LA COSCIENZA DELLE PAROLE

– Brano tratto dal discorso di accettazione del Premio Gerusalemme –


Susan Sontag



(…) Ci preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. E più sono astratte e imponenti, più finiscono per assomigliare a stanze o a gallerie. Possono espandersi o franare. Possono riempirsi di cattivi odori. Spesso ci fanno ripensare ad altre stanze, in cui ci piacerebbe vivere o ci sembra di vivere già. Possono diventare spazi inabitabili perché perdiamo l’arte o la saggezza necessaria per viverci. E alla fine quelle cubature di intenzioni mentali che non sappiamo più abitare verranno abbandonate, sprangate chiuse per sempre.

Che cosa intendiamo, per esempio, con la parola “pace”? Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? O forse una grande stanchezza, un esaurimento, il prosciugarsi di ogni rancore?

A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento. Per loro vuol dire questo, mentre per gli altri significa sconfitta.

Se prende piede l’idea che la pace, per quanto in teoria desiderabile, comporti un’inaccettabile rinuncia a rivendicazioni legittime, il corso d’azione più plausibile sarà quello della guerra, anche se praticata in forma non totale. I richiami alla pace saranno considerati, se non fraudolenti, sicuramente prematuri. E la pace diverrà uno spazio che non si sa più abitare. In cui bisogna reinsediarsi. Da ricolonizzare…

E cosa intendiamo con la parola “onore”?

Considerato come un impegnativo codice di condotta personale, l’onore sembra appartenere a tempi lontani. Ma l’abitudine di conferire onorificenze – di lusingare noi stessi e gli altri – prosegue ininterrotta.

Conferire un’onorificenza significa affermare principi che si ritengono condivisi. Accettarla vuol dire credere, seppure per un momento, di averla meritata. (Si dovrebbe tutt’al più dire, per pudore, di non sentirsene indegni). Rifiutare l’offerta di un’onorificenza sembra sgarbato, asociale, arrogante.

L’onore di un premio cresce - così come la capacità di conferirlo – in virtù delle persone che si è scelto di onorare negli anni precedenti.

Proviamo a considerare, sotto questa luce, il Premio Gerusalemme, un premio dal nome così impegnativo, che, nella sua storia relativamente breve, è stato assegnato ad alcuni dei migliori scrittori della seconda metà del XX secolo. Benché si tratti con ogni evidenza di un premio letterario, non si chiama Premio Gerusalemme per la Letteratura ma Premio Gerusalemme per la Libertà dell’individuo nella Società.

È vero che tutti gli scrittori a cui è stato assegnato hanno difeso la libertà dell’individuo nella società? È questo ciò che hanno – che abbiamo, devo dire adesso – in comune?

Credo di no.

Tali scrittori rappresentano un ampio spettro del pensiero politico. Ma non si tratta soltanto di questo. Alcuni di loro non hanno mai sfiorato le Grandi Parole: libertà, individuo, società…

Quello che conta, però, è ciò che uno scrittore è, e non ciò che dice.

Gli scrittori – vale a dire i membri della comunità della letteratura – sono emblemi della persistenza (e della necessità) di una visione individuale.

Preferisco parlare di visione individuale piuttosto che di visione dell’individuo.

Mentre la parola “individualità” diventa sempre più sinonimo di egoismo, l’incessante propaganda che oggi si fa in difesa dell’ “individuo” mi sembra, infatti, profondamente sospetta. Le società capitalistiche hanno ogni interesse nell’esaltare un’individualità e una libertà, che finiscono per significare poco più che il diritto alla continua esaltazione di se stessi, e alla libertà di fare acquisti, comprare, usare, consumare e rendere obsoleto.

Non credo che la coltivazione del proprio io abbia un valore intrinseco. E credo che non ci sia cultura (e uso il termine in senso normativo) senza un principio di altruismo, di considerazione per gli altri. Credo invece che ci sia un valore intrinseco nell’allargamento della nostra capacità di comprendere quel che può essere una vita umana. Se c’è stato un progetto in cui la letteratura mi ha impegnata, prima da lettrice e poi da scrittrice, si è trattato del progetto di allargamento delle mie simpatie verso altri esseri, altri campi, altri sogni, altre parole, altri territori di interesse.


In quanto scrittrice, creatrice di letteratura, narro e rifletto al tempo stesso. Le idee mi commuovono. Ma i romanzi sono fatti di forme, non di idee. Forme del linguaggio. Forme d’espressione. Non ho in testa una storia fino a quando non ne conosco la forma. (Come sosteneva Vladimir Nabokov, “il disegno della cosa precede la cosa”). E – in modo implicito o sottinteso – i romanzi nascono dall’idea che uno scrittore ha di ciò che la letteratura è o può diventare.

Ogni opera di uno scrittore, ogni attività letteraria, incarna o comporta una visione della letteratura. La difesa della letteratura è ormai diventata uno dei temi principali degli scrittori. Ma, come ha osservato Oscar Wilde, “una verità in arte è quella di cui è vero anche il contrario”. Parafrasando Wilde, potrei affermare: una verità sulla letteratura è quella di cui è vero anche l’opposto.

Perciò la letteratura – e parlo in termini prescrittivi, non solo descrittivi – è consapevolezza, dubbio, scrupolo, meticolosità. Ma è anche – ancora una volta in senso sia prescrittivo che descrittivo – canto, spontaneità, celebrazione, beatitudine.

Le idee sulla letteratura – a differenza di quelle sull’amore, ad esempio – nascono quasi sempre in risposta alle idee degli altri. Sono reattive.

Dico una cosa perché ho l’impressione che voi – o quasi tutti voi – ne diciate un’ altra. E così faccio spazio a una passione più grande o a una pratica diversa. Le idee autorizzano, e io voglio autorizzare una sensibilità o una pratica diversa.

Dico una cosa se voi ne dite un’altra, non soltanto perché gli scrittori sono, a volte, avversari di professione. Non soltanto per rimediare agli inevitabili squilibri o alle parzialità di ogni pratica che abbia un carattere istituzionale – e la letteratura è un istituzione – ma perché la letteratura è una pratica radicata in aspirazioni intrinsecamente contraddittorie.

Sono dell’idea che ogni singola visione della letteratura sia falsa – e cioè, riduttiva, puramente polemica. Laddove parlare con sincerità di letteratura vuol dire necessariamente parlare per paradossi.

Perciò, se ogni opera letteraria che conta, che merita di essere definita tale, incarna un ideale di singolarità, di voce individuale, la letteratura, che è accumulazione, incarna invece un ideale di pluralità, di molteplicità, di promiscuità.

Ogni possibile idea di letteratura – letteratura come impegno sociale, come ricerca di private intensità spirituali, letteratura nazionale o universale – è, o può diventare, una forma di autocompiacimento spirituale, di vanità, o di autogratificazione.

La letteratura è un sistema – un sistema plurale – di metri di giudizio, ambizioni, lealtà. La sua funzione etica sta almeno in parte nella capacità di insegnare il valore della diversità.

Certo, la letteratura deve operare all’interno di determinati confini. (Come ogni altra attività umana. Solo la morte ne è priva). Il problema è che i confini che la maggior parte della gente desidera tracciare soffocherebbero la libertà della letteratura di essere quel che può essere, in tutta la sua inventiva e capacità di turbamento.

Viviamo in una cultura votata a un’avidità che ci accomuna, e una delle tante lingue che costituiscono la grande e splendida molteplicità delle lingue del mondo, quella in cui io parlo e scrivo, è diventata la lingua dominante. L’inglese ormai gioca, su scala mondiale e per un numero di persone sempre più ampio all’interno dei Paesi del mondo, un ruolo simile a quello esercitato dal latino nell’Europa medioevale.

Ma, pur vivendo in una cultura sempre più globale e transnazionale, siamo sempre più impantanati nelle frammentarie rivendicazioni di gruppi etnici reali o recentemente proclamatisi tali. Le vecchie idee umanistiche – la repubblica delle lettere, la letteratura universale – sono attaccate da ogni parte. Ad alcuni sembrano ingenue, oltre che macchiate dal fatto di avere origine nel grande ideale europeo – eurocentrico, sostiene qualcuno – dei valori universali.

È sorprendente la perdita di valore subita negli ultimi anni da nozioni come “libertà” e “diritti”. In molte comunità, ai diritti collettivi si attribuisce maggior peso che a quelli individuali.

Da questo punto di vista, l’opera di chi fa letteratura può, implicitamente, servire a rafforzare il peso della libertà di espressione e dei diritti individuali. Anche quando chi fa letteratura ha consacrato la propria opera all’etnia o alla comunità a cui appartiene, la sua importanza in quanto scrittore dipende, infatti, dalla capacità di trascendere tale intento.

Tutte le qualità che rendono pregevole o ammirabile uno scrittore possono essere individuate nella singolarità della sua voce.

Ma tale singolarità, coltivata in privato e frutto di un lungo apprendistato alla riflessione e alla solitudine, è costantemente messa alla prova dal ruolo sociale che gli scrittori si sentono chiamati a svolgere.

Non contesto il diritto degli scrittori a impegnarsi in dibattiti su questioni pubbliche, a fare causa comune e a sodalizzare con chi ha idee simili alle loro.

Né voglio sostenere che tali attività allontanino chi scrive da quello spazio interiore, solitario ed eccentrico, in cui si fa letteratura. Lo stesso si potrebbe infatti dire di quasi tutte le attività di cui è fatta una vita.

Ma una cosa è impegnarsi volontariamente, spinti dagli imperativi della coscienza o dei propri interessi, in un dibattito o in un’azione pubblica. Un’altra è produrre opinioni – sound-bites moralistici – su commissione.

Uno scrittore non dovrebbe essere una macchina produttrice di opinioni. Come ha affermato un poeta nero del mio paese, rimproverato da altri afro-americani di non scrivere poesie sugli oltraggi del razzismo, “uno scrittore non è un jukebox”.

Il primo compito di uno scrittore non è avere delle opinioni, ma dire la verità… E rifiutarsi di diventare complice di menzogne e disinformazione. La letteratura è la casa della sfumatura e della contraddizione che si oppone alle voci della semplificazione. Compito dello scrittore è farci vedere il mondo così com’è, pieno di parti ed esperienze e rivendicazioni diverse.

Compito dello scrittore è raffigurare le realtà: le realtà ripugnanti, le realtà estatiche. E l’essenza della saggezza offertaci dalla letteratura (dalla pluralità delle conquiste della letteratura) sta nell’aiutarci a comprendere che qualunque cosa accada, succede sempre qualcos’altro.

Io sono ossessionata dal conflitto tra i diritti e i valori che mi stanno a cuore. Per esempio dal fatto che – a volte – la ricerca della giustizia può comportare la soppressione di una buona dose di verità.

Molti dei più notevoli scrittori del XX secolo, nell’esercitare la loro funzione di voce pubblica, sono stati complici di una soppressione della verità intesa a promuovere quelle che ritenevano (e in molti casi erano) cause giuste.

La mia opinione è che, se proprio devo scegliere tra verità e giustizia – e naturalmente non voglio scegliere – scelgo la verità. (…)





(Discorso tratto dalla raccolta di saggi Nello stesso tempo: la coscienza delle parole, Mondadori Milano 2008, traduzione di David Rieff )


Susan Sontag (New York 1933-2004) è stata una delle più note e affermate scrittrice contemporanee, attenta osservatrice delle dinamiche culturali e delle realtà politiche della società.



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