SULLE TRACCE DI TIROFIJO


Enzo G. Baldoni



Ma che ci faccio, qui in Colombia? Mi ero ripromesso di pas­sare l'estate sulla terrazza a guardare i bei tetti italiani, innaf­fiare le piante, sonnecchiare dolcemente nell'amaca e dare gli ultimi ritocchi alle bozze della Rivoluzione Pigra , il libro che sto scrivendo pigrissimamente da più di sei anni. Ma a un certo pun­to le coincidenze hanno cominciato a sussurrarmi: “Colombia, Colombia, Colombia!”. Così ho comprato un biglietto per Bo­gotà.

Non conosco nessuno, a Bogotà. Ma le coincidenze hanno la loro saggezza.

Il sogno (ogni viaggio ha bisogno di un sogno che faccia da fi­lo conduttore) sarebbe quello di incontrare i guerriglieri delle FARC. I sette comandantes del Secretariado, El Mono Jojoy, Alfonso Cano, Raúl Reyes. Magari addirittura il capo dei capi, il leggen­dario Tirofijo: Manuel Marulanda, il guerrigliero più vecchio del mondo. Mi piacerebbe parlarci tranquillo davanti a un fuoco. Cer­care di capire come un uomo o una donna possano consacrare tutta la loro vita alla guerra.

Mi piacerebbe imparare a sparare con un kalashnikov. Mi ac­contenterei anche di un AR-15 americano, o di un Galil israelia­no. Si rimane sempre un po' bambini.

Non ho idea di quello che troverò, se mi sposterò, se andrò sulle montagne, nella foresta amazzonica o nella giungla urba­na. Sarò flessibile, seguirò l'onda. Magari troverò un posto pieno di Internet café e di american bar, come a Giacarta. Forse un pugno di capanne senza elettricità affogate nel fango, come nel Chiapas o in Birmania. Forse case bruciate e sangue sui muri, come a Timor.

Lo so che la Colombia è in guerra. So bene che secondo Robert Pelton, autore di The World's Most Dangerous Places , è il terzo posto più pericoloso del mondo dopo l'Afghanistan e il Ruanda. Ma so anche che sto seguendo la mia panza e il mio istinto, quin­di tutto andrà – probabilmente – nel migliore dei modi.

E anche se andasse tutto male – ehi, come diceva lo scorpione pungendo la rana: che ci posso fare? È la mia natura.

Metto al collo la piastrina dell'esercito messicano con il mio nome, telefono e gruppo sanguigno. È per il riconoscimento del ca­davere. Finora non è mai servita.

 

2600 metros más cerca de las estrellas

Che Bogotá sia duemilaseicento metri più vicina alle stelle si sen­te nel fiatone che ti viene subito e nella spossatezza dell'altitudi­ne. Ci vorrà qualche giorno per abituarsi.

Bogotá è una città imprevista. Sei milioni di abitanti, ricchezze stratosferiche, povertà subumane. A est le Ande, nere, severe, im­penetrabili. A ovest la Sábana, l'altopiano ricco di pascoli. Un gruppo di grattacieli – la zona degli affari – raggruppati intorno all'Hotel Tequendama, alla Borsa e alla Plaza de Toros e una distesa di casette basse, monofamiliari. Al Nord ci stanno i ricchi, al Sud i poveri e i poverissimi, con i bambini che vivono frugan­do nel basurero, l'immondezzaio della città. Le scalate sociali sono accompagnate da traslochi successivi, sempre più a nord. La gente è il solito bianconero dell'America Latina, declinato in cen­tinaia di caratteristiche somatiche che vanno dal biondo slavato al nero-nero, passando per tutte le combinazioni possibili fra le tre razze che hanno mescolato incessantemente (e, suppongo, con mucho gusto ) i loro cromosomi da Colombo in poi. La classe dominante è tutta bianca e di origine spagnola.

Il quartiere più interessante è La Candelaria, il barrio più anti­co e più alto della città, un miscuglio di teatri, piazze, case colo­niali ben conservate, istituti universitari, teatrini e piccoli caffè in mezzo ai bassi e alle case slabbrate. Ci vivono artisti, studenti universitari, professori ma anche indios poverissimi e gente che si ar­rangia con furtarelli, spaccio e rapine. Un bel miscuglio anche dal punto di vista sociale.

La Opera, il piccolo albergo di charme che diventerà la mia ca­sa di Bogotá, è al centro della Candelaria. La prima raccomanda­zione di tutti, dall'autista che mi ha prelevato all'aeroporto fino a Laura, la bella morettina della reception, è stata: “Non esca do­po il tramonto, señor – no es seguro”.

Ogni supermercato è guardato da un vigilante con relativa pistola a tamburo. La TV trasmette immagini di pronto soccorso con primi piani di facce insanguinate, intubamenti e fratture esposte spiattellate in faccia agli spettatori. Ogni tanto, cadaveri di con­tadini trucidati o di guerriglieri coperti di sangue.

Nei giornali di stamattina, la notizia che le FARC sono entrate in un condominio di lusso, hanno sfondato le porte e hanno ra­pito una quindicina tra possidenti, deputati, mogli e figli: “Los guerrilleros entraron a sangre y fuego, tumbando puertas y em­pujando a la gente bacia dos vehiculos. La mayoría de los secue­strados estaban dormiendo”.

Benvenuto in Colombia: un lugar tranquilo.

 



Vecchio portafogli usa e getta

Ho tirato fuori dalla valigia il mio vecchio portafogli usa e getta: una robaccia di similpelle dove tengo pochi soldi, destinati a un'e­ventuale rapina. Ci ho trovato dentro di tutto: bath thailandesi, kyat birmani, un francobollo di Timor e l'amuleto che mi dette quel lama tibetano a Singapore.

Era ora di cambiare continente.

 

Dov'è Hugo Pratt?

Museo dell'esercito. La solita paccottiglia di bandiere e manichi­ni in divisa, ma nella sala superiore alcuni bei revolver francesi Lefauchez e St. Etienne della fine dell'Ottocento. C'è anche qualche pistola Mauser a canna lunga, qualcuna con il caricatore esterno. Sono le armi che si vedono in mano ai personaggi di Corto Maltese, e non è impossibile che Hugo Pratt sia passato di qui. Era puntigliosissimo nella ricostruzione di armi e uniformi, e si documentava a fondo. Uno dei suoi personaggi si chiama Tiro-fisso. In spagnolo Tirofijo.

Mi sembra di sentire aleggiare come un'ombra. Di sentire una risata grassa e qualche battuta in veneziano, in queste sale de­serte.

 

Mozart, le Nozze, l'odio e il disprezzo

Dal patio dell'Hotel La Opera sale, leggera, l'ouverture delle Noz­ze di Figaro. È confortevole, questo albergo ricavato da due vec­chie case coloniali, le stanze affacciate sulla balconata che dà sul doppio patio. La sala con il grande camino di pietra, i tappeti, i divani, il ristorante nel mirador da cui si vedono i tetti della Can­delaria e la metropoli in basso. Tutto di gusto, senza una sbavatura che lo faccia cadere nel lussuoso. Una casa accogliente, confor­tevole, dove sei circondato dai sorrisi e dove puoi essere servito in camera a qualsiasi ora.

Ma là fuori, dopo le otto di sera, scatta un coprifuoco di fatto e per le strade male illuminate si aggirano persone fameliche co­me il piccolo José, il negro di dodici o tredici anni che ieri matti­na, nella Plazoleta del Chorro de Quevedo, mi ha offerto, a mu­so duro: “¿Marihuana? Coca? e Una mujer, señor? Muy, muy jo­ven, casi una niña... ¿ No?' Y una moneda para comer? ¿No? ¿No quiere colaborar, eh?” e mi ha lanciato un'occhiata carica di odio e disprezzo.

 

La solitude du voyageur

Giorni d'attesa in cui non sta succedendo praticamente nulla, e si sta sospesi ad aspettare un incontro che non arriva, e la solitude du voyageur cantata da Bernard Lavilliers si fa, ogni tanto, pesante.

 

Nubi di polverina bianca

La Colombia ha stracciato il grande Messico. Bogotá è invasa dai tifosi impazziti, eccitati, ubriachi di fierezza patriottica. Come non partecipare?

La festa in strada è grande, pazza e scatenata come può esserlo solo in Sudamerica, dove anche i più poveri hanno avuto un sussulto d'orgoglio nazionale e sono scesi in piazza tutti mascherati di giallo rosso e blu, i colori della Colombia.

Sono uscito nella notte repentina dell'Equatore e mi sono mescolato alla gente festante: hanno cominciato a bersagliarmi di manciate di polverina bianca.

“Ehi” mi son detto. “Va bene che la Colombia è la capitale della coca, ma...?”

Ovviamente era solo farina, ed è stata un'orgia di risate, di abbracci fra sconosciuti, di allegria. Perfino la polizia è stata fatta segno di lanci di polverina, e ridevano anche loro. La strada era piena di fantasmi bianchi e largamente ubriachi. Le chicas dipin­te di giallo rosso e blu e tutte infarinate gridavano in coro: “¡Ar­gentinos, maricones (froci), colombianos son campeones!”.

Ho riso come un matto, ho abbracciato perfetti sconosciuti, ho bevuto diversi bicchieri di aguardiente , dimenticando il burun­danga e la fondamentale norma di sicurezza di non accettare mai nulla dagli sconosciuti.

Bon, per fortuna è andata bene. Il mio conto è rimasto quello che era. Almeno, credo.

 

Solidarietà di classe della borghesia

Una signora carina, con abiti lisi ma pulitissimi, messi insieme con gusto, mi avvicina e, in perfetto castigliano, con l'aria di chi sta chiedendo un'informazione turistica, mi fa: “Disculpe, me podría regalar una moneda... Dios que verguenza (Dio che vergogna)... pe­ro la vida es así, dura...”.

Gentile, impacciata, con una nota di rammarico.

Forse è solo un'ottima attrice, ma come resistere alla solidarietà di classe che mi fa riconoscere in lei i miei stessi modi urbani e borghesi? Le dò la moneta che ho appena negato a una serie di poveracci cenciosi e sporchi.

Mi ringrazia con un sorriso timido e un piccolo cenno della testa: dignitosa, elegante. Poi se ne va, rapida.

 

L'oroscopo di oggi: allegria!

Il mio oroscopo di oggi: “Libra. A pesar de lo terrible que sucede cotidianamente en el pais y que distraen alegrias pasajeras, usted cree que el camino tiene que paeificarse, y que la vida se convertirti en el tiempo en una suma de alegrias...” (Bilancia. Nonostante le cose terribili che succedono quotidianamente nel paese, vagamente fugate da allegrie passeggere, lei pensa che la strada deb­ba pacificarsi, e che la vita si convertirà, con il tempo, in una som­ma di allegrie...).

Minchia: in questo paese nemmeno gli oroscopi riescono a es­sere ottimisti!

 

Sequestrati tre cittadini tedeschi

Le FARC hanno sequestrato tre operatori tedeschi su un mezzo dell'ONU. L'Unione europea ha mandato un messaggio di vibrante protesta (F. De André).

Mi tocco i coglioni e vado a farmi una Cerveza Aguila, la cer­veza de los campeones.

 

Rotte laterali

Mi prefiggo un obiettivo, lo studio, faccio piani, traccio rotte poi, per la strada, mi lascio distrarre da qualcosa che non so nemme­no, una sensazione o un colore o un profumo, o una donna che intravedo appena prima che sparisca dietro un angolo. Allora de­vio, infilo stradine laterali, viuzze strette e maleodoranti, mi perdo poi, d'improvviso, sbuco in una piazzetta bellissima e assorta. E la Plazoleta del Chorro de Quevedo, dove il 6 agosto 1538 il conquistatore spagnolo Gonzalo Jiménez de Quésada fondò Bo­gotá.

Buscar el levante por el poniente.

È la storia della mia vita.

 

Piove sulle bogotane sparse

Piove, fa freddo, e le facce delle indie sparse per le strade, accoc­colate per terra, che vendono puttanate di plastica, berrettini Nike o modellini dei nuovissimi autobus rossi del Transmilenio riflet­tono cinque secoli di tristezza.

Io aspetto un contatto che sembra non arrivare più, Tirofijo è irraggiungibilmente nascosto nelle profondità della Selva de la Macarena, difeso da sedicimila uomini armati. Tutto intorno bombardamenti, attentati, scontri a fuoco, scuole che saltano, tortu­re, sequestri, esecuzioni a sangue freddo.

Mi raccontano di Salvatore Mancuso, capo dei paramilitari di origine italiana, che ammazza i campesinos attaccandoli per la go­la ai ganci da macellaio e squartandoli con una sega a motore.

Leggo Gabriel Garcia Márquez, Notizia di un sequestro .

Sospetto di aver sbagliato tutto. Come mille volte Bruce Chatwin, ma un po' più brutalmente, mi chiedo che cazzo ci faccio qui. Sdraiato nella mia stanza d'albergo, con l'inutile telefono sul co­modino, isolato e senza riferimenti, mentre la notte equatoriale scende rapida e triste, sempre alle sei in qualunque stagione, in qualsiasi fottuto parallelo compreso tra il Cancro e il Capricorno, ritorna la vecchia domanda: che ci faccio qui? Che cazzo ci faccio qui a farmi i fatti di una guerriglia che non è la mia, di una storia che non è la mia, di un massacro che non mi riguarda neanche di striscio?

E poi, chi mi credo di essere? Il Bruce Chatwin dei poveri?


(Tratto da Piombo e tenerezza, Editoriale Diario, Milano, 2005.)



Enzo G. Baldoni nasce l'8 ottobre 1948 a Città di Castello, Perugia. Si diploma in agraria, ma fa tutt'altro: "Il muratore in Belgio, lo scaricatore alle Halles, il fotografo di nera a Sisto San Giovanni". Capisce "che fare il copy è meglio che lavorare" e nel 1980 fonda l'agenzia Le balene colpiscono ancora. Traduce la striscia Doonesbury di Garry Trudeau. In estate, parte. Nel 2004 è in Iraq doce organizza due missioni umanitarie a Najaf. L'agguato avviene il 20 agosto, mentre guida un convoglio della Croce rossa italiana con l'amico Ghareeb. La notizia della sua morte arriva nella notte del 26 agosto 2003.


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