DUE TIRI IN CORTILE


Wendell Ricketts





Tony è nel cortile, senza maglietta, e sta sudando nella luce indolente di un pomeriggio di giugno. È basso, circa un metro e settanta, ma compatto, e attualmente si vedono i muscoli ben definiti, specialmente nella parte superiore del corpo, sulla quale lavora ogni volta che ha la possibilità di usare i pesi. In più è sceso fino a qualcosa come l'otto per cento di grasso corporeo, perché c'è il lavoro manuale dalle sette alle tre e lui non mangia granché di quella porca sbobba che ti mettono sul vassoio al rancio.

La baracca dei pesi è nell'angolo interno del cortile a elle, dove i secondini non possono vederti a meno che non muovano i loro culi grassi vestiti di grigio per camminare fin lì, per cui per la maggior parte del tempo è lì che i ragazzi vanno a farlo. Non è simpatico cercare di fare il bench press quando a pochi metri ci sono dei tipi che s'abbeverano alla fonte, anche se non è che nessuno sia poi così timido. E se non sono un paio di checche che hanno sguardi solo l'uno per l'altro, magari è qualcuno che sta inaugurando un novizio, e sta sempre a chiederti se vuoi fartelo pure tu, che tanto fa parte del gioco.

Ma stasera si gioca a basket, e lui sa che sta andando bene. Tony apre entrambe le braccia ai lati, per bloccare i tipi che si dirigono sul ragazzo che porta la palla, è suo. Si sta concentrando sul gioco, okkey, okkey, ma non vuol dire che non senta lo spessore di un bicipite, forte e tondo, contro il suo avambraccio, o pettorali tosti che gli sfregano la schiena, i peli del petto che raspano.

La parte più bella dello scolpirsi in questo modo viene dopo. Lui è fortunato; quelli del suo blocco fanno l'ora d'aria dalle sei alle nove, e adesso che le serate si allungano, c'è il tempo per un paio di partite, o magari una partita e i pesi, e poi starsene semplicemente in piedi sulla striscia d'erba lungo la doppia recinzione con sopra l'avvolgimento di filo spinato tipo nastro merdoso e guardare fuori finché il sole si è posato sull'orizzonte, lasciare che la brezza ti accarezzi, t'asciughi. Non vuoi mettere le mani sulla rete, che servirebbe solo a farsi sparare, ma puoi alzare le braccia come delle ali, con le dita intrecciate sulla nuca, lasciare che il vento ti passi sulle ascelle, come una lingua calda che ti stuzzica su e giù per i fianchi, finché non ti formicola e i capezzoli si rizzano come pepite.

Non c'è bisogno che lo sappia nessuno, quando se ne sta lì in quel modo, perché lo fa.

Gonfiarsi con i pesi faceva parte di un piano per ottenere rispetto. Quello, e anche i vari tattoo, fatti quasi tutti lì dentro a pagamento. Quando Tony era nel pianeta terra, e aveva bisogno di fare in fretta un po' di denaro, con la sua aria da giovane marine bastavano dieci minuti al bar a far finta di giocare a biliardo per riuscire ad agganciare qualcuno, e di solito era già a casa sotto le coperte prima dell'una. All'epoca viveva di nuovo con suo padre, vicino a Houston. Ma quando sei dentro, avere ventun anni e un bel faccino è come perdere sangue in mare, e un ragazzo bianco e carino doveva lucidare un carro oppure farsi un nome, e lui sarebbe morto piuttosto che farsi fare come un novizio nella baracca dei pesi.

Una voce tagliente si intromette. “Oh! Cherokee! Sono libero!” È Vince che parla; dicono di essere della stessa cucciolata, perché hanno tatuaggi uguali. Tony fa un passo energico a sinistra, porta la palla al petto, come per passare, poi punta a destra e tira aggirando il tipo che lo marca. Il tiro è fuori. “Colpa mia”, si scusa Tony mentre trottano sulla piattaforma di cemento verso il canestro opposto.

Per essere un duro ci vuole anche un soprannome, per questo molti dei ragazzi lo conoscono come “Cherokee”. Suo padre cominciò a chiamarlo in questo modo chissà più quando, diceva che così Tony non avrebbe dimenticato che avevano quello stesso sangue, loro due, nonostante la pelle chiara che Tony aveva preso dalla madre. Quel nome lo aveva seguito quando era entrato, e in più c'era la voce che aveva pugnalato a morte un tizio con un coltello da caccia, e poi gli aveva fatto lo scalpo. Quest'ultima cosa non era vera, ma andava bene che qualcuno ci credesse. Ora aveva una scheggia, dovevi averne una da far vedere ogni tanto, anche per alimentare la diceria, ma l'unico modo per non farla trovare alle guardie era di lasciarla attaccata col nastro adesivo dietro la piastra elettrica, e come cavolo l'avrebbe aiutato se mai gli fosse servita giù in cortile o alle docce, che era dove ti beccavano? Ad ogni modo il piano che aveva in mente era di essere già ben pompato per il giorno che gli fosse capitato di sentire uno dei ragazzi dire ai suoi: “Ehi, mira - il vato è un duro, man .” Se gli ispanici ti rispettavano, potevi startene tranquillo. T'avrebbero difeso il culo dai negri. Non è che non t'avrebbero tagliato la gola e ci avrebbero sputato se ci fosse stata una vera rissa razziale, ma in quel caso sapevi che stavi dalla parte del tuo colore. Dentro non c'erano abbastanza indiani con cui farsela, perciò il suo colore era bianco.

Era sabato, cioè giorno di visita, e la mamma di Tony era venuta in auto da Normangie. Quando entrò nella sala visite, la vide che se ne stava seduta su una sedia pieghevole di metallo con la faccia nascosta dietro un paio di fanaloni neri tipo funerale mafioso, per non dare a vedere che aveva pianto, e le prime parole che le uscirono di bocca furono che era tanto dispiaciuta di dover dire a Tony che suo padre era morto. Nessuno shock. Il padre aveva quella merda addosso da anni e il ritorno dalla madre di Tony perché lei potesse occuparsi di lui aveva soltanto ritardato l'inevitabile. “Mi è morto tra le braccia”, continuava a ripetere, infilando una massa di kleenex dietro gli occhiali e premendosi gli occhi. Diceva così e poi “Antonio, io proprio non so come abbia potuto prendersela.”

Qualcuno tirò la palla a Tony, e lui la prese e cominciò a correre. Cristo, era libero fino al canestro. Stava pensando a quell'anno e mezzo che aveva vissuto dal padre a Houston - giusto fino a quando non aveva compiuto diciassette anni - facendosi, facendo giochetti perversi con le puttane che suo padre portava a casa, tutti per uno uno per tutti, talmente strafatto e arrapato che non importava quale stantuffo finisse in quale cilindro, per così dire, e certe volte era proprio così anche quando c'erano soltanto loro due, perché suo padre diceva che c'erano cose di cui aveva bisogno e che non poteva avere da una donna ma non si sarebbe abbassato a farle con un qualsiasi sconosciuto. Meglio che le cose restassero in famiglia, che abbiamo lo stesso sangue, diceva suo padre. Abbiamo lo stesso sangue.

Con tutto il rispetto per sua mamma, che s'era presa in carico suo padre quando stava male - pensò Tony - ma era proprio un'idiota in calore. Correndo, infilzò un canestro secco - lo schiocco metallico sul cemento, poi il rimbalzo ovattato sul suo palmo. Lei non sapeva come suo padre si fosse preso quella merda. Le parole risuonavano nella testa di Tony allo stesso ritmo della palla. Montavano rapide come in una scopata: “Co-sì. Co-sì. Co-sì.”

 


(Titolo originale Yard Ball.Pubblicato in Salt Hill #9, 2000, pp. 54-56. Ripubblicato in The Egg Box, Norwich,England #2, 2002, pp. 48-50. Finalista al POZ/Artery Literary Contest. Traduzione dall'inglese di Giovanna Zunica.)



Wendell Ricketts è nato a Wake Island, un'isoletta corallina dell'Oceano Pacifico, e ha trascorso l'infanzia a O'ahu, nell'arcipelago delle Hawai. Ha studiato lingua e letteratura inglese, conseguendo un master in scrittura creativa presso la University of New Mexico. È curatore dell'antologia Everything I Have Is Blue: Short Fiction by Working-Class Men about More-or-Less Gay Life (Suspect Thoughts Press, San Francisco, 2005) - finalista per il 2005 Lambda Literary Award for Anthology - e suoi racconti sono apparsi in varie riviste letterarie. Dal 2005 ha lasciato gli Stati Uniti per l'Italia, dove si dedica soprattutto alla traduzione e all'insegnamento dell'inglese. La sua traduzione dell'opera teatrale completa di Natalia Ginzburg sarà pubblicata a breve dalla University of Toronto Press.


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