provincia di Como, al confine con la Svizzera. il sindaco si presenta nella scuola elementare vestito da Babbo Natale per portare doni ai bambini. Nulla di strano, si potrebbe pensare; ma le maestre chiedono al primo cittadino di allontanarsi, sostenendo che l'iniziativa potrebbe urtare la sensibilità dei cinque piccoli alunni musulmani che frequentano la scuola. Babbo Natale, secondo le insegnanti, sarebbe politicamente scorretto in quanto, nel corso di una riunione tra genitori e insegnanti, si era concordato che la festa dovesse avere un carattere laico, anche grazie a una scelta di brani da far cantare ai piccoli alunni e selezionati tra quelli della tradizione, ma privi di connotazioni "confessionali" All'accaduto seguono le proteste della Lega, alla quale il sindaco appartiene, e l'immancabile minaccia di un'interrogazione parlamentare da parte dei deputati "padani".
Questi episodi sono solo un esempio di come sia cresciuta in questi ultimi anni l'attenzione per le culture altre e per la loro diversità. Sia chi considera questa molteplicità culturale come una ricchezza sia chi, invece, la teme e la osteggia, mette in evidenza il fatto che esistono delle differenze e che vanno prese in considerazione. L'accento è sempre posto sulla diversità, quasi mai sugli elementi comuni, che invece sono dati per scontati, taciuti, non considerati o ignorati. La diversità fa eccezione, quindi fa notizia.
Tali episodi, forse, non avrebbero varcato i confini della provincia italiana se non fossero accaduti poco dopo l'attentato dell'11 settembre - un evento che ha acuito, e talvolta generato, le tensioni tra gli occidentali e il cosiddetto mondo islamico dando vita, soprattutto a livello mediatico, alle prove di quello scontro fra civiltà profetizzato da Samuel Huntington.
Ma Babbo Natale è davvero un simbolo cristiano tale da offendere la presunta religiosità di un bambino islamico? Anzitutto Babbo Natale non rientra nella tradizione cattolica italiana ma, come scrive Maria Laura Rodotà, è una figura diventata popolare e poi irrinunciabile dopo la seconda guerra mondiale; che ha americanamente cambiato la cultura del festeggiamento e dei consumi, come il piano Marshall se ci si pensa. E ora è una figura interreligiosa: nelle vere cattedrali Usa, i centri commerciali, in questi giorni migliaia di Babbi Natale intrattengono bambini cristiani, ebrei, musulmani, buddisti e non potrebbe essere che così.
Babbo Natale non appartiene pertanto alla nostra "tradizione", se con questo termine intendiamo ciò che percepisce la maggior parte di coloro che fanno appello alle tradizioni per difendere la propria identità. Babbo Natale, o Santa Claus, è arrivato sino a noi dagli Stati Uniti ma, come afferma Claude Lévi-Strauss, i diversi nomi dati al personaggio che ha il compito di distribuire i giocattoli ai bambini [...] dimostrano che si tratta di un fenomeno di convergenza e non di un prototipo antico conservato ovunque [...]. La forma americana non è che la più moderna di tali trasformazioni.
Insomma, Babbo Natale è globalizzato e globalizzante. È un vecchio vestito di rosso, con la barba bianca, che viaggia su una slitta trainata da renne, animali pressoché sconosciuti ai nostri bambini, e che porta doni. Quanto c'è di religioso in tutto questo? Quando ero piccolo e la cultura made in Usa non era ancora così pervasiva, a portare i doni era Gesú Bambino, lui si legato alla tradizione cattolica. Ma per noi bambini c'erano due piccoli Gesù: uno era quello rappresentato dalla statuina nel presepe, che rimandava la nostra immaginazione a un'idea di religione che forse non eravamo in grado di decifrare, l'altro una figura misteriosa che attendevamo con ansia per vedere i regali che ci avrebbe portato.
Sempre nell'ottobre 2001, in una scuola media di La Spezia, la professoressa di lettere fa staccare il crocifisso dalla parete della classe per favorire l'integrazione di un bambino islamico, figlio di una famiglia di nomadi accampati nella zona. Reazioni di alcuni genitori, e anche in questo caso polemiche immediate e altrettanto immediate prese di posizione piú o meno strumentali dei politici locali'.
Pochi mesi dopo, nel maggio 2002, il deputato leghista Federico Bricolo, insieme ad altri parlamentari del suo partito, presenta una proposta di legge che prevede l'affissione del crocifisso in tutte le aule scolastiche, e piú in generale negli uffici della pubblica amministrazione. Questo perché, sostiene Bricolo, "il Crocifisso è un elemento irrinunciabile del patrimonio storico e culturale del nostro paese. Le recenti polemiche relative alla presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche portate avanti in nome di una pretestuosa libertà di culto, hanno invece profondamente ferito questo nostro valore".
Nel settembre dello stesso anno Letizia Brichetto Moratti, ministro dell'Istruzione, riprende la proposta di Bricolo in quanto "sembra doveroso assicurare che il crocifisso venga esposto nelle aule scolastiche a testimonianza della profonda radice cristiana del nostro paese e di tutta l'Europa"'. Le fa eco Gianni Baget Bozzo affermando che il crocifisso "è il simbolo di tutti, senza distinzioni".
Colpisce, in queste dichiarazioni, la volontà di appropriarsi in modo strumentale di un simbolo religioso, piegandone il significato a uso politico. Bricolo sostiene che il Cristo in croce è una sorta di simbolo dell'identità nazionale, ma questa affermazione è assolutamente contraria al significato universale, e quindi implicitamente transnazionale, espresso dal messaggio cristiano. Proprio per il suo universalismo, la religione cristiana è incompatibile con un progetto nazionale.
Peraltro Bricolo è un esponente della Lega, e nel proporre l'obbligo di quanto, secondo lui, rappresenta un simbolo nazionale contraddice in pieno le continue e spesso eccessive manifestazioni antinazionali esplicitate dal suo partito: come, per esempio, il braccio di ferro sostenuto con gli alleati di governo per abolire l'espressione "interesse nazionale" nella legge sulla devolution. Anche l'affermazione che il crocifisso esprima la radice cristiana dell'Italia e dell'Europa rappresenta un'altra forzatura: non tutti gli europei, cosi come non tutti gli italiani, professano tale religione. Inoltre la raffigurazione della morte di Cristo non è condivisa dai protestanti i quali, seppur cristiani, non ne contemplano l'esposizione.
Il crocifisso non è affatto il simbolo di tutti, senza distinzioni, è il simbolo di una scelta di fede ben precisa. Perché allora volerlo imporre a tutti, magari per legge, e trasformarlo in simbolo esclusivo di una nazione, un fondamento di identità? Questo vale sia per chi vuole tradurre un segno di fede in strumento di chiusura e di rivendicazione identitaria sia per chi, in nome di un marcato relativismo e della laicità della scuola, vede in quel crocifisso l'espressione di una religione che può divenire pericolosa per chi non la professa.
Nell'ottobre 2003 ha fatto scalpore la sentenza emessa dal tribunale dell'Aquila che rendeva ragione ad Adel Smith, presidente dell'Unione musulmani italiani, il quale aveva richiesto la rimozione del crocifisso dalla scuola di Ofena, frequentata dai suoi figli. Questa volta le reazioni sono state diverse: pochi hanno difeso quella sentenza, e anche molte associazioni di islamici in Italia ne hanno preso le distanze. Premesso che la Costituzione italiana proclama la laicità dello Stato e pertanto della scuola pubblica, chiedere la rimozione del crocifisso facendo appello a tale imparziale laicità è profondamente diverso dall'avanzare la stessa richiesta in nome di un altro credo antagonista. Lo stesso Smith, noto per le sue posizioni estremiste e la vocazione alla provocazione, in precedenza aveva chiesto - e per un certo periodo ottenuto - di far affiggere nell'aula della scuola la sura del Corano, che sostiene l'unicità di Allah. A differenza dei politeismi, piú aperti e tolleranti, i monoteismi, come afferma Francesco Remotti, distinguono nettamente "noi" dagli "altri", anziché collocare noi tra gli altri, risultando in tal modo esclusivi ed escludenti: ma davvero dietro la polemica del crocifisso possiamo leggere un'incompatibilità religiosa, se non uno scontro tra culture?
Tutti noi ricordiamo le aule di scuola con il crocifisso appeso al muro, alle spalle della maestra, spesso affiancato dalla fotografia del presidente della Repubblica. Oggi, da adulti, possiamo dire che percepiamo quelle due immagini come i simboli della religione e dello Stato; ma allora, da bambini e da ragazzini, che cosa rappresentavano per noi? Anche il piú laico degli italiani non può dirsi estraneo all'educazione cattolica, ma l'acquisizione di uno spirito cattolico non passava certo attraverso la semplice affissione di crocifissi sui muri delle aule scolastiche: se mai era dovuto alla continua azione evangelizzatrice portata avanti dalla Chiesa a partire dalle lezioni di catechismo e dalle frequentazioni degli oratori.
Scrive Umberto Eco:
"Almeno due generazioni di italiani hanno passato l'infanzia in aule in cui c'era il crocifisso in mezzo al ritratto del re e quello del duce, e sui trenta alunni di ciascuna classe parte sono diventati atei, altri hanno fatto la Resistenza, altri ancora, credo la maggioranza, hanno votato per la Repubblica. Sono tutti aneddoti, se volete, ma di portata storica. e ci dicono che l'esibizione di simboli sacri nelle scuole non determina l'evoluzione spirituale degli alunni."
Quel crocifisso come quel re o quel presidente sono simboli - importanti, ma simboli.
Da un lato, quindi, appare vano il tentativo di rafforzare il senso di appartenenza a una religione imponendo agli scolari i suoi simboli così come quello di laicizzare la scuola abolendoli, dall'altro sembra eccessiva l'importanza attribuita a quegli stessi simboli. Perché se è vero che non c'è potere che non determini un suo ordine simbolico è altrettanto vero che non basta infrangerne l'ordine simbolico per spezzare quel potere. In un'epoca mediatica come quella che stiamo vivendo, sicuramente colpiscono piú certi appelli lanciati dal papa o le azioni promosse da religiosi come Alex Zanotelli o Luigi Ciotti che l'esposizione del crocifisso.
Senza dubbio in buona fede, le insegnanti di quella scuola hanno voluto salvare il bambino islamico dalla contaminazione cristiana, così come in buona fede il sindaco di Drezzo voleva solo allietare i bambini. Di fatto, ponendo un eccessivo accento sulle diversità culturali, si rischia di costruire barriere, proiettando sugli "altri" differenze che, forse, potrebbero essere superate, attenuate o ignorate. Porre in primo piano la diversità significa accentuare una presunta impermeabilità delle culture di cui gli individui sono portatori.
Vale la pena di ricordare le parole dello storico e scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ, una delle figure piú belle della storia africana contemporanea. Un personaggio dotato di grande carica umana e spirituale e di un raro senso di tolleranza. Ecco il suo commento dopo aver pregato sul Monte Sion, nel 1961, per la pace nel mondo - lui, musulmano, con un prete cattolico e un rabbino ebreo:
"Non c'è che una sola cima in punta a una montagna, ma i sentieri per raggiungerla possono essere diversi. Considero ii Cristianesimo, l'Ebraismo e l'Islam come tre fratelli di una famiglia poligama, dove c'è un solo padre, ma dove ogni madre ha cresciuto suo figlio secondo i propri costumi, Ogni moglie parla del marito e del figlio secondo la propria concezione".
Paradossalmente, e in piena buona fede, per tutelare la laicità si è giunti quasi a professare, specularmente a chi vuole imporre i crocifissi, una sorta di fondamentalismo laico, simile a quello che Verena Stolcke, in un articolo su confini e retoriche d'esclusione nell'Europa contemporanea, ha brillantemente definito "fondamentalismo culturale". Secondo questo approccio gli esseri umani sono per natura portatori di cultura, le culture sono distinte e incommensurabili, i rapporti fra portatori di culture differenti sono intrinsecamente conflittuali.
Il sociologo Zygmunt Bauman - citando le parole di Julius Evola, guida spirituale del neo-fascismo italiano, che afferma: "Il razzista riconosce la differenza e vuole la differenza" - fa notare come questa frase non perderebbe nulla della sua forza persuasiva se il termine "razzista" fosse sostituito da "progressista" o "liberale" oppure "socialista". E conclude: "oggi non siamo forse tutti sostenitori della differenza? Multiculturalisti? Pluralisti"?



(Brano tratto dal primo capitolo del saggio Eccessi di culture Einaudi editore, Torino, 2004)


Mauro Aimé insegna Antropologia culturale presso l'Università di Genova. Ha pubblicato Il mercato e la collina (Torino, 1997); Sapersi muovere, in collaborazione con S. Allovio e P. P. Viazzo (Roma, 2001); La casa di nessuno (Torino, 2002), e ha curato M. Mauss, Saggio sul dono (Einaudi, 2002).

 


        
Precedente   Successivo    IBRIDAZIONI    Pagina precedente