DISECONOMIZZARE LE MENTI


Serge Latouche



Cancellare l'immaginario sviluppista e decolonizzare le menti

Di fronte a una globalizzazione che rappresenta il trionfo planetario del tutto-è-mercato, bisogna concepire e promuovere una società nella quale i valori economici smettano di essere centrali (o unici). L'economia deve essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa corsa folle verso consumi sempre crescenti. Ciò non è solamente necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla Terra, ma anche e soprattutto per far uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera e propria decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomizzazione delle menti, necessarie per cambiare veramente il mondo prima che il degrado dell'ambiente e della società ci condanni al dolore. Bisogna iniziare a vedere le cose altrimenti perché possano divenire altre, per concepire soluzioni veramente originali e innovatrici. Si tratta di mettere al centro della nostra vita significati e ragioni d'essere diversi dall'espansione della produzione e del consumo.
La parola d'ordine della rete è dunque "resistenza e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa, ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come attitudine mentale di rifiuto e come igiene di vita. Resistenza e dissidenza come attitudine concreta per tutte le forme di auto-organizzazione alternativa. Ciò significa partecipare alla concezione e alla creazione di società conviviali. Ma questo implica in primo luogo il rifiuto della complicità e della collaborazione con questa impresa di lavaggio del cervello e di distruzione planetaria che costituisce l'ideologia dello sviluppo.


Miraggi e rovine dello sviluppo

La globalizzazione attuale ci mostra ciò che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. È lo stadio ultimo dello sviluppo realmente esistente e contemporaneamente la negazione della sua concezione mitica. Se lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro che la prosecuzione della colonizzazione con altri mezzi, la nuova globalizzazione, a sua volta, non è che la prosecuzione dello sviluppo con altri mezzi. Conviene dunque distinguere lo sviluppo come mito e lo sviluppo come realtà storica.
Si può definire lo sviluppo realmente esistente come un'impresa volta a trasformare in merce i rapporti degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli, è, come la colonizzazione che lo precede e la globalizzazione che lo segue, un'opera al tempo stesso economica e militare di conquista e di dominio. E lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, a generare la maggior parte degli attuali problemi sociali e ambientali: esclusione, sovrappopolazione, povertà, varie forme di inquinamento ecc.
Quanto al concetto mitico di sviluppo, si articola in un dilemma. I casi sono due. Se la parola "sviluppo" designa tutto e il contrario di tutto, in particolare l'insieme delle esperienze storiche e culturali dell''umanità, dalla Cina degli Han all'impero Inca, allora non designa nulla in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica e sarebbe meglio sbarazzarsene. Se invece la parola possiede un contenuto proprio, questo é necessariamente collegato con l'avventura del decollo (take-off) dell'economia iniziato con la rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-80; allora, qualunque sia l'aggettivo che si affianchi al termine "sviluppo", il suo contenuto implicito o esplicito è la crescita economica, l'accumulazione del capitale con tutti gli effetti positivi e negativi che ad essa si riconoscono. Dunque il nocciolo duro che tutti gli sviluppi hanno in comune con questa esperienza é legato a rapporti sociali molto particolari: quelli del modo di produzione capitalista. Gli antagonismi di "classe" sono largamente occultati dalla pregnanza dei "valori" comuni più o meno condivisi da tutti: il progresso, l'universalismo, il controllo sulla natura, la razionalità quantificatrice. Ma questi valori sui quali riposa lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali profonde: sono legati alla storia dell'Occidente e raccolgono un'eco limitata nelle altre società. All'infuori dei miti che la fondano, l'idea di sviluppo è totalmente priva di senso, e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente impossibili perché impensabili e vietate dalle culture locali. Oggi questi valori occidentali devono essere rimessi in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le quali l'economia mondiale ci sta trascinando. Il post-sviluppo è contemporaneamente post-capitalismo e post-modernismo.


I nuovi aspetti dello sviluppo

Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell'impresa sviluppista, siamo entrati nell'era degli sviluppi con l'aggettivo. Abbiamo visto sorgere sviluppi autocentrati, endogeni, partecipativi, comunitari, integrati, autentici, autonomi e popolari, equi, durevoli... senza parlare dello sviluppo locale, del microsviluppo, dell'endo-sviluppo e persino dell'etnosviluppo! Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l'accumulazione capitalista, tutt'al più si pensa di aggiungere un elemento sociale o una componente ecologica alla crescita economica, come si è potuta aggiungere recentemente una dimensione culturale. Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo, infatti, si regge sempre più o meno su idee di cultura, natura e giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Abbiamo persino creato per l'occasione un mostro scaccia chiodo: il malsviluppo. Questa è una chimera aberrante per chi crede che lo sviluppo immaginato sia per definizione l'incarnazione stessa del Bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo, perché sviluppo significa buona crescita, e la crescita è anch'essa un bene che nessuna forza del male può intaccare...
È l'eccesso stesso di dimostrazioni del suo carattere benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo.
Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale e lo sviluppo sostenibile non sono altro che gli ultimi nati di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a far entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora alla sua morte, lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l'era dello sviluppo qualificato (umano, sociale ecc.), gli umanisti canalizzano, strumentalizzandole, le aspirazioni delle vittime dello sviluppo puro e duro del Nord e del Sud. Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose. Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile (sustainable), messo in scena alla Conferenza di Rio nel giugno 1992, è un bel bricolage concettuale; si tratta di una mostruosità verbale per la sua antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale, testimonia la dominazione dell'ideologia sviluppista. Ormai, la questione dello sviluppo non riguarda più solamente i Paesi del Sud, ma anche quelli del Nord.
Se la retorica pura dello sviluppo con la relativa pratica dell'espertocrazia volontarista non è più una ricetta valida, il complesso delle credenze escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti e rispettosa dell'ambiente, che si può definire "sviluppismo", resta intatto. Lo "sviluppismo" manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c'è posto in questo paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua essenza, e lo sviluppo alternativo come un miraggio.


Oltre lo sviluppo

Parlare di doposviluppo non è solamente lasciar correre l'immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso d'implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare un problema accademico. E parlare della situazione di quelli che attualmente, al Nord e al Sud, sono esclusi o lo stanno diventando; di tutti quelli per cui lo sviluppo è un'offesa e un'ingiustizia e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della terra. Il doposviluppo si delinea già tra noi e si annuncia nel segno della diversità.
Il doposviluppo, infatti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modi di rigoglio collettivo nei quali non sarà privilegiato un benessere materiale distruttore dell'ambiente e dei legami sociali. L'obiettivo della buona vita si declina in molteplici modi secondo i contesti. In altri termini, si tratta di ricostruire nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato umran (rigoglio) come in Ibn Khaldun, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene insieme) come dicono i Toucouleurs, o in qualsiasi altro modo. L'importante è dare un significato alla rottura con l'impresa di distinzione che si perpetua sotto il nome, ieri, di sviluppo, e oggi di globalizzazione. Per gli esclusi, per i naufragi dello sviluppo, non può trattarsi che di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni originali di cui si può trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un doposviluppo. Bisogna contemporaneamente pensare e agire globalmente e localmente. Solo nella mutua fecondazione dei due approcci si può tentare di superare l'ostacolo della mancanza di prospettive immediate. Proporre la decrescita come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili ad oggi e mettere in opera delle alternative concrete localmente sono prospettive complementari.

Decrescere e abbellire

La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente, ma anche per ripristinare un minimo di giustizia sociale senza il quale il pianeta è condannato a esplodere. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono solamente un problema di equità intergenerazionale nella spartizione delle disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri umani attualmente viventi.
Decrescita non significa immobilismo conservatore. La maggior parte delle saggezze ritenevano che la felicità si realizzasse nella soddisfazione di un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle vecchie società s'integravano in una riproduzione allargata ben temperata, più o meno adattata ai limiti naturali.
Preparare la decrescita significa, in altri termini, rinunciare all''immaginario economico, cioè alla credenza che più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono compiersi con costi minori. La riscoperta della vera ricchezza nel fiorire delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano può realizzarsi con serenità nella frugalità, nella sobrietà, nella semplicità volontaria, se non addirittura in una certa austerità nel consumo materiale. Una decrescita accettata e ben pensata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa.
La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come fine di marcare con forza l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca sfrenata del profitto da parte dei detentori del capitale. Evidentemente, non mira al rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita. In particolare, la decrescita non va intesa come crescita negativa, espressione antinomica e assurda che traduce bene la dominazione dell'immaginario della crescita (questo vorrebbe dire alla lettera: "avanzare indietreggiando"...). Sappiamo che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nel caos a causa della disoccupazione e del taglio dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Immaginiamo quale catastrofe produrrebbe un tasso di crescita negativa! Così come non c'è niente di peggio che una società laburista senza lavoro, non c'è niente di peggio che una società di crescita senza crescita. La decrescita non è del resto immaginabile se non si esce dall'economia della crescita per entrare in una "società di decrescita". Ciò suppone un'organizzazione totalmente diversa, dove sia valorizzato il tempo al posto del lavoro, dove i rapporti sociali primeggino sulla produzione e sul consumo di prodotti usa-e-getta, inutili se non nocivi. Una riduzione drastica dell'orario di lavoro per assicurare a tutti un'occupazione ne è la condizione di partenza.
Ci si può ispirare alla carta "consumi e stili di vita" proposta dal forum delle ONG di Rio, sintetizzabile nel programma delle 6 "R": Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Questi sei obiettivi interdipendenti innescano un circuito virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Rivalutare vuoi dire rivedere i valori nei quali crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quello che bisogna cambiare. Ristrutturare vuol dire adattare l'apparato produttivo e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori. Ridistribuire si riferisce alla ripartizione della ricchezza e dell'accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuoi dire diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare. In fine, Riutilizzare le apparecchiature e i beni d'uso, anziché gettarli in discarica, e riciclare gli scarti scomponibili delle nostre attività. La critica radicale dei valori della modernità non implica necessariamente il rifiuto di ogni scienza o tecnica. Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all'Occidente il cui il sogno progressista ci ossessiona. Tuttavia aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l'accesso all'acqua potabile, la trasparenza dei corsi d'acqua e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell'aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. Ci sono ancora molti "progressi" concepibili per lottare contro l'invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatica, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell'umanità, senza parlare dei "progressi" da fare per la democrazia. La realizzazione di questo programma è parte integrante dell'ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate ancora in gran parte da ideare. Sarebbe ingiusto tacciarci di tecnofobia e antiprogressismo per il solo fatto che reclamiamo un "beneficio di inventario" sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è il minimo nell'esercizio della cittadinanza.


Nord e Sud

Il doposviluppo e la costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al Nord e al Sud.
Semplicemente, per il Nord, la diminuzione della pressione eccessiva esercitata dal modo di funzionamento occidentale sulla biosfera è un'esigenza di buon senso e nello stesso tempo una condizione di giustizia sociale ed ecologica.
Per quanto riguarda i Paesi del Sud, frustrati dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di crescere, d'altronde), quanto di riannodare il filo della loro storia rotto dalla colonizzazione, dall'imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale. La riappropriazione dell'identità è un preliminare per dare soluzioni appropriate ai loro problemi. Può essere sensato ridurre la produzione di certe culture destinate all''esportazione (caffè, cacao, arachidi, cotone, ma anche fiori, gamberetti d'allevamento, legumi e agrumi fuori stagione ecc.) come invece può diventare necessario aumentare la produzione delle colture di sussistenza. Si può pensare anche a rinunciare all'agricoltura produttivista dei Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare riforme agrarie, riabilitare l'artigianato che si è rifugiato nell'informale ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale direzione può prendere per loro la costruzione del doposviluppo.
In ogni caso, la rimessa in causa dello sviluppo non può né deve apparire come un'impresa paternalistica e universalistica che la assimilerebbe a una nuova forma (ecologista, umanitaria...) di colonizzazione. Il rischio è ancora più forte perché gli ex colonizzati hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. Anche se le sue radici sono meno profonde, l'immaginario economico, e in particolare l'immaginario sviluppista, è senza dubbio, e paradossalmente, ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi del male. Pensano che l'economia sia il solo mezzo per risolvere la povertà quando è proprio quella che la genera. Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere che sia il contrario fa parte del problema.




(Brano tratto dal saggio Decolonizzare l'immaginario, Editrice missionaria italiana, Bologna, 2004. Traduzione di Roberto Bosio.)




Serge Latouche (Vannes, Francia, 1940), sociologo dell'economia ed epistemologo delle scienze umane, è esperto di rapporti economici e culturali Nord/Sud.



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