COSE DELLA MORTE


Salvador Garmendia




Se vi dico che non mi piacciono i funerali, non mancherà qualcuno che m'interrompa per affermare che ciò succede a tutti; ma io so per esperienza che questa non è la completa verità, anzi, che ci sono persone – e credo anche che abbondano –veri fanatici delle pompe funebri, che sono in special modo attratte dall'esalazione satura dei fiori – che nei funerali odorano in modo inconfondibile come se al tagliarli a tale proposito i loro liquidi ed essenze si decomponessero velocemente – ma anche dal rumorio fluttuante delle conversazioni a bassa voce e addirittura credo che il rumore cupo delle vangate gli infonda qualche pensoso godimento. Eludo dunque nel possibile questi appuntamenti mortuari e solo in occasioni tali come quella del mio amico Tobias, devo rassegnarmi all'accettazione di tale dovere.

Visse Tobias e morì – cadde fulminato da un infarto – in una casa dall'aspetto gradevole, circondata da alberi, un manto di edera sulla facciata e un balconcino pieno di vasi. Risultava, si, troppo piccola per accogliere la grande quantità di visitatori, –Tobias era stato uomo di innumerevoli amici – tanto più che il salone principale era occupato dal feretro, le corone, i candelabri, i parenti più stretti e altre apparecchiature mortuarie.

Scivolando tra tante cravatte nere, riuscì a introdurmi nel gruppo che era intorno alla vedova, dove era tutto umidità e singhiozzi. Lei non dovette riconoscermi già che al ricevere il mio abbraccio mi disse, con voce bagnata e tremante: non giocherete mai più a poker le domeniche, cosa che io non ricordo aver mai fatto. Sopra le spalle della vedova, due occhi tondi e sporgenti brillarono per un momento. Quando ci separammo erano già spariti tra tutti quegli stracci neri. Un po' frastornato rimasi in quella sorda moltitudine per qualche momento tentando di ritrovare la singolare apparizione. Allora si aprirono delle tendine e nel chiarore comparirono di nuovo quegli occhi dotati di un luccichio acuto e malizioso, che sembrava crescere ancora di più tra tanti occhiali scuri e gli occhi arrossiti delle donne. La ragazza sparì in un attimo lasciandosi dietro la scia dei suoi fianchi flessuosi e un collo bianco, snello e anche luminoso.

– Chi è questa ragazza? chiesi a uno che conoscevo.

– É la sorellina di Tobias. Uno splendore.

La partenza del feretro era prevista per le cinque del pomeriggio. Erano le quattro e mezzo. Cercando un po' d'aria mi avventurai nell'interno della casa. Nella sala da pranzo c'era un gruppo di uomini, tutti di età matura, pulcri, appena rasati, imbevuti d'acqua di colonia.

– Venga amico, e cerchi di non destare attenzione. – Uno di quelli sconosciuti m'aveva preso per un braccio.

Andammo in una stanza più piccola, carica di odori e ci sistemammo nel poco spazio libero lasciato da un letto di ferro completamente in disordine, due ceste stracolme di indumenti e altri oggetti rovinati e vecchi, tutto ciò dava a intendere che quel posto, nudo e senza finestre, fosse lo sgabuzzino della casa.

Sul letto, i piedi scalzi e i capelli volutamente arruffati, si trovava la sorellina di Tobias, coperta da un vecchio soprabito di pelle. Mosse la testa all'indietro, aprì un po' le braccia, e dopo scuotere le spalle, il soprabito scivolò fino ai piedi. Sotto quegli occhi sfavillanti si aprì un grido di pelle bianca, un poco più scura nello spazio tra seni e fianchi, le gambe agili e snelle, le linee delle costole che accendevano la pelle ad ogni contorsione del torso... Si gira, lo spacco di seta delle natiche si prolunga e sale affondando nella doppia incanalatura della schiena. I presenti, facce per me sconosciute, rimangono zittiti, immersi nella visione.

Il resto della cerimonia trascorse con quella abituale lentezza un po' meccanica. Un parente di Tobias mi mise nelle mani una vanga. Finita questa parte rituale dell'operazione, i becchini presero gli attrezzi e aggredirono velocemente il cumulo di terra.

Con l'ultimo squarcio di luce della sera tornammo verso le automobili, nel costeggiare una fossa appena scavata mi trovai di fronte un individuo che riconobbi all'istante essere uno dei compagni d'avventura in casa di Tobias. Gli misi una mano sulla spalla e il tipo mi guardò sorpreso.

– Che gli è sembrato dell'accaduto, amico? La ragazza era splendida.

– Cosa dice?

– Parlo di questa sera in casa di Tobias.

– Non so di cosa stia parlando.

– Di Tobias, naturalmente. Non viene anche lei dal funerale di Tobias?

– No signore, vengo da seppellire la mia prozia, era la persona alla quale ero più affezionato in questo mondo.

Aveva gli occhi arrossiti.

– Mi scusi ma…

– Se non le dispiace continui la sua strada. Non ho voglia di parlare con nessuno, sto passando un momento terribile.




(Questo racconto č stato pubblicato originalmente in Los escondites, Caracas, Monte Ávila, 1983.
Traduzione di Gregorio Carbonero)




Salvador Garmendia
(1928 –2001) Importante narratore Venezuelano del secolo XX, fu docente universitario, giornalista e autore televisivo e radiofonico, Legato agli esordi della sua carriera alla rivista “Sardio” e al gruppo letterario “El Techo de la Ballena”.

Tra i suoi libri più importanti: “Los Pequeños seres il suo primo romanzo descrisse l'esistenza alienata e degradata dei centri urbani. Gli valse nel 1959 il premio “Municipal De Literatura”

Tra le altre opere: Los habitantes (1961), Día de ceniza (1963), La mala vida (1968), Los pies de barro (1973) y Memorias de Altagracia (1973) Difuntos, extraños y volátiles (1970), Los escondites El único lugar posible (1981), La gata y la señora (1987) El inquieto Anacobero y otros cuentos (1976), El brujo hípico y otros relatos (1979), Hace mal tiempo afuera (1986) y El capitán Kid (1989).

Nel 1972, vinse il Premio Nacional de Literatura e nel 1989 il premio Juan Rulfo.


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