SEI RACCONTI BREVISSIMI

– Racconti tratti dalla raccolta Centuria: cento piccoli romanzi fiume


Giorgio Manganelli








Ventisei


Come tutti i malati, spesso egli si sveglia al mattino con un profondo, abbandonato senso di salute. Non avverte il mondo fattosi angusto, la brevità dei percorsi che compie anche nella sua casa. La sua vita, sempre più minuscola, gli sembra della misura giusta, un vestito che gli si addice con proprietà ed eleganza. Perché uscire quando il cielo è basso di nuvole, e non c’è segno di sole? Perché muoversi, quando l’immobilità è palesemente di tanto più pertinente e concettosa? Egli sta bene, perché dovrebbe fare gesti o dire parole e pensare pensieri che potrebbero far vacillare quel mirabile senso di equilibrio?

Ma attorno a lui si muovono altre persone; egli avverte che in costoro sta il pericolo. Vorrebbe essere solo, ma sa anche che la solitudine che lo custodisce va ritagliata pazientemente fuori da una folla: almeno tre o quattro persone. La moglie gli guarda il volto: “Stai proprio meglio, sai”, commenta. L’equilibrio perfetto è rotto, miserabilmente frantumato. Egli guarda nello specchio quel volto, appena scrutato dalla moglie che vive con lui e con quel volto da anni, che si è abituata alla esistenza di lui, un’abitudine che egli non è riuscito a contrarre. Esamina il volto che sta meglio: magro, gli occhi innaturalmente grandi, le labbra secche che nessuno oserebbe baciare, sacre ad altro; guarda la pelle del collo, quei capelli disordinati. Torna a coricarsi, ripensando al proprio corpo, quel corpo che per un breve istante egli aveva dimenticato di indossare. Forse sta meglio, sorride tra sé; il problema della vita, predica a se stesso, facendosi smorfie, come un predicatore ubriaco, è quello di “migliorare ininterrottamente, giorno dopo giorno, ora dopo ora”; si comincia a migliorare con il primo strillo della nascita – inizio della convalescenza! “Aver cura di un bambino”. Anch’egli ha avuto un figlio, ma costui non gli dice mai “Stai meglio”. Naturalmente, il suo sguardo manca di sottigliezza, è distratto dalle rapide passioni giovanili. Il malato ride. Migliora di giorno in giorno, lo si vede benissimo. Ancora un poco, sempre meno; uno dei prossimi mattini - presto potrà cominciare a contare – si desterà del tutto privo di sintomi, per sempre, finalmente.




Trenta


Alle dieci e trenta del mattino, un signore grasso, con barba, dal vestito un po’ sgualcito, si accorse di avere la facoltà di compiere miracoli. Bastava un gesto molto semplice: far scorrere il pollice della mano destra sulle punte di indice, medio, anulare della stessa mano. Naturalmente, la prima volta era capitato per caso, e aveva guarito un gatto intristito, istantaneamente. Si trattava di miracoli, non di ‘realizzazioni di desideri’. Quando fece quel gesto e chiese del denaro – precisò la cifra, assai ragionevole – non accadde nulla. Doveva giovare a qualcuno. Guarì un bambino, calmò un cavallo, placò le furie di un pazzo omicida, trattenne in bilico un muro che rischiava di cadere su nonni e nipotini. Disgustoso: non c’era altra parola. Non avrebbe mai creduto che essere taumaturgo fosse così – come dire? – cheap. Il punto a favore del signore grasso era uno solo, ma importante: egli non era un credente. Non era, propriamente, ateo, giacché non aveva un animo filosofico; ma le religioni, tutte, gli davano l’uggia. E perché proprio a lui era toccata questa faccenda dei miracoli? Mettiamo che questo fatto provasse l’esistenza di una Potenza suprema, di che potenza si trattava? Dèi ce n’erano a dozzine, e mezzi dèi, demoni, folletti, fantasmi. A lui non interessava fare miracoli. Cos’era, una burla? Un tentativo di convertirlo? Un modo per ‘confonderlo’? il signore grasso era seccato. Quando arrivò al quarantesimo miracolo, e si accorse che qualcosa cominciava a trapelare, decise di muoversi. Fu così che entrò con viva riluttanza nella chiesa di un quartiere in cui non aveva compiuto alcun miracolo, e affrontò un prete. Fu chiaro: precisò non solo di non essere credente, ma che quei miracoli potevano venire da un Dio del tutto diverso da quello che si adorava in quella chiesa. Il prete non mostrò stupore. “ Non è il primo caso, disse “sebbene da noi non ne fossero mai capitati. Sposato?” “No”. “Perché non si fa prete?”. “Ma non sono credente” replicò. “E chi lo è, ormai? Vede, lei fa miracoli: fosse matematico, le direi di fare l’ingegnere”. Il penultimo miracolo del signore grasso fu quello di convertire il prete e spingerlo a penitenza; l’ultimo, di abolire se stesso, perché il prete si persuadesse di essere stato miracolato.

Questo ultimo miracolo fu molto apprezzato dagli esperti.




Trentaquattro


Costui è veramente un abitudinario. Veste sempre, da sempre, quale ora lo vedete, un completo grigio: ha tre vestiti identici, che indossa a turno. Ha tre paia di guanti scuri, tre paia di cappelli. Si sveglia alle sette meno cinque, si alza alle sette. Custodiscono l’esattezza del suo risveglio tre sveglie sincronizzate, e ricondotte all’ora di Greenwich; altre tre sveglie sono costantemente affidate alle cure di un unico orologiaio, del tutto consapevole della gravità del suo compito. Alle otto è pronto per uscire. Un cammino di trenta minuti lo separa dal suo posto di lavoro: ha rinunciato a servirsi di mezzi pubblici, a causa della loro imprevedibile inesattezza. Alle cinque e quarantacinque è nuovamente a casa. Riposa trenta minuti. Non legge né libri né giornali, che egli considera depositi di inesattezze. Mangia sobriamente; è astemio. Cammina per un’ora, in casa o attorno casa, a seconda del tempo. Detesta il tempo, e lo considera un segno della fondamentale inesattezza dell’universo. Rifiuta vento o pioggia. Alle dieci e trenta si corica. A quel punto, una fiera lotta si scatena in quest’uomo fermo e pacato; infatti, egli detesta i sogni. Talora sogna di morire, di venire ucciso, e se ne rallegra, giacché, suppone che venga in quel modo punito e distrutto l’io dei sogni. Si allena a dimenticare i sogni, a persuadersi che non esistono. Tuttavia, appunto il fatto che non esistono, ma hanno forma, lo turba profondamente. Anche il non essere è capace di disordine.

Nel suo quotidiano tragitto egli esegue quello che chiama un “esercizio spirituale”; esso consiste nella limitazione del mondo ad un itinerario angusto, nel cui ambito sempre meno possa accadere. Questo “esercizio” in realtà nasconde un disegno più sottile, pervicace e sapiente. Egli vuole fare del suo itinerario,della sua casa un luogo unico, centrale all’ordine del mondo. Vuole che il suo passo sia il pendolo esatto del mondo. Egli è convinto che il mondo non sia in grado di tener testa alla sua esattezza. Pertanto, egli è giunto a coltivare una ambizione anche più temeraria. Un giorno egli eseguirà un gesto inesatto, incompatibile col mondo; e questo, egli sa, verrà lacerato e disperso come un vecchio giornale in un giorno di vento. Sul Trono di Dio governerà sul Nulla epurato di sogni l’impiegato di concetto vestito di grigio.





Trentasei


L’architetto al quale è stato unanimemente affidato il compito di costruire la nuova chiesa non è credente. È tollerante verso la comunità ecclesiastica, verso il clero; meno verso i fedeli; in ogni caso, non è un persecutore. Tuttavia, egli è assolutamente certo che Dio non esiste, e pertanto che i preti eseguono cerimonie prive di senso obiettivo, il cui unico compito è quello di distrarre se stessi e i fedeli dalla coscienza della inesistenza di Dio. L’architetto sa che le parole “spirito, anima, peccato, redenzione, virtù” non hanno alcun significato, e tuttavia non può negare di capirne il senso, almeno per quel tanto che gli consente di parlare con i committenti della nuova chiesa. Egli è un buon architetto, sobrio e fantasioso: ha costruito scuole definite “piene di luce”, ospedali “sereni e accoglienti”, un delicato gerontocomio, stazioni ferroviarie funzionali; un intero quartiere, che è l’orgoglio della città che glielo ha affidato. Ora, per la prima volta, dovrebbe costruire un edificio che egli considera del tutto inutile, anzi menzognero nella misura stessa in cui sarà riuscito. L’architetto ha una buona coscienza professionale. In sé e per sé, costruire una chiesa è soltanto costruire un edificio che destinazioni particolari, specificate dai committenti. Ora, i committenti coltivano delle convinzioni che egli considera non solo dissennate, ma immorali; se gli affidassero la costruzione di una forca, accetterebbe senza esitare? Ma una chiesa è una forca? In un certo senso, lo è; è un luogo progettato come una stazione di transito verso il niente. I committenti vogliono questo da lui: che egli orni il luogo del transito. In questo non sarebbe diverso dagli stessi preti, che quel nulla ornano e nascondono dietro i veli della loro fantasia cerimoniale. Dunque, gli suggeriscono di farsi prete? Potrebbe essere un prete del niente, un ornatore che non vela, non cela, non elude. È, dunque, quella chiesa, un luogo falso, o un luogo ingannevole ma veritiero? Esiste altro itinerario per entrare nel niente? “Orna il niente, costruisci il niente, dacci un niente eterno”, egli fa dire ai preti. Tocca con la mano l’erba disadorna del terreno deserto, l’erba da estirpare per dar luogo al suo edificio, e pensa, insieme, all’altare, ai preti, all’erba, al niente.






Ottanta


Quando venne nominato guardiano dei gabinetti pubblici, egli provò dapprima una certa umiliazione; e certamente il suo compito era ed è umile. Doveva pulire le maioliche, asciugare l’acqua, porgere la carta a chi ne faceva richiesta, aprire ai clienti esigenti il gabinetto col bidet. Nella scala sociale della società in cui vive, egli era ed è ad un gradino assai basso, assai più dello spazzino che lavora all’aperto; egli infatti sta nei gabinetti molte ore al giorno e non vede mai il sole, giacché i gabinetti sono sotterranei, e sono aperti dal mattino alla sera. Il suo gabinetto è solamente maschile, e se ne rallegra, giacché è un carattere timido e sarebbe assai imbarazzato ad aprire un gabinetto ad una signora.

L’ambiente in cui lavora è umido, sempre tiepido, d’una temperatura che non varia molto da stagione a stagione; il servizio non è perfetto, perché spesso manca l’acqua, o uno dei due lavabi non funziona, e la gente che ha orinato fa la coda per lavarsi o esce con le mani sporche, e questo non gli sembra giusto. Egli ha uno stipendio, e chi scende nell’orinatoio in genere gli dà una piccola mancia; tuttavia per molto tempo egli ha sofferto. Gradatamente egli ha cominciato a non soffrire, non già perché non senta più la povertà del suo lavoro, ma perché ora lo sente semplicemente come un lavoro. È giunto, anzi, a provare un certo orgoglio, il fatto di occupare un posto così basso nella scala sociale gli dà una dignità, giacché i guardiani di gabinetti in tutta la città sono forse una decina, e sono il punto più basso, dunque un punto estremo, e non tutti sono capaci di giungere al punto estremo di qualsiasi cosa.

Ora, poi, sta avvenendo in lui un altro mutamento: infatti egli si accorge che l’uomo che orina, l’uomo che si rintana per defecare è qualcosa di radicalmente diverso dall’uomo che cammina per le strade della città, è un uomo che non mente, che si riconosce creatura, transito di cibo, perituro, e insieme in colui che, appoggiato alle piastrelle, sta orinando, egli vede l’uomo disperato dalle proprie feci, dalla sinistra efficienza del suo corpo, dalla incertezza su quel che significhi che l’essere umano usi i genitali per orinare. Il luogo infimo è anche una catacomba, e il guardiano dei gabinetti si accorge che il gesto dell’orinare contiene una supplica, è la bruttura e la realtà, l’infimo e il supremo; e il suo orinatoio egli ora lo considera una chiesa, e se stesso officiante.





Ottantanove


All’inizio, quando si incontrarono, si amarono perché entrambi, per strade diverse, avevano conosciuto una estrema e solitaria infelicità. La vita di lei era stata profondamente amara, la vita di lui precocemente sventurata. Misero in comune l’amarezza e la sventura, e amorosamente cercarono di aiutarsi, si aiutarono, senza sperimentare né una tregua nell’amarezza né una metamorfosi della sventura. Forti della unicità del loro legame, di quel segno negativo che lo contrassegnava, svilupparono attorno alla loro tristezza un amore costante, fedele, attento. Si consolarono, nella certa consapevolezza che nessuna consolazione, era possibile. Ciascuno dei due continuò ad essere ciò che era stato nella vita precedente, ma insieme vissero un rapporto che non negava ma in qualche modo metteva in comune il dolore. Ma l’amore ha le sue malizie. Per qualche tempo, l’amore, reciprocamente, all’amarezza e alla sventura, passava per colui o colei che vivevano quella condizione; ma poiché quella condizione era il fondamento e la garanzia e il senso del loro amore, ciascuno cominciò ad amare direttamente l’amarezza e la sventura dell’altro; se ne eresse a custode, e cominciò a badare che l’altro non si scostasse troppo dalla propria angustia. Ciascuno divenne geloso del dolore dell’altro e in breve avrebbe considerato una infedeltà ogni tentativo di scostarsi da quel dolore. Poiché erano di natura costante, ciascuno imparò ad amare il proprio dolore come pegno dell’amore dell’altro; e ciascuno proteggeva il proprio dolore e vigilava sul dolore dell’altro. In questo modo, la loro condizione amorosa raggiunse un perfetto equilibrio, in cui ciascuno giungeva al centro dell’altro attraversando e controllando i territori della sua angoscia. Ogni giorno, ciascuno verificava che la propria e altrui angoscia fossero intatte. Cercarono, anzi, di incrementare e perfezionare le loro sofferenze; in un primo tempo, accrescendo ciascuno le proprie; in seguito, ciascuno operando ad accrescere la sofferenza dell’altro. Si conobbero a fondo, e con pazienza e acume si trafissero reciprocamente, e si lasciarono trafiggere. Ciascuno accompagnò l’altro verso una irreversibile degradazione. Ora, non ignari, stanno attentamente preparando la meticolosa, lenta reciproca distruzione.



(Racconti tratti dalla raccolta Centuria – cento piccoli romanzi fiume, Adelphi Edizioni, Milano, 1995; prima edizione: 1979. )





Giorgio Manganelli




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