CONDOTTO PER MANO DAL MISTERO

Un'intervista a Julio Monteiro Martins, nel 7° anniversario della Rivista Sagarana

Davide Bregola



 

1- Tu hai scritto due libri di racconti e un romanzo di due anni fa intitolato "madrelingua". Quali ritieni sia la specificità (particolarità) che contraddistingue i contenuti della tua opera? Cosa ti farebbe piacere arrivasse al lettore di ciò che rappresenti attraverso la letteratura?

 JMM – In verità, oltre a “madrelingua” e alle raccolte “Racconti italiani” e “La passione del vuoto”, avevo pubblicato nel 1998 il primo vero libro della mia fase “italiana”, “Il percorso dell'idea”, un insieme di petits poèmes en prose che versavano principalmente sull'argomento della scrittura stessa, prestandole una liricità inusuale. E ora, dopo l'uscita di “madrelingua”, sta per uscire per Besa proprio in questi giorni “L'amore scritto”, frammenti narrativi e racconti brevi sul tema dell'amore. Mi sono approcciato a tale tematica tentando di aprire un largo ventaglio di possibilità estreme, radicali, a volte tragiche, spesso grottesche, che fanno di questo libro l'antipode dei libri tradizionali di narrativa sull'amore. Direi che un è un libro terrificante... che parla d'amore. In questi giorni, d'altronde, ho finito la stesura di un nuovo romanzo, “Vetro di latte”, un mosaico della tragedia della contemporaneità, di questo inizio di millennio, un atto di ribellione contro il mascheramento e la soppressione della verità. E poi sono almeno dieci anni che riunisco le mie poesie “italiane” in una raccolta che ho intitolato “Musica”. Quindi, anche l'opera “italiana” è a questo punto piuttosto vasta, e si avvicina in dimensione e in diversità alla mia opera “brasiliana”, scritta tra il 1975 e il 1993. Il fatto è però che questa divisione tra l'opera “brasiliana” e quella “italiana” è artificiale, rispecchia solo il passaggio della mia scrittura da una lingua all'altra; sicuramente gli elementi di continuità sono più importanti, toccano le questioni che contano veramente, ciò su cui si basa la mia letteratura, il suo senso più profondo, la sua ricerca fondamentale. Da questa prospettiva gli elementi di discontinuità portati dall'esilio del 1995 scompaiono, divengono irrilevanti, niente di più che un singolare “incidente di percorso”, che è stato digerito e metabolizzato in pochi anni dal robusto iter sotterraneo dell'opera, dalle sue “correnti” più antiche.

Ci provoca una strana sensazione, un po' buffa e al tempo stesso spaventosa, l'osservare distaccati la propria opera in evoluzione, il suo “chiaro enigma”, per usare l'espressione di Drummond de Andrade, la maniera in cui insegue il suo “disegno” poetico e narrativo con costanza, determinazione, con una sorta di ossessionata serenità. E questo indipendentemente da ciò che faccio io, dal mio dramma personale, da ciò che può o non può diventare la mia vita. L'opera letteraria, il suo flusso vitale, è una forza della natura, è come un fiume in piena che travolge i ponti e le case, che porta via le mucche insieme ai carri e agli alberi sradicati, per seguire il suo corso, per raggiungere il mare, in un'indifferenza al dolore del suo autore che sfiora la spietatezza. Lei, l'opera, sa dove vuole arrivare e cosa vuole dimostrare, ogni volta ripropone in nuovi libri le sue ossessioni. Allo scrittore resta la sola possibilità di assecondare questo suo “fluire”, mentre cerca di gestire alla meglio le sue tribolate circostanze materiali. Per esempio, nei racconti di “Torpalium”, un libro scritto in Portoghese nel 1975, ci sono diversi punti di convergenza tematica e stilistica con il romanzo “Vetro di latte”, scritto in Italiano nel 2007, come la ribellione dei personaggi di entrambi i libri ai tentativi di controllo sociale compiuti da un sistema politico oscuro, che tutto pervade e corrompe.

Mi domandi delle specificità che contraddistinguono il contenuto della mia opera. Posso soltanto intuire quali siano queste specificità, non più di quanto lo farebbe un lettore attento, anche se so che esse sono nitide sotto uno sguardo inconscio, al quale però razionalmente non ho accesso. Prima di tutto c'è una curiosità incontenibile per tutto ciò che è umano, una curiosità che mi spinge a costruire personaggi entro limiti estremi, esseri esasperati, cacciati oltre i confini più reconditi ed aspri della condizione umana, come se costruendoli volessi scoprire il meccanismo nascosto della vita, capire a partire da quale punto l'umano diventa il non-umano, si rompe, crolla a pezzi e non è più riconoscibile. Poi, c'è la celebrazione di quella che più di qualsiasi altra cosa è una caratteristica umana: la complessità, la contraddizione, l'ambiguità, ossia tutto quello che i media e la cultura ufficiale non vogliono vedere né far vedere agli altri, poiché essi sono oggi nient'altro che agenti al servizio di una falsa semplicità, di risposte semplici ma sbagliate, dell'omologazione , della rassegnazione, di una burocratica apatia collettiva e di un simulacro superficiale di “coerenza”. Ma dev'essere ormai chiaro che dove c'è la vera letteratura i problemi non si possono risolvere con gadgets né con favole stucchevoli, perché da domande insolubili la letteratura ritrae nuove domande, plasmando così paesaggi indefiniti, di crescente complessità. Penso che l'uomo sia presente nella mia opera in un modo pressoché integrale, a trecentosessanta gradi, nella bizzarra esuberanza dei suoi vizi e delle sue possibilità. L'uomo visto in questo modo non è bello, non è nemmeno buono, e neanche brutale o mostruoso. È enorme. E c'è proprio tutto dentro di lui, al punto da determinare in gran parte ciò che avviene fuori di lui, in un mondo esterno, in una storia, che costruisce credendo di subirla, e che spesso affronta con un coraggio suicida, come il protagonista di “Vetro di latte”, il professor Dallari. I miei libri propongono una sorta di umanesimo radicale, una visione che è assolutamente scomoda alla visione egemonica di oggi, quella smerciata dal sistema, che prova a creare gli “androidi felici” della globalizzazione.

Ogni mio personaggio è condotto per mano dal proprio mistero. Crede di sapere chi sia, ma allo stesso tempo sospetta di essere un altro, un “ruolo” soltanto, una specie di “fantasma semantico”, che si muove secondo un copione invisibile, la trama della vita collettiva. Sono simboli ed archetipi, esseri senza materia che “rappresentano” all'interno di un disegno irrevocabile, insomma, di una gigantesca macchina simbolica. Se confuso o svuotato dal suo senso simbolico, il personaggio diventa un attaccapanni di ossa, un niente, carne che si precipita nella morte, come nel racconto “brasiliano” Dominó o nel racconto “italiano” Metafore . Lo svuotamento e la disumanizzazione del personaggio sono sempre presenti per evidenziare, per contrasto, ciò che costituisce l'essenza dell'umano. Sarà forse proprio questo l'enigma della “sfinge” che la mia opera si ostina a decifrare.

 

 2- Quali sono le particolarità stilistiche che porti nella letteratura italiana e che è propria del tuo fare scrittura?

 JMM – Anche qui ci vorrebbe un critico letterario di grande competenza, io non credo di esserlo. Sicuramente risulta evidente la singolarità della mia scrittura nel panorama letterario italiano attuale. Che piaccia o no ai lettori, la mia scrittura non è “positiva” nel senso popolare del termine, non è affatto consolatoria. A tutt'oggi non trovo niente di simile agli elementi stilistici presenti nella mia narrativa, come la prevalenza di dialoghi secchi, spogli, senza alcun intervento del narratore in terza persona, dialoghi che iniziano quando l'azione è già in corso e finiscono molto prima che l'azione si concluda, con un prima e un dopo che non sono mostrati, quasi come se i racconti fossero in verità romanzi incompiuti, schegge, frammenti di romanzo. Del resto, non è forse così anche la percezione quotidiana della realtà nel grande “zapping” che è diventata la comunicazione?. E nei miei romanzi, i brevi blocchi di testo a se stanti sembrano anch'essi racconti più lunghi non narrati, sommersi. Spuntano in superficie solo certe “istantanee fotografiche”, cocci di esistenze varie, di tensioni drammatiche, come una conversazione ascoltata in ascensore, come i dialoghi concitati in una scialuppa di salvataggio tra la nebbia fitta. Sono sassi distribuiti strategicamente lungo un fiume perché il lettore possa riuscire a guadarlo (mi perdoni questa successione “carnevalesca” di metafore, ma non saprei spiegarlo altrimenti). È uno stile narrativo che utilizza più il silenzio, il non-detto, che il discorso aperto. Il lettore però è portato a presentire la presenza di un mondo abissale, che non può vedere, di cui solo ne distingue i riflessi sulla superficie del racconto, rimanendone colpito, spaventato forse, comunque stupito da quello che presente: una verità fino ad allora solo intuita, una rivelazione. Non si tratta nemmeno di un modo “brasiliano” di narrare, eventualmente innestato sulla mia narrativa “italiana”, perché anche in Brasile il mio stile era isolato e considerato insolito, estraneo a quella tradizione. Ed ancora, è possibile notare come l'impalcatura, il dietro le quinte “meta letterario”, affiori facilmente all'interno della mia narrativa, in modo naturale e semplice, quasi come se fosse impossibile tenerlo nascosto, o se fosse ormai un'ingenuità credere che il lettore di oggi è ignaro delle strategie narrative degli scrittori che apprezza (sarà un effetto collaterale dei miei trent'anni di insegnamento della scrittura creativa?).

Una caratteristica tematica della mia opera che può eventualmente considerarsi come un contributo originale alla letteratura contemporanea italiana è una particolare capacità di elevare ad uno status di dignità, se non quasi di regalità, determinate funzioni fisiche, fisiologiche, umane, carnali, che spesso sono tabù. Credo di riuscire a svincolarle, scioglierle dai legacci che le relegano ai confini della decenza, nei meandri del “non si dice perché è osceno”... Nei miei scritti tutto ciò assume una connotazione normale e naturale, gli umori corporei come la putrefazione vengono narrati con un equilibrio inusuale.

Questo stile credo sia piuttosto il prodotto di uno sviluppo personale, legato all'evolversi della mia soggettività a partire dall'infanzia, il risultato di una determinata storia epistemologica, non trasferibile a terzi. “Lo stile è l'uomo” piaceva dire a Bachtin. Nel mio caso questo è assolutamente vero. Non c'è alcuna differenza tra il cosa scrivo e il come scrivo, sono fenomeni amalgamati nel processo creativo, sono un'unica entità letteraria funzionale, a servizio di un'idea-forza che emana dall'inconscio. Le cose che racconto possono essere raccontate solo da me ed esclusivamente attraverso lo stile particolare che adopero. Così, non credo che questo stile sia in grado di “arricchire” le possibilità espressive della letteratura italiana di oggi, poichè credo improbabile che possa essere adoperato efficacemente da un altro scrittore con una formazione diversa dalla mia. Lui invece dovrà trovare il suo stile, a partire dalla propria esperienza di formazione della soggettività. Quello che so è che questo stile serve bene a me, alla mia voce. Non so se servirà alla letteratura in un senso generico. Comunque, non è stato concepito come una “risorsa”, ma come uno strumento espressivo creato per l'uso personale dell'autore, come certi strumenti chirurgici del medioevo creati dai chirurghi stessi, a volte solo per una particolare occorrenza.

 

 3- La poesia è un linguaggio che usi ora come quando sei arrivato in Italia nel tentativo di appropriarti di una lingua. Quali cambiamenti noti o hai notato dalle prime poesie a quelle odierne?

 JMM – Il mio bisogno di creare poesia inizia proprio là dove finiscono le possibilità espressive della narrativa, quando quest'ultima non basta più per dire ciò che dev'essere detto, quando non è più in grado di ritrarre certe intuizioni diffuse e astratte, seppur impellenti, che affiorano dall'inconscio. Per questo motivo devo scrivere poesia anche mentre sto lavorando ad un nuovo libro di narrativa. Si tratta di un'esplorazione complementare, che travalica le mie perlustrazioni prosastiche, che spesso richiedono più consapevolezza e lucidità, più razionalità, più ordine insomma. Alla poesia invece giova l'indistinto e l'appena intravisto, giova muoversi dentro una spessa foschia di emozioni mal delineate, senza una direzione chiara e col rischio di precipitare ad ogni passo. Nella mia poesia sono presenti tematiche, stati d'animo e insight di cui non potrei mai parlare nella mia prosa. In un certo senso, sono quasi un altro scrittore quando scrivo poesia, ho delle priorità diverse e più libertà espressiva, sono anche un po' più triste e deluso, più fatalista e più nostalgico, forse più radicalmente umano.

È stato arduo conquistare, con la lingua italiana, quell'intimità che permette lo scrivere poesia senza rinunciare alla bellezza del risultato sol perché di fronte ad una lingua straniera. È stata una sfida deliziosa, affascinante, quella di inoltrarmi in una lingua “non-madre” (ci saranno le “lingue sorelle”?) fino a renderla interamente mia, scoprendone le sfumature, il peso e il livello di logoramento o di novità di ogni sua parola; godere in mezzo a un mare di suffissi, all'abbondanza di aggettivi onomatopeici e proprio per questo precisi, che sembrano fotografare i sostantivi che vestono, aggettivi così squisitamente esatti che sembrano essere stati creati apposta per ogni occasione. Per riuscirci, ho dovuto immergermi per anni nella tradizione poetica e narrativa italiana, oltre che nel linguaggio orale e nell'uso dei dialetti – e il fatto che vivo in Toscana ha reso questa esplorazione dialettale particolarmente interessante.

Una lingua straniera è un continente ed esplorarlo è un viaggio senza fine per uno scrittore, un viaggio pieno di sorprese e di meraviglie. Il mio viaggio nella lingua italiana, raccontando storie, è stato, ed è sempre, il più bel viaggio in cui mi sono impegnato.

 




Davide Bregola
è nato a Bondeno nel 1972 e vive a Sermide, in provincia di Mantova. Esordiente nel 1996 con tre racconti inclusi nell'antologia Coda (Transeuropa), nel 1999 ha vinto il Premio Tondelli per la narrativa. Nel 2002 ha pubblicato Da qui verso casa (Edizioni Interculturali), un libro di interviste a scrittori stranieri che scrivono in italiano e nel 2005 Il catalogo delle voci (Iannone), analoga inchiesta sui poeti immigrati. Con Sironi ha pubblicato nel 2003 la raccolta Racconti felici e nel 2007 il romanzo La cultura enciclopedica dell'autodidatta.

 



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