La Lavagna Del Sabato 12 Aprile 2008

PASSAPORTO PER LA NOTTE

Enzo G. Baldoni





Marcela è troppo truccata. Marcela ancheggia troppo. Marcela fa troppi gridolini. Marcela ha troppo seno.

Marcela ha anche troppa barba e troppa gommapiuma nel reg­giseno, perché non ha ancora cominciato a prendere gli ormoni.

Marcela ti strappa un sorriso imbarazzato, nella sua smania di essere più donna di una donna vera, nella notte umida di Bogotá.

Però quando sta, nuda, incollata al muro, legata, nel suo spet­tacolo Me tocó ser así (Mi è toccato essere così), e il suo corpo ma­gro e piatto inscena una lotta disperata per staccarsi dall'efebo che è stata e non vuoi più essere, la sua sofferenza diventa stra­ziante nella luce dei riflettori, e gli spettatori si mordono le lab­bra. È un vero parto, sporco e sanguinolento come tutti i parti. Pian piano si snodano le tappe della trasformazione sognata, i disegni cruenti e insanguinati della chirurgia, il bruco maschio che diventa farfalla, la femmina che sogna il velo nuziale sull'aria di una canzonetta popolar-mielosa anni cinquanta, Quiero casarme vestida de blanco (Voglio sposarmi vestita di bianco).

Ma non c'è speranza: le sirene della polizia interrompono la danza della farfalla. Il viso con il trucco disfatto si ritrova spal­mato brutalmente sulle foto segnaletiche e lei si raggrinzisce sulle tavole del palcoscenico, un grumo di sofferenza.

 

Marcela — Marcelito — è stato un bambino del Cartucho, il quartiere al centro di Bogotà dove la polizia non entra, il posto dove puoi comprare indifferentemente un etto di coca, un mitra o una bambina di tre anni da violentare e uccidere. La mamma, prostituta, lo abbandonò per strada a sette anni. Marcelito si attaccò a una ragazza più grande, Julia. Dormivano insieme in un carrettino, facevano parte di una gallada , una banda giovanile, di sole ra­gazzine. Facevano sesso con tutti, dai fumatori eccitati dal basu­co ai poliziotti che di notte le portavano in montagna e le frugavano con la pistola nella bocca, nella pancia, tra le gambe.

Al Cartucho la sessualità ha valenze molto diverse da quella che si insegna nelle case borghesi. Quando una ragazzina nuova (e può avere quattro, cinque, sei, sette anni) arriva in una gallada , tutti i maschi la violentano: un rito di iniziazione di gruppo. “Così” la consolano poi “quando ti violenterà il tuo primo poliziotto sarai già pronta, e non ti farà tanto male.”

D'altro canto i ragazzini che a sette, otto anni vanno già negli hoteles de malamuerte per farsi una canna tranquilla o il loro primo cannone di basuco sono abituati allo spettacolo di un uomo e una donna che si fottono lì sui materassi macchiati, davanti a tutti, stra­fatti ed eccitati dal basuco , o di due maschi che si masturbano o si spompinano o si sodomizzano senza peraltro che nessuno dei due si consideri omosessuale. E il basuco che fa eccitare e abbassa le ini­bizioni, e il sesso diventa un'altra cosa, diventa universale.

Sì, al Cartucho la morale sessuale è un'altra. Non si va tanto per il sottile.

Le ragazzine della gallada di Julia sapevano anche farsi rispettare, usavano coltelli e taglierini, erano brave a chiedere l'elemosina davanti alle chiese, e a impietosire los ricachones , i ricchi. I loro nemici erano i poliziotti, che spesso le caricavano in macchina e le pe­stavano, o se le scopavano, o tutt'e due. E anche gli squadroni di limpieza social, di pulizia sociale: squadre formate da poliziotti, mi­litari e qualche giovanotto borghese con il brivido della caccia gros­sa che facevano appostamenti, sceglievano con cura l'obiettivo e poi, al momento giusto, gli sparavano una pallottola in testa mentre dormiva oppure lo chiudevano in un sacco, lo portavano fuori città e giù bastonate finché non smetteva di respirare.

E per questo che adesso, preferibilmente, gli abitanti della calle dormono di giorno: di notte vagano per Bogotá senza sdraiarsi mai.

Marcela viene da un passato di tristezza, di tradimenti e di vio­lenza, ma anche di amicizie forti, di calore del gruppo e di libertà: è il fascino della strada. Le volonterose suore cattoliche del convento di Maria Auxiliadora, cercando di aiutarla, sono riuscite solo ad aumentare la confusione sulla sua identità sessuale. Infine è approdata a Cachivache, il centro dell'antropologo Federico Lo­pez dove, finalmente, è stata accettata per quel che è: una donna che si agita e cerca di uscire da un corpo di uomo.

Cachivache è una bella parola spagnola che indica quegli og­getti ormai vecchi e lisi, ma a cui siamo così affezionati che non abbiamo il coraggio di buttarli via. Marcela ha imparato a modellare e cuocere l'argilla, a fare statuine dorate di angeli, ma so­prattutto a esprimere la rabbia e le ferite che ha nell'anima. Ha trovato una regista e una psicologa che l'hanno guidata, attraverso la nascita della sua opera, alla nascita della donna che ha dentro.

Alla fine di Me tocó ser así , tra gli applausi di un pubblico pic­colo e scosso, Marcela rivendica con grande dignità il suo lavoro di trabajadora sexual. Infine chiede di recitare un'Ave Maria tut­ti insieme. Vergini e puttane, un vecchio binomio.

Poi viene verso di me, mi bacia sulla guancia. Io l'abbraccio con tenerezza, come una bambina che ha bisogno di protezione, le faccio i complimenti per la sua performance. Lei, con una mos­sa da gran diva, butta all'indietro i capelli lunghi, lisci, curatissi­mi, e mi regala il suo mazzolino da sposa.

 

 

Una notte con Marcela

 

“Marcela” le faccio. “Per stanotte vorrei prenotare in esclusiva i tuoi servizi sessuali.”

“Eh?” mi guarda stupita e canzonatoria, come a dire: “Ma sei sicuro?”.

Federico e Claudia, l'antropologo e la psicologa di Cachivache, mi guardano, stupiti anche loro. Non sembro il tipo che va con i travestiti.

“Dài, quanto prendi per un pompino?”

“Cos'è un pompino?”

Chissà come si dice in spagnolo? Mimo, con le dita a mazzet­to, l'atto di succhiare.

“Ah, un oral?” ridacchia, esagera nelle mossette femminili. “¿Por mamarlo? Uh? Mah? Non saprei...”

“Due, tremila pesos” mi suggerisce Claudia, concreta. Un euro, un euro e mezzo.

“Bene. E per un rapporto completo?”

“Oh, ma che domande mi fai?” sbotta lei, lusingata. “Cinque, massimo settemila” fa Claudia.

Tre-quattro euro. Minchia che miseria.

“Va bene: quanti clienti ti fai per notte?”

“Mah, dipende...”

“Uno, due al massimo” dice Claudia. “C'è molta concorrenza.” Già. Marcela è analfabeta e non sa far di conto, Claudia la aiu­ta anche a fare i prezzi. Solidarietà femminile.

“Okay. Allora io ti dò l'equivalente del guadagno di una notte e tu mi fai da guida per la Bogotá notturna. Ti invito a cena e poi mi porti a fare un bel giro nella zona di tolleranza. Ci stai? Fede­rico, Claudia, venite anche voi?”

La sera stessa siamo tutti e quattro davanti a un pollo alla bra­ce, ma poi salta fuori che Federico e Claudia debbono finire di preparare un rapporto scritto per l'indomani e quindi il giro lo faremo solo Marcela e io.

Bogotá di notte non è esattamente Zurigo. Prima di separarci, Federico si spende in raccomandazioni: “Marcela, sta' attenta, ri­cordati che lui è straniero. E un'esca ghiotta. Non portarlo al Par­que Nacional. Non spingerti più in là del Planetario. Non anda­re più in giù della Decima”.

“Ma sì, ma sì, ma quante storieee” si sbraccia Marcela. “Anche se ha quel bel musetto da inglés è con me, una creatura della not­te, non corre alcun pericolooo!”

In Colombia ogni europeo è un inglés.

Ci avviamo lungo la Carrera Septima. A un certo punto sentia­mo un urlo affannato: “Marcela! Marcela!”. E Federico che ci ha rincorso: “Uff! Pant, pant! Volevo dirvi che... pant! Soprattutto, Enzo, ricordati: non accettare niente da bere che ti venga offerto! Se lo hai ordinato al bar va bene, altrimenti non bere nulla!”.

“Va bene, Federico, grazie!”

Ha ragione. In Colombia si usa il burundanga , una sostanza che la mala mescola nei cocktail al bar o nelle sigarette nei taxi. Una volta era il succo della datura, oggi si usa la buona vecchia scopolamina – o il più moderno roipnol. Ti offrono un bicchierino, be­vi e per dieci-dodici ore ti priva completamente della capacità di intendere e volere. Così dai volentieri ai tuoi nuovi amici tutti i soldi, le carte di credito, il codice segreto e la chiave della cassaforte. Poi non ti ricordi più nulla. Secondo la polizia, nella sola Bogotà avvengono circa duemila rapine al mese con il burundanga .

Marcela sbuffa: “Uh, quanto si preoccupano! Non sanno che la notte è il mio elemento!”.

 

Passaporto per la notte

 

Arriviamo nella zona di tolleranza della Carrera Septima. La pau­ra di Bogotà è percepibile quasi fisicamente. Sono appena le ot­to e mezzo, ma già tutti i negozi sono sbarrati, tranne una casa da gioco sorvegliata da guardie private con il mitra. Non si vede un poliziotto. Gli occupanti della strada sono tutte creature della not­te o abitanti della calle: mendicanti, riciclatori di cartone che spin­gono i loro carretti montati su cuscinetti a sfera, vecchiette, affa­mati che frugano nei sacchi della spazzatura, puttane, prostitu­telli, ruffiani, facce minacciose e disperate, facce allucinate, facce scure, venditori di sigarette, venditori di coca, venditori di agui­ta: acqua bollente con zucchero, limone, erbe e spezie.

La guerra in atto da quarant'anni fra esercito, paramilitari e guer­riglieri ha riempito le strade di profughi, i desplazados . Gente a cui hanno bruciato le case, trucidato i genitori, violentato le ragazzine. Arrivano, non sanno che fare e dove andare, dormono in strada, diventano manovali della mala, le bambine più belle vengono av­viate ai bordelli. A volte spariscono e nessuno se ne accorge.

Marcela mi prende sottobraccio. Ogni tanto, camminando, mi si appoggia con la sua tetta di gommapiuma. Ci viene incontro un mendicante grosso, barbuto e minaccioso: “Ehi, señor, e tiene dinero?”. La mia amichetta squittisce, sventolando la mano, molto femme fatale: “Oh, no, mi amor, no tenemos dinero, váyase, váyase, vai via, vai via!”. Il mendicante capisce che è "dei loro", fa un cen­no con la testa e se ne va. Marcela è il mio passaporto per la notte.

Pirojos, jívaros, bordelli

 

Risalendo la Septima, arriviamo alla Terraza pastel – in realtà Ter­raza Pasteur –, centro commerciale di giorno, centro di prostitu­zione gay di notte. Giovanottini vanno e vengono, mi fissano, al­zando con intenzione un sopracciglio, mi sfiorano con occhi di cer­biatto. Qualche scambio di pacchettini di stagnola e bustine. Marcela mi porta in un paio di viuzze oscure, ci sono dei bar gay. Sono squallidi, illuminati male, la clientela è deprimente. Conti­nuiamo per la Septima: intorno al Planetario c'è un po' di movi­mento, ma poca roba. Arriviamo al Parque Nacional. Sotto gli al­beri e tra i cespugli, ragazzi che si infrattano. Marcela decide di non portarmi più in là: lì diventa veramente troppo pericoloso per uno straniero, ci sono le galladas , le bande dei ragazzini che si fanno di coca e basuco, e che di notte tirano fuori coltelli e bastoni.

“Marcela, quanto costa qui un grammo di coca?”

“Dieci, quindicimila pesos.”

Otto euro al grammo? Niente. Be', siamo in Colombia, ci man­cherebbe. Anche la marijuana costa pochissimo. L'eroina prati­camente non esiste, qui la siringa è poco amata. Qualcuno ha pro­vato a tirarla, ma ovviamente la coca è meglio. I papaveri che si coltivano nel Cauca e nel Caguàn servono soprattutto il mercato statunitense.

Il mio adorabile travesti mi fa un corso accelerato di spagnolo di vita. Un pirojo è un frocio, un oral è un pompino. Per avere un servizio veramente completo devi contrattare lux, agua y telefono : bocca, fica e culo. I jívaros sono gli smazzatori, dal nome degli in­diani brasiliani specializzati nel ridurre le teste. Vendono gancho amarillo , una varietà di basuco , naturalmente coca, poi pepas (an­fetamine), pegante (colla), goma (colla bianca). Chi sta a rota sta embalado .

 

Andiamo da Conrado, il più grande bordello di Bogotá, tre pia­ni, bar, ristorante e quattrocento ragazze su tre turni, ventiquattr'ore al giorno. Conrado ha settant'anni, è il re dei bordel­li della Colombia, ne ha tre a Bogotà, due a Cali e un altro paio a Medellín, il suo nome è un marchio di fabbrica: è scritto al neon, a grandi lettere rosa, fuori dei suoi locali. Facciamo un giro al bar al pianterreno: lampade Tiffany, luci basse, divanetti capitonné di seta rossa, belle ragazze troppo bionde, bevande troppo colorate. Ogni tanto una ragazza si avvia su per le scale con un signore.

Le ragazze guardano male Marcela. E anche due tizi con i baf­fi in un angolo della sala. Ce la filiamo appena finito di bere.

Altro stile nei bar della Decima, i bordelli dei poveri. Sono cu­pi, squallidi, illuminati al neon, magnaccia brutti, con i capelli pie­ni di brillantina, le ragazze chiattone con la pelle scura e il volto incattivito affacciate alle finestre o in gruppetti di due o tre sulle porte. Tette strizzate in fuori dai push-up, chiappe cellulitiche che straripano da jeans tagliati all'anca. Carne in batteria.

Insomma: come al solito, non ho capito un cazzo.

Ma è l'essenza delle cose che mi interessa. Interrogo Marcela sulla sua vita, sul suo mondo, sulla notte. Cerco di capire cosa vuol dire mettersi in un angolo di strada e farsi sodomizzare da due, tre, cinque sconosciuti, succhiare un tot di cazzi, ingoiare lo sperma, in­tascare il denaro e tornare a casa per dormire su un tavolo – perché Marcela non guadagna nemmeno abbastanza da affittarsi una camera tutta sua. Cosa vuoi dire essere un maschio e, dentro, sen­tirsi donna. Chi sono, come sono i suoi amici, i suoi affetti, i suoi amori. Ma lei, semplicemente, non vede cosa ci sia di strano, o di interessante: le tocó ser así . Non capisce.

Finalmente capisco io. Capisco che, come al solito, ho preteso troppo. Questa è una ragazzina analfabeta, cresciuta in un mon­do totalmente deprivato e totalmente depravato. Cerca di compiacere tutti i miei desideri come se fossi un cliente, ma, sempli­cemente, non riesce a coglierne l'essenza. Crede che voglia vedere – il capriccio di uno straniero ricco in visita allo zoo – ma le sfugge il fatto che io voglia capire, sentire. Non riusciamo a co­municare. È frustrante.

Non c'è niente da fare. Tra me e lei c'è un gap culturale incol­mabile. L'unico canale di comunicazione possibile sarebbe – for­se – quello affettivo, o quello sessuale.

D'improvviso mi avvolge una grande stanchezza. La notte mi pesa sull'anima come una cappa grigia.

È appena mezzanotte, ma le dico: “Bene, Marcela, abbiamo visto abbastanza”.

Fermo un taxi che passa. Lei mi guarda interrogativa, come a dire: “Ti ho deluso?”. Le metto in mano un biglietto di banca, due o tre notti di lavoro. La ringrazio. Le dico che sono molto contento. Sorride, lusingata, il denaro è la misura del suo valore. La saluto con un bacetto e una carezza un po' malinconica sui bei capelli lunghi, curati. Mi accascio sul sedile. La macchina parte, mi volto a guardare attraverso il lunotto. Marcela è lì sul marciapiede che mi saluta con la manina, ancheggiando un po'. Poi scom­pare nella notte.

 

(Tratto da Piombo e tenerezza, Editoriale Diario, Milano, 2005.)



Enzo G. Baldoni nasce l'8 ottobre 1948 a Città di Castello, Perugia. Si diploma in agraria, ma fa tutt'altro: “Il muratore in Belgio, lo scaricatore alle Halles, il fotografo di nera a Sisto San Giovanni”. Capisce “che fare il copy è meglio che lavorare” e nel 1980 fonda l'agenzia Le balene colpiscono ancora . Traduce la striscia Doonesbury di Garry Trudeau. In estate, parte. Nel 2004 è in Iraq doce organizza due missioni umanitarie a Najaf. L'agguato avviene il 20 agosto, mentre guida un convoglio della Croce rossa italiana con l'amico Ghareeb. La notizia della sua morte arriva nella notte del 26 agosto 2003.





        
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