UN RUMORE IN FONDO ALL'ANIMA

- Brano tratto dal romanzo Amuleto -



Roberto Bolaņo




Come vi stavo dicendo, io frequentavo León Felipe e Pedro Garfias senza soste né slealtà, senza opprimerli mostrando loro le mie poesie né raccontando le mie pene, semmai tentando di rendermi utile, però naturalmente facevo anche altre cose.
Avevo la mia vita privata. Avevo un'altra vita, e non mi limitavo a cercare il calore di quei notabili della letteratura in castigliano. Avevo altre necessità. Facevo qualche lavoro. Tentavo di fare qualche lavoro. Mi muovevo e mi disperavo. Perché vivere nel DF* è facile, come tutti sanno o credono di sapere, ma è facile solo se hai un bel po' di soldi o una borsa di studio o una famiglia o quantomeno un rachitico lavoro occasionale, e io non avevo niente, il lungo viaggio che mi aveva condotto alla regione più trasparente mi aveva svuotata di molte cose, e tra esse dell'energia necessaria per fare di volta in volta il lavoro che fosse capitato. E allora tutto ciò che facevo era andare in giro per l'università, più concretamente per la facoltà di Lettere e Filosofia, impegnandomi in lavori volontari, diciamo così: un giorno aiutavo a battere a macchina le lezioni del professor Garcia Liscano, un altro giorno traducevo testi dal francese nel dipartimento di Francese, dove c'era pochissima gente che dominasse davvero la lingua di Molière, e io non è che voglia star qui a dire che il mio francese è ottimo, ma di sicuro era buonissimo al confronto di quello che parlava la gente del dipartimento, un altro giorno ancora mi appiccicavo come una zecca a un gruppo che faceva teatro e passavo otto ore, senza esagerare, a guardare le prove che si ripetevano fino all'eternità, andavo a cercare qualcosa da mangiare, armeggiavo in via sperimentale con i riflettori, recitavo le battute di tutti gli attori con una voce quasi impercettibile che soltanto io sentivo e che soltanto me faceva felice.
A volte, non molte, riuscivo a ottenere un lavoro remunerato, un professore mi girava un po' del suo stipendio per fargli, diciamo così, da aiutante, oppure i capi del dipartimento riuscivano a ottenere che loro stessi oppure la facoltà mi facessero un contrattino per quindici giorni, un mese, a volte un mese e mezzo con incarichi aleatori e ambigui, nella maggior parte dei casi inesistenti. Oppure ci pensavano le segretarie, che erano tutte ragazze simpatiche, tutte amiche mie, e tutte mi raccontavano le loro pene d'amore e le loro speranze, talvolta erano loro ad arrangiarsi per fare in modo che i loro capi mi passassero qualche lavoretto che mi permettesse di guadagnare un po' di pesos. Questo durante il giorno. La notte conducevo una vita decisamente più da bohémien, con i poeti del Messico, e la cosa mi risultava altamente gratificante e perfino conveniente visto che a quei tempi i soldi scarseggiavano e io non avevo neppure di che pagarmi una pensione. Però in generale di soldi ne avevo, certo. Non voglio esagerare. Avevo i soldi sufficienti per vivere e i poeti del Messico mi prestavano libri di letteratura messicana, all'inizio erano le loro raccolte di poesie, i poeti sono così, poi passarono agli imprescindibili e ai classici, e in questo modo le mie spese si riducevano al minimo.
A volte riuscivo a passare anche una settimana intera senza spendere un soldo. Ero felice. I poeti messicani erano generosi e io ero felice. A quei tempi cominciai a conoscerli tutti e tutti loro conobbero me. Eravamo inseparabili. Io di giorno vivevo in facoltà, come una formichina o per meglio dire come una cicala, da una parte all'altra, da un cubicolo all'altro, sempre informatissima su tutti i pettegolezzi, tutte le infedeltà e tutti i divorzi, sempre al corrente di tutte le tragedie. Come quella del professor Miguel López Azcárate, che fu lasciato dalla moglie, e Miguelito López non riuscì a sopportare il dolore, io ne ero al corrente, me lo raccontavano le segretarie, una volta mi fermai lungo un corridoio della facoltà e mi unii a un gruppo che discuteva non so quali aspetti della poesia di Ovidio, può darsi che ci fosse il poeta Bonifaz Nuño, può darsi che ci fosse lo stesso Monterroso e due o tre poeti giovani. Quel che è certo è che c'era il professor Lopez Azcárate, che non aprì bocca fino alla fine (trattandosi di poeti latini l'unica autorità riconosciuta era quella di Bonifaz Nuño). Di cosa parlammo? Madonna santa, di cosa parlammo? Non me lo ricordo esattamente. Ricordo soltanto che il tema era Ovidio e che Bonifaz Nuño pontificava, pontificava e pontificava. Probabilmente stava stroncando un novello traduttore delle Metamorfosi di Ovidio. Monterroso sorrideva e annuiva in silenzio. E i poeti giovani (o forse erano soltanto studenti, poverini) facevano suppergiù la stessa cosa. E anch'io. Io allungavo il collo e li guardavo fissi. E ogni tanto lanciavo un'esclamazione aldisopra delle spalle degli studenti, che era come aggiungere altro silenzio al silenzio. E allora (in un determinato momento di quell'istante che è davvero esistito, non posso certo averlo sognato) il professor López Azcárate aprì la bocca. Aprì la bocca come se gli mancasse l'aria, come se quel corridoio della facoltà di colpo fosse entrato in una dimensione sconosciuta, e disse qualcosa riguardo all'Arte di amare, di Ovidio, qualcosa che colse di sorpresa Bonifaz Nuño, che sembrò interessare oltremodo Monterroso e che i giovani poeti o studenti non capirono, e neppure io. Poi diventò rosso, come se il senso di soffocamento risultasse francamente insopportabile, e qualche lacrima, non molte, cinque o sei, gli scivolò lungo le guance fino a restare impigliata nei baffi, un paio di baffi neri che cominciavano a imbiancare alle punte e al centro e gli conferivano un'aria che mi era sempre sembrata molto strana, come una zebra o qualcosa del genere, un paio di baffi neri che, comunque, non avrebbero dovuto essere lì, che chiedevano a gran voce un rasoio, un paio di forbici, e facevano sì che se uno avesse guardato in viso López Azcárate per troppo tempo, avrebbe compreso senza il minimo dubbio che si trattava di un'anomalia e che con quell'anomalia sul viso (con quell'anomalia volontaria sul viso) le cose inevitabilmente sarebbero andate a finire male.
Una settimana dopo López Azcárate si impiccò a un albero e la notizia corse per la facoltà veloce come un animale terrorizzato. Una notizia che mi fece diventare piccola piccola quando la ricevetti, battevo i denti e allo stesso tempo ero meravigliata perché la notizia, non c'è dubbio, era brutta, pessima, ma allo stesso tempo era anche fantastica, era come se la realtà ti dicesse all'orecchio: guarda che sono ancora capace di fare grandi cose, sono ancora capace di sorprenderti, stupida, e di sorprendere anche tutti gli altri, guarda che sono ancora capace di muovere cielo e terra per amore.
La notte, naturalmente, mi espandevo, tornavo a crescere, mi trasformavo in un pipistrello, mi lasciavo alle spalle la facoltà e vagavo per il DF come un folletto (mi piacerebbe dire come una fata, ma farei torto alla verità), e bevevo, discutevo, partecipavo a conversazioni letterarie (le ho conosciute tutte), davo consigli ai giovani poeti che già allora venivano da me, magari non tanto come accadde in seguito, e io per tutti avevo una parola, ma cosa dico una parola, per tutti avevo cento parole, mille, sembravano tutti nipotini di López Velarde, pronipoti di Salvador Díaz Mirón, i giovani maschietti tribolati, i giovani e mesti maschietti delle notti del DF, i giovani maschietti che arrivavano con i loro fogli piegati in quattro, i loro libri consumati e i loro quaderni sudici e si sedevano nei bar che non chiudono mai o nei bar più deprimenti del mondo nei quali io ero l'unica donna, io e a volte il fantasma di Lilian Serpas (ma di Lilian parlerò più avanti), e me li davano da leggere, insieme alle loro poesie, i loro versi, le loro traduzioni a singhiozzo, mentre io prendevo quei fogli e li leggevo in silenzio, di spalle al tavolo dove tutti brindavano e cercavano con ansia di essere ingegnosi, ironici o cinici, poveri i miei angioletti, e mi immergevo fino al midollo in quelle parole (mi piacerebbe definirle un flusso verbale, ma farei torto alla verità, perché lì non c'erano flussi verbali ma semplici balbettii), per un istante rimanevo sola con quelle parole rese goffe dallo sfolgorio e dalla tristezza della gioventù, per un istante rimanevo sola con quei pezzi di specchio in frantumi, e mi guardavo o per meglio dire mi cercavo in quel mercato di paccottiglia. E il bello è che mi trovavo! Ero proprio io, Auxilio Lacouture, gli occhi azzurri, i capelli biondi con qualche filo bianco, un taglio a caschetto, la faccia magra e oblunga, le rughe sulla fronte, e la mia stessa essenza mi dava i brividi, mi faceva sprofondare in un mare di dubbi, mi faceva guardare con sospetto il domani, i giorni che si avvicinavano con una velocità da crociera, anche se d'altra parte mi confermava che vivevo il mio tempo, il tempo che io avevo scelto, il tempo che mi circondava, tremante, mutevole, pletorico, felice.
Fu così che arrivai all'anno 1968. O che l'anno 1968 arrivò a me. Adesso potrei dire che io l'avevo previsto. Adesso potrei dire che fu un presentimento terribile e che non mi colse alla sprovvista. L'avevo auspicato, l'avevo intuito, l'avevo sospettato, subodorato fin dal primo minuto di gennaio; fu un presagio, un indizio che nacque fin da quando saltò il primo tappo (e l'ultimo) di quell'innocente gennaio di festa. E se neppure questo bastasse potrei anche dire che ne sentii l'odore nei bar e nei parchi, nel febbraio o nel marzo del '68, ne sentii la quiete preternaturale nelle librerie e nelle bancarelle degli ambulanti che preparavano da mangiare per strada, mentre assaggiavo tacos di carne, in piedi, nella calle San Ildefonso, contemplando la chiesa di santa Caterina da Siena e il crepuscolo messicano che veniva giù come un delirio, prima che l'anno '68 diventasse veramente il '68.
Ah, mi viene da ridere quando lo ricordo. Mi viene voglia di piangere! Sto mica piangendo? No, perché io ho visto tutto e allo stesso tempo non ho visto niente. È chiaro quello che sto cercando di dire? Io sono la madre di tutti i poeti e non ho consentito (o forse è stato il destino a non consentirlo) che l'incubo mi demolisse. Le lacrime ora corrono sulle mie guance devastate. Io ero in facoltà quel 18 settembre quando l'esercito violò l'autonomia ed entrò nel campus per arrestare o uccidere mezzo mondo. No. All'interno dell'università non ci furono molti morti. Accadde a Tlatelolco. È quello il nome che deve restare scolpito per sempre nella nostra memoria! Ma io ero in facoltà quando l'esercito e i granatieri entrarono e pestarono tutti quelli che vi si trovavano. Ma non è questa la cosa più incredibile. Io ero nel bagno, sì, nei gabinetti di uno dei piani della facoltà, il quarto credo, non potrei dirlo con precisione. Ero seduta sul water, con la gonna rimboccata, come dice la poesia o la canzone, e stavo leggendo le poesie delicate di Pedro Garfias, che era morto ormai da un anno, povero don Pedro così malinconico, una tristezza che gli veniva dalla Spagna e dal mondo in generale, e chi poteva immaginare che sarei stata lì a leggerlo proprio nel momento in cui quei bastardi dei granatieri entravano nell'università. Io credo, e permettetemi questo inciso, che la vita sia carica di cose enigmatiche, piccoli avvenimenti che stanno solo aspettando il contatto epidermico, il nostro sguardo, per scatenarsi in una serie di fatti casuali che poi, visti attraverso il prisma del tempo, non possono non produrci spavento o sorpresa. Di fatto, grazie a Pedro Garfias, grazie alle poesie di Pedro Garfias e al mio inveterato vizio di leggere nel bagno, io fui l'ultima ad accorgermi che i granatieri erano entrati, che l'esercito aveva violato l'autonomia universitaria, e che mentre le mie pupille correvano sui versi di quello spagnolo morto in esilio, i soldati e i granatieri erano lì che arrestavano, perquisivano, malmenavano tutti quelli che si trovavano davanti senza curarsi del sesso o dell'età, della condizione civile o dello status acquisito (o regalato) nell'intricato mondo delle gerarchie universitarie.
Diciamo che io sentii un rumore.
Un rumore in fondo all'anima!
E diciamo che subito dopo il rumore andò crescendo e che già allora cominciai a prestare attenzione a quel che accadeva, sentii che qualcuno tirava la catena di un water vicino, sentii una porta che sbatteva, passi lungo il corridoio, e il clamore che saliva dai giardini, da quel prato così ben curato che delimita la facoltà come un mare verde delimita un'isola sempre disposta alle confidenze e all'amore. E fu allora che le bollicine della poesia di Pedro Garfias fecero plop e io
chiusi il libro e mi alzai, tirai la catena, aprii la porta, dissi qualcosa ad alta voce, dissi, cazzo, che sta succedendo di fuori, ma nessuno mi rispose, tutte le abituali frequentatrici del bagno erano sparite. Cazzo, dissi, non c'è nessuno? Ma sapevo già che non avrei avuto risposta. Non so se conoscete quella sensazione, una sensazione tipo film del terrore, ma non di quelli nei quali le donne sono stupide, no, uno di quelli nei quali le donne sono intelligenti e coraggiose o dove almeno c'è una donna intelligente e coraggiosa che all'improvviso resta da sola, che all'improvviso entra in un palazzo solitario o in una casa abbandonata e domanda (lei non lo sa che il posto dove si è andata a ficcare è abbandonato) se c'è qualcuno, alza la voce e domanda, anche se in realtà nel tono con cui fa la domanda c'è già implicita la risposta. Ma lei comunque domanda. Perché? Perché lei fondamentalmente è una donna educata e noi donne educate non possiamo evitare di essere tali, qualunque sia la circostanza nella quale la vita ci metta. Lei se ne sta tranquilla o magari fa qualche passo, poi domanda, e nessuno, evidentemente, le risponde. Ecco, io mi sono sentita come quella donna, anche se non so se me ne resi conto già all'istante o se lo so soltanto adesso, e anch'io feci qualche passetto guardingo come se camminassi su un'enorme distesa di ghiaccio. Poi mi lavai le mani, mi guardai allo specchio, vidi una figura alta e magra con qualche piccola ruga sul viso (troppe), la versione femminile di Don Chisciotte, come mi aveva detto in un'occasione Pedro Garfias, quindi uscii per il corridoio, e lì mi resi conto davvero che qualcosa stava accadendo, perché il corridoio era vuoto, sprofondato nel suo sbiadito color crema, e le urla che salivano dalle scale erano di quelle che stordiscono ma fanno la storia.
Cosa feci allora? Ciò che avrebbero fatto tutti, mi affacciai a una finestra e guardai giù e vidi i soldati, poi mi affacciai a un'altra finestra e vidi i mezzi blindati e poi a un'altra, quella che sta in fondo al corridoio (attraversai il corridoio spiccando salti da oltretomba), e vidi delle camionette sulle quali i granatieri e alcuni poliziotti stavano caricando gli studenti e i professori che avevano fatto prigionieri, come nella scena di un film sulla seconda guerra mondiale mischiata con uno di María Félix e Pedro Armendáriz sulla Rivoluzione Messicana, un film che si riduceva a un telone oscuro con delle figurine fosforescenti. Così dicono che vedono alcuni matti o quelle persone che improvvisamente vengono colte da un attacco di panico. E poi vidi un gruppo di segretarie, tra le quali credetti di riconoscere più di un'amica (in realtà credetti di riconoscerle tutte), che uscivano in fila indiana, sistemandosi i vestiti, con le borsette in mano o appese alla spalla, e poi vidi un gruppo di professori che uscivano anch'essi ordinatamente, almeno con quel minimo di ordine che la situazione permetteva, vidi persone con i libri in mano, persone con le loro cartelline, pagine dattiloscritte che si sparpagliavano sul pavimento e loro che si chinavano e le raccoglievano, vidi gente che veniva trascinata fuori o gente che usciva dalla facoltà coprendosi il naso con un fazzoletto bianco rapidamente annerito dal sangue. E allora dissi a me stessa: fermati qui, Auxilio. Non permettere che portino dentro anche te, bambina. Fermati qui, Auxilio, non entrare volontariamente in questo film, bambina, se vogliono sbatterti dentro che almeno si prendano la briga di trovarti.
Così tornai in bagno e guarda che cosa curiosa, non solo tornai in bagno ma tornai proprio nel cesso, lo stesso dov'ero prima, e mi sedetti di nuovo sulla tazza del cesso, di nuovo con la gonna rimboccata, pur senza alcuna necessità fisiologica (dicono che proprio in casi del genere l'intestino si liberi, ma non fu certamente il mio caso), e con il libro di Pedro Garfias aperto, e anche se non ne avevo voglia iniziai a leggere, al principio lentamente, parola per parola e verso per verso, anche se poco dopo la lettura cominciò ad accelerare fino a raggiungere una velocità folle, i versi scorrevano così rapidi che a malapena riuscivo a discernere qualcosa, le parole si appiccicavano le une alle altre, non so, una specie di lettura in caduta libera alla quale, d'altra parte, la poesia di Pedrito Garfias riuscì a resistere a malapena (ci sono poesie e poeti che resistono a qualsiasi tipo di lettura, mentre altri, la maggioranza, no), ed ero in queste faccende affaccendata quando all'improvviso sentii un rumore nel corridoio, rumore di stivali? Rumore di scarponi chiodati? Ma no, mi dissi, sarebbe una coincidenza troppo grande, non ti pare? Rumori di scarponi chiodati! Ma no, mi dissi, ora manca solo il freddo e che un berretto militare mi cada sulla testa, e fu allora che sentii una voce che diceva qualcosa tipo è tutto in ordine, sergente. Può essere che stesse dicendo un'altra cosa, fatto sta che cinque secondi dopo qualcuno, probabilmente lo stesso stronzo che aveva parlato, aprì la porta del bagno ed entrò.


* DF - Distretto Federale, la capitale del Messico





(Brano tratto dal romanzo Amuleto, Mondadori, Milano, 1999. Traduzione di Pierpaolo Marchetti.)



Roberto Bolaño è nato a Santiago del Cile nel 1953. Oltre a cinque volumi di poesie a La literatura nazi en América (1996), ha pubblicato quattro romanzi - Consejos de un discípulo de Morrison a un fanático de Joyce (in collaborazione con Antoni García Porta, 1984), La pista de hielo (1993), La senda de los elefantes (1994), Estrella distante (1996) - e la raccolta di racconti Llamadas telefónicas (1997). Roberto Bolaño è morto nel 2003.

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