LA BANDIERA

- Brano tratto dal romanzo Cento storie d'amore impossibile -


Sion Segre Amar

 

 

(…) Quando andavo alle elementari mi insegnavano che "La Bandiera / Dei tre colori / È sempre stata la più bella. / Noi vogliamo sempre quella / Noi vogliam la libertà."
Anche le altre, erano tricolori: la francese, la tedesca, la belga. Ma solo la nostra si chiamava "Il tricolore". Solo la nostra era "la più bella".
La prima domenica di giugno, mi appuntavano la coccarda sul golfino, e la città era imbandierata. Anche i tram. Sul davanti, vicino al numero, e sui fianchi.
La nostra, l'aveva cucita Mamma il giorno della Vittoria. Non che non ne avessimo già una, in casa. Ma era troppo piccola, non adatta per una giornata come quella. Il bastone l'aveva preparato Cichin, a Nichelino, liscio, lungo quattro metri e mezzo, verniciato di blu, con la punta di latta dorata dell'interno di una scatola di pomodori Cirio. Le puntine da tappezziere, nere, sul verde non si vedevano neppure. Ma le avevamo inchiodate dalla parte sbagliata, e lo stemma di Savoia guardava all'insù.
"Quasi meglio," aveva detto Mamma. "Così la gente capirà che l'abbiamo fatta in casa, che siamo dei patrioti."
A me spiaceva che con la fine della guerra sparissero i soldati stranieri. Avrei smesso di salutarli col "Vive la France" e il "God save the King" o togliendomi il cappello, come facevo con quelli montenegrini, di cui Mamma non sapeva la lingua. La consolazione me la dava la bandiera. "Ora," diceva Mamma, "la metteremo spesso."
Una grande ci voleva proprio; e Mamma aveva comperato delle stoffe di lanetta sottile sottile, perché potesse sventolare bene e i colori non sbiadissero. Lo stemma di Savoia era di nastro. E infatti sbiadì presto, e scolorì sul bianco. Adesso, non la si ritirava più in soffitta; ma - arrotolata - la si metteva, diritta, tra l'armadio a specchio della camera di Papà e Mamma e il muro. La si voleva a portata di mano, per legarla al balcone lì vicino, che guardava sul corso Duca di Genova. Quella piccola, di prima, al balcone di via Fanti. La mia, piccolissima, di tela, al balconcino della cucina, dalla parte del cortile.
Però, da lontano, anche la mia si vedeva, ed era bella, e nessuno poteva sapere che quella era la finestra della cucina. Il mio bastone, magari un po' sproporzionato, era un manico di scopa. Tutto d'oro e d'argento; non solo la punta. L'avevo ricoperto con la carta dei cioccolatini, incollata con la pappetta di farina scaldata ma non bollita perché non facesse le fila, e diluita con un po' di bianco d'uovo. Avevo sacrificato quasi tutta la mia collezione, comprese le carte stagnole del cioccolato liquido di Doney et Néveux, che mi mandava tutti gli anni per Pasqua, da Firenze, Bice, la cugina di Mamma.
Quando Mussolini andò dal Re con il vestito da sera e la tuba, come c'era sulla "Stampa" e sulla "Gazzetta del Popolo", Mamma mandò la bandiera in soffitta. "Bisogna sempre avercela, in casa," aveva detto. "Ma per un po' non ne avremo bisogno."
Neanche la prima domenica di giugno, neanche il Venti Settembre, neanche il giorno della Vittoria.
"Se verranno a farmela esporre con la forza," diceva Mamma, "se mi chiederanno perché la tengo in soffitta, potrò sempre rispondere che la bandiera deve essere un segno di gioia, e che a casa nostra la gioia non c'è più, da quando è morto Papà."



(Tratto dal romanzo Cento storie di amore impossibile, Garzanti editori, Milano, 1983.)


Sion Segre Amar è nato a Torino nel 1910. Arrestato nel 1934 per la sua partecipazione, con Leone Ginzburg, al movimento di Giustizia e Libertà, fu condannato dal Tribunale Speciale a tre anni di carcere. In seguito alla promulgazione delle leggi razziali, si trasferì nel 1939 in Palestina, e lavorò alla Radio Britannica del Mediterraneo che, da Gerusalemme e poi da Tunisi, trasmetteva per le truppe italiane dei Balcani. Rientrato in Italia nel 1945, si è occupato di questioni economiche. È un profondo conoscitore di codici miniati.


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