La Lavagna Del Sabato 13 Ottobre 2007


RISCOPRIRE BERGMAN

Dopo aver conquistato la venerazione del pubblico europeo, il regista svedese fu quasi rinnegato.
Forse è arrivato il momento di tornare a guardare i suoi film senza pregiudizi


Antonio Muņoz Molina

 






Nell'universalità di un'opera d'arte c'è sempre un malinteso. Ci piace pensare che un bel film sia anche abbastanza ricco di significato da stimolare interpretazioni molto diverse a seconda dell'epoca o dei paesi e perfino a seconda degli individui che lo guardano. Ma può anche darsi che questa varietà di significati rifletta non tanto la profondità o l'ambiguità del film, quanto lo sguardo e il mondo dello spettatore. Penso al successo di Woody Allen in Spagna o alla passione con cui nei primi anni settanta molti cinefili della mia generazione, me compreso, guardavano i film di Ingmar Bergman. A parte i pantaloni di velluto, le camicie a quadri e le giacche sportive, Woody Allen non somiglia minimamente, per idee e stile di vita, agli ormai anziani progressisti spagnoli che tanto si identificano in lui. E cosa poteva avere in comune l'universo nordico, social-democratico e sessualmente progredito di Bergman con quella Spagna dove i suoi film erano diventati per molti una sorta di bandiera culturale ed esistenziale? Quando arrivai a Madrid, nei giorni grigi della fine della dittatura, i film di Bergman si vedevano nei cineclub o alla cineteca nazionale di calle Infantas. Avevano il mistero delle cose quasi proibite e un'aura intellettuale legata al fatto che erano in versione originale con i sottotitoli. Già qualche tempo prima, quando abitavo in provincia, avevo scoperto Bergman in un ambiente ancora più rarefatto, quello dei cineclub di parrocchia, dove la proiezione di un film somigliava a una cerimonia religiosa, a metà strada tra un cenacolo primitivo e la teologia moderna, come una sorta di esistenzialismo cattolico. Prima che si spegnessero le luci un giovane prete introduceva brevemente la pellicola. Poi, quando le luci si riaccendevano, si metteva davanti allo schermo bianco e ci invitava, fregandosi le mani, a partecipare al dibattito sul film: si chiamava "cineforum". Ricordo tre serate di seguito passate al cineclub dei gesuiti di Úbeda, dove vidi per la prima volta, a diciassette anni, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole e La fontana della vergine. Il loro impatto visivo alimentava la vocazione alla profondità esistenziale di noi adolescenti, una tendenza forse esasperata dalla vita di provincia e dal confuso risveglio della nostra coscienza politica. All'improvviso c'erano film che non si guardavano solo per divertimento e in cui si rifletteva lo spirito del regista, uno spirito tormentato, secondo il critico sacerdote. Erano film con un messaggio che andava decifrato, e che richiedevano un'esegesi simile a quella riservata ai passi evangelici. Intuivamo che capire Bergman significava raggiungere una statura prima ignota, per certi versi oscura, ma anche accattivante.
Fino ad allora i film erano stati solo un passatempo, l'allegria in technicolor dei cinema all'aperto le sere d'estate, la consolazione e il rifugio delle domeniche invernali, la possibilità di un'avventura in cui per un verso o per un altro non mancava mai l'erotismo. Bergman era un'altra cosa. I film di Bergman non erano proiettati nei cinema commerciali, ma in oscure sale ecclesiastiche, catacombe di un'iniziazione intellettuale che era un assaggio di quanto avrei incontrato in seguito a Madrid. Un film di Bergman serviva a distinguerci dagli altri, era come portare sottobraccio un libro di Kafka o di Miguel Hernández, come lasciarsi crescere la barba, come ascoltare Lluis Llach o Paco Ibánez.
Cos'aveva a che fare tutto questo con il mondo di Ingmar Bergman, con quello che succedeva nei suoi film, con le cose che i suoi personaggi dicevano o tacevano? Bergman era forse pedante come quegli spettatori che potevano discutere per ore sul significato di ogni dettaglio dei suoi film? Era davvero un credente tormentato, come assicuravano gli specialisti tonacati? Per quanto ci sforzassimo, il nostro paesaggio erotico e morale era più vicino a Due ragazzi da marciapiede che non alle tortuose sottigliezze emotive di Scene da un matrimonio. I personaggi di Bergman sembravano oppressi dal vuoto e dalla noia di chi ha già esplorato tutte le possibilità della libertà: per noi la libertà era soprattutto un miraggio del futuro.
La fede confina sempre con l'apostasia: arrivò anche il momento di abiurare Bergman, come prima era arrivato quello di venerarlo. Se avevamo creduto di diventare adulti passando da Per qualche dollaro in più a Il settimo sigillo, le nostre velleità da cinefili ci avrebbero portato a riscoprire Sergio Leone e Clint Eastwood e a fare ironia sulla pesante solennità del nostro vecchio eroe svedese. Se bisognava vendicare la Ingrid Bergman eternamente giovane di Casablanca e Notorius, chi poteva tollerare il modo in cui il sadico Bergman la ritraeva nella sua vecchiaia in Sinfonia d'autunno? Non andare a vedere i film di Bergman si trasformò in un atteggiamento pedante molto simile a quello di chi non se ne perdeva neanche uno. Forse è giunto il momento di tornare a vedere quei film, senza i pregiudizi del passato, senza i malintesi dell'età e dell'epoca. Forse adesso somigliamo di più ai personaggi di Bergman.



(Tratto dalla rivista Internazionale N° 708, del 6 settembre 2007.)


Antonio Muñoz Molina è uno scrittore spagnolo nato nel 1956. Il suo ultimo libro è Finestre di Manhattan (Mondadori 2006). Il regista svedese Ingmar Bergman, nato a Uppsala nel 1936, è morto a Faro il 30 luglio 2007.Questo articolo è uscito su El País.

 





        
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