COCKTAIL DI VETERANI (3)

Dmitrij Kostenko



L’idolo dei miei amici tedesco-orientali è Franz Jung, il dadaista ed espressionista che si affermò negli anni ’10, entrò nel Partito Comunista negli anni ’20, poi fondò un proprio Partito Comunista più radicale, e diventò perfino pirata dirottando un peschereccio. Si nascose nella cambusa e si impadronì della nave, la portò a Murmansk e la donò al governo sovietico. Da Murmansk andò poi a Pietrogrado, si incontrò con Lenin, gli strinse la mano, e tornato in Germania organizzò una rivolta in Sassonia. Poi dalla Sassonia venne estradato in Olanda, ma partì nuovamente per la Russia, dove diresse una fabbrica di fiammiferi nella regione di Novgorod (per questo motivo uscirono alcuni suoi libri in Unione Sovietica). Dopo aver fatto tappa in uno stabilimento di trattori negli Urali tornò in Germania. Mise in scena il suo teatro con Piscator, si inimicò Brecht, e così via. Tutti i suoi progetti – la fabbrica e il resto – furono un assoluto fallimento. In Unione Sovietica non venne più pubblicato e in occidente perseguitato. Durante gli anni del nazismo si nascose da qualche parte in Ungheria, poi si provò senza successo come uomo d’affari in America.

Negli anni ’50 scrisse il suo capolavoro, “Der Weg nach unten” (La via verso il basso) o “Der Torpedokäfer” (un insetto che striscia sempre verso l’alto e puntualmente cade giù, come Sisifo). E scrisse che andava bene così! Che i Mitki dovevano rufolare per sempre nella merda! “Tutti i miei progetti sono naufragati ed è giusto così!”

Dobbiamo sempre ricominciare da capo e continueremo a finire nella merda, ma dietro abbiamo un motore e ali fiammeggianti! E non desisteremo mai – ci chiamino pure “loser”! Questa è la giusta mentalità, questa è la nostra mentalità. Essere perdenti non è una vergogna, essere perdenti è onorevole. Un perdente che non perde la fiducia in sé. Un perdente che ricomincia sempre. Questo è onorevole!

Le persone del nostro ambiente non erano asociali che vivevano isolati nella clandestinità. Ognuno conduceva una vita normale. Era un hobby. Non siamo diventati rivoluzionari di professione, per quanto allora il corso del dollaro fosse alto e nei nostri rapporti con gli sponsor occidentali non fossimo caduti dalle nuvole… io per esempio nel 1992 ricevetti una borsa di 6 dollari… la mia ragazza guadagnava 20 dollari lavorando in un’agenzia di stampa, allora era considerata una somma enorme. Diventare rivoluzionari professionisti non era dunque né difficile né scomodo. Ciononostante non lo siamo diventati, e non so proprio perché.

Non si trattava di gente che cedeva alle droghe. L’hashish naturalmente veniva fumato, ma non era una vita da bohème, con bar e club. Per quello nelle città non eravamo abbastanza. Se ci fossimo raccolti in una piazza ne sarebbe venuta fuori forse una sottocultura, come ne esistono oggi a Minsk intorno ai Navinki e al Červony Šond.

Ovviamente a quel tempo indossavamo tutti fazzoletti palestinesi. Oggi non è più di moda, ma allora era diffuso nei circoli autonomi tedeschi, per solidarietà con la Palestina. I fazzoletti ci servivano anche a nascondere il volto. Ma anche i musicisti che erano stati a Berlino e Amsterdam li portavano. Inoltre c’era la rivista araba “Al-Kuds”, che durante le sue iniziative li distribuiva alle anziane comuniste. Quindi c’era un periodo in cui li indossavano anche le vecchie signore. Ma solo noi lo portavamo annodato correttamente.

Come doveva essere un movimento dell’autonomia non lo sapevamo, i nostri contatti con l’occidente erano costituiti principalmente da circoli anarchici ottusi e dogmatici. Quando eravamo ancora nel KAS, era Andrej Konstantinovič Isaev a dirci cosa fare (allora KAS, oggi comitato della Duma per il lavoro e le politiche sociali). Fu lui ad affermare: “I veri anarco-sindacalisti si occupano di anarco-sindacalismo, e quelli che vivono in case occupate con i capelli tinti di rosa si chiamano autonomi”. A quel tempo non c’era ancora nemmeno la parola “autonomo”, fui io a importarla dalla Germania, scritta alla maniera tedesca. Oggi chiunque è stato in occidente, ma all’epoca, nel 1992, ero uno dei primi. Io e Busa partimmo in autostop per il Congresso Mondiale dell’Internazinale Anarco-Sindacalista, mentre Damjé arrivò in aereo come un pezzo grosso. Avevamo abbastanza indirizzi a cui rivolgerci in cammino, da Berlino a Colonia, pernottamenti inclusi. Dovevamo sbrigarci, perché il 1 Maggio a Parigi si svolgeva il Congresso Mondiale delle Federazioni Anarchiche, con manifestazioni, etc.. Ci guardammo tutto, anche se si trattava naturalmente della vecchia frazione dogmatica. Così però scoprii per me gli autonomi.

Tre anni dopo andai in autostop da Brest-Litvosk a Bordeaux. Non parlavo una parola di francese, ma ciò non mi impedì di tenere in cammino relazioni sul movimento anarchico russo. Era pura cultura prochodimec. Partii con trenta dollari in tasca. Nei due mesi che trascorsi per l’Europa notai la differenza tra la Germania e la Francia. La Francia offriva un’impressione estremamente borghese e tranquilla, ma già alla fine dell’anno, dopo l’uscita del film “La Haine” (L’odio), scoppiarono disordini razziali e l’atmosfera mutò. In Germania la situazione era inversa, i naziskin attaccavano gli autonomi e a Rostock davano alle fiamme i dormitori degli asilanti. Quindi io mi trovavo sul crinale, nell’ultimo periodo d’oro del movimento autonomo. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, in Francia la parola “socialista” era diventata un’ingiuria, mentre la nuova destra – Alain de Benoist e L’idiot International – rispuntava fuori riciclando molte idee del ’68 e creando una nuova e attraente dottrina. Perfino molti attivisti di sinistra si lasciarono “affascinare”. In Germania invece il movimento autonomo era alla frutta. Case occupate e riscaldate con pannelli solari, e i loro bar in cui si servivano alcolici, sebbene fosse proibito…

A quell’epoca per i russi era quasi impossibile andare in occidente, con l’eccezione di alcuni privilegiati come Damjé e Isaev. E così divenni una specie di Marco Polo o Colombo che aveva scoperto un nuovo mondo e riferiva: il mondo degli autonomi. In Russia questo mondo era totalmente sconosciuto; eravamo rimasti ancora al ’68 e al terrorismo. Riferii che esistevano interi quartieri occupati, che era un mondo a sé, una sottocultura con una propria visione del mondo, con vestiti, musica, fumetti. Io ne diventai il propagandista, ovvero mi resi colpevole di piaggeria. Pensavo: bisogna fare come loro. Perché in tutta Mosca c’è solo la casa occupata di Petljura? A Pietroburgo c’era già la Puškinskaja 10 e Pjotr Rausch già nel 1990 aveva realizzato un’occupazione anarchica. Dissi: bisogna occupare case, iniziare azioni antifasciste, con i visi mascherati!

Mi sembra che tutti questi cliché occidentali, tutta questa gente sazia e frustrata con i suoi stereotipi culturali, tradizioni e political correctness non porti niente di buono in Europa orientale. Queste persone vivono così già da decenni e non sono mai arrivati ad alcuna rivoluzione. Noi qui in Russia, Polonia, Slovacchia dobbiamo percorrere le nostre strade, abbiamo molto da fare anche senza guardare all’Europa o al “terzo mondo”. Percorrere le strade che loro propongono, le strade già tracciate e percorse da loro, non porta a niente. Loro stessi non sanno cosa vogliono. Cosa vogliono alla fine i no-global? I più giovani tra loro sono hooligans che si danno appuntamento per fare casino; non si può definire in altro modo. Ma queste proteste sono sempre esistite, ovunque! All’improvviso i media cominciarono ad occuparsi dei viaggi annuali con l’isteria tipica per loro. Tutto il movimento cosiddetto no-global è nato per un caso fortuito. Mentre a Colonia nel 1999 si teneva il “G-8”, ci furono dei disordini ascrivibili alla sinistra radicale a Londra. Disordini o scontri non sono niente di speciale in questo ambiente, questi erano forse erano un grado più alti del normale in un’ipotetica scala Richter delle intemperanze, ad ogni modo una notizia buona solo per le cronache locali. I giornalisti invece, che non si erano mai occupati di azioni della sinistra, cominciarono a scrivere fiumi di inchiostro sulle “proteste di massa contro la globalizzazione”. E i giovani di sinistra che si videro improvvisamente in televisione dissero: “’fanculo l’antifascismo e le altre palle, ora facciamo quello di cui tanto si parla in televisione”. Così è nato il movimento antiglobalizzazione, il figlio perduto della società dello spettacolo. Quelli che prima si definivano antifascisti ora si definiscono no-global. Cosa c’è di diverso da quello che Débord ha scritto in La société du spectacle? Tutto avviene in funzione della tv, un progetto mediatico con gruppi peer. Non vi vergognate almeno un po’, compagni, a definire tutto ciò un tentativo di rianimazione del movimento rivoluzionario?

Nel terzo mondo scorrono fiumi di sangue, la gente combatte e vuole davvero cambiare il proprio mondo, per quanto possa essere ottusa, dogmatica, maoista, leninista o quant’altro. In occidente invece tutto è plastica, non è autentico né profondo. Sta a noi mettere in piedi qualcosa di nostro, magari inciampando, ma sempre con ironia!



Traduzione di Antonello Piana.

Tratto da “Obraz žizni” (Stile di vita), a cura di Oleg Kireev, Getto (Mosca 2003), pp. 9-32



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