LA RAGAZZA DI TRÁS-OS-MONTES

– Brano tratto dal romanzo Ballata Lusitana –


Camilo Castelo Branco




Vent’anni prima, a Braga, Afonso de Teive frequentava i corsi di preparazione all’università, quando vide Teodora, conosciuta come la giovane nobildonna di Fervença. Allora era un bambina di quattordici anni. Afonso ne aveva diciassette.

Le madri di questi due ragazzi, che si erano visti e amati con l’innocente attrazione del bacio aereo del fiore che si coglie e si cura in un vaso, erano state condiscepole in un convento. Si erano separate per sposarsi, con la promessa di continuare ad amarsi nei loro figli, se la sorte avesse dato loro la vocazione ad unirsi. Voti di vergini, fatti con le guance arrossate dal caldo del cuore che le conduceva felici verso i loro nuovi destini.

La madre di Teodora restò fedele alla parola promessa, così come la madre di Afonso. Una tristezza, però, la incupiva, e ogni giorno diventava più spessa l’oscurità nel suo spirito: si sentiva morire, a trentatré anni, di una malattia al petto e lasciava Teodora giovanissima, ancora nubile, alla mercé e all’arbitrio di tutori.

Nell’ultima fase della sua vita, andò a Braga con sua figlia, con il proposito di farla incontrare con il ragazzo, ormai forse dimenticato, sposo predestinato fin dai primi anni in cui, bambini, si erano conosciuti. Vedere con quale gioia i ragazzi si riconobbero e si salutarono, come uccellini posati sullo stesso ramo nell’aurora mattutina, migliorò temporaneamente le sue condizioni di salute; tuttavia, la volontà del Signore non le accordò i due anni di vita chiesti per la realizzazione del matrimonio.

Misteri della Divina Provvidenza: se non fossero misteri, infatti, le suppliche della madre in favore della vergine che rimarrà sola nel mondo con i suoi due nemici – l’innocenza e la bellezza –, quelle suppliche vane, respinte da Dio, indurrebbero ad argomentare contro la mediazione del Creatore nelle miserie che ha creato.

Appena deceduta sua madre, Teodora fu accolta nel convento delle Orsoline, per delibera di uno zio paterno, costituitosi spontaneamente tutore dell’orfana.

Afonso, consigliato dal cuore e da sua madre, visitava l’educanda, mascherando le frequenti visite con l’innocente bugia della parentela.

Dopo due mesi di convento, Teodora si era sviluppata e aveva acquisito conoscenze sulla vita che non avrebbe imparato in due anni vivendo nel villaggio, nel suo solitario villaggio, dove c’erano soltanto uccellini, fiori e stelle a bisbigliarle nozioni d’amore. Nel convento, le lezioni erano meno vaghe e più adeguate alle capacità delle educande. È certo che le maestre non insegnavano tenerezze; ma lo zelo con il quale proibivano il pomo di Adamo induceva il dubbio che le caute religiose ne avessero assaporato il gusto, e forse l’avevano disprezzato a causa della mancanza di denti incisivi che penetrassero la buccia di quell’esecrabile e così invitante frutto di Pentapolis.

Prima di compiere quindici anni, Teodora portò a perfezione le sue grazie esterne e lo spirito interiore. Per quanto riguarda la bellezza, già sapeva quante invidie suscitava tra le condiscepole: riguardo agli intrighi, quanti rimproveri dalla maestra, a causa del molto tempo dedicato ad acconciarsi e a rimirarsi allo specchio. Non aveva importanza. Alla giovane nobildonna di Fervença piaceva essere bella, essere invidiata e perseguitata dalle nemiche, a condizione di essere ammirata dai corteggiatori delle sue persecutrici. Per quanto riguarda lo spirito, il sapere precoce conseguito nel convento l’aveva resa equivalente, se non di molto avvantaggiata, nei riguardi dello studentello di Ruivães che, contrariamente alle aspettative, nei colloqui d’amore restava molto al di sotto di Teodora e usciva dal parlatorio meravigliato dall’abilità di lei nell’uso delle parole.

Queste delizie del parlatorio, però, furono improvvisamente sospese.

Lo zio e tutore di Teodora, conscio dell’amore tra i due che le religiose, contrariamente alle loro abitudini, avevano sott’occhio, impose la sua giurisdizione tutelare. L’educanda reagì senza risultato, e Afonso sfogò in lacrime la sua nostalgia.

L’anziana nobildonna di Ruivães, avvertita dal figlio afflitto, andò a Braga a confortarlo e di là si partì per andare a casa del tutore, a rammentargli l’unione di Afonso e Teodora, da tempo pattuita tra lei e la sua amica deceduta. Il tutore replicò dicendo che quell’accordo era nullo, perché all’epoca i bambini non avevano l’età per ratificarlo.

Afonso si avvilì cadendo in un doloroso letargo, mentre Teodora pensava di fuggire dal convento. L’istinto di alleanza, indispensabile in un’impresa così rischiosa, la portò a conoscere l’unica persona capace di aiutarla.

Si trovava dalle Orsoline una ragazza di Trás-os-Montes, di famiglia e di abitudini distinte per depravazione. Era entrata lì come in una prigione; ciononostante l’angelo delle tenebre, che non abbandona mai le sue dilette, anche in quel luogo la convinse di potersi fidare di lui che l’aveva accompagnata nell’esilio impostole dalla famiglia.

Di quale fiducia malriposta, di quale orribile avvenimento, di quale affronto all’umanità di scriverà oggi in questa pagina!

La ragazza di Trás-os-Montes, mostrando sulle labbra il sorriso compassionevole di un angelo candido, suggellò con un bacio sulla guancia della sua nuova amica il patto di collaborazione contro la tirannia dei genitori e dei tutori.

E affrontando subito l’argomento, la giovane nobildonna di Fervença volle sapere, senza mezzi termini, come avrebbe potuto fuggire dal convento. A Libana sembrò ripugnante l’idea della fuga disperata e irragionevole, quando si sarebbe potuto fare di meglio, evitando di correre il rischio di essere scoperta e riportata in convento senza poter più vedere il sole e la luna. Raccontò, per dare un esempio dei rischi della fuga, la disgrazia accaduta in quello stesso convento trent’anni prima. Era la lunga storia di una signora chiusa là dentro con la forza, la quale, pensando di raggiungere la libertà attraverso le tubature sotterranee del monastero, morì asfissiata; e mentre le suore, la famiglia e gli inquirenti la pensavano rifugiata all’estero, un operaio che si occupava della pulizia delle fognature trovò un cadavere quasi decomposto, ma ancora riconoscibile dai vestiti. Questa storia, raccontata e ascoltata in quella casa sempre con orrore, fece sorridere la giovane nobildonna e le strappò dal petto verginale questa osservazione: “Dovendo morire nel lerciume delle fogne meglio lasciarmi morire in quello delle suore. Quanto agli odori nauseabondi, stare laggiù è come stare quassù”. La risposta fu la meglio pensata e la più ironica nel suo genere, ma argomenti di questo peso possono essere trattati curiosamente soltanto da artisti con talento chiaro ed elevato come il poeta dei Miserabili, che versifica sulle fogne di Parigi con lo stesso acume stilistico con il quale parlerebbe dei giardini sempre fragranti dell’Eliseo.

Risoluta a persistere nel piano di fuga, Teodora stabilì un’amicizia molto intima con Libana. Da sole formavano un partito che si faceva rispettare per l’audacia dell’eloquio, la superbia del linguaggio e la larghezza di mezzi. In questa connivenza rientravano una cameriera della’esterno e una serva dall’interno, per mezzo delle quali Afonso de Teive riceveva lettere da Teodora, mentre un imberbe galantuomo di Trás-os-Montes, cugino di Libana, riceveva lettere da sua cugina.

Un pomeriggio di agosto le due ragazze si recarono a godere il fresco vicino alla recinzione. Dall’aria preoccupata e malinconica con cui passeggiavano, si sarebbe detto che erano due grazie in cerca della terza, fuggita per amore di qualche divinità sconosciuta. Chi le avesse viste a quell’ora, depurate dalle lordure dei cattivi pensieri e delle cattive parole, avrebbe pensato che il loro dialogo, infervorato di lodi e canti all’empireo, fosse indirizzato ai cieli di Santa Teresa di Gesù, o che simili vaneggiamenti dello spirito fossero imbevuti della luce splendente delle beatitudini.

Si accomodarono su di uno sgabello di sughero, il cui schienale era formato da soffici cuscini di mirto, sfumati da fiori di maracujá. Vicino a loro, trepida, una fontana; nel lavatoio, dove la luna cominciava a rispecchiarsi, gracidano le rane; la brezza sussurra nei rami del frutteto, ronzano gli insetti, svolazzando nel fresco del tardo pomeriggio. Le due candide ragazze, immerse nella poesia del quadro, lo esaltano e lo completano.

Ascoltiamo la musica di questi serafini.

Diceva Teodora:

– Se mi trovassi fuori di qua!… in questi pomeriggi così belli, come sarebbe piacevole passeggiare con il mio Afonso!… Che muoiano bruciati il mio tutore e suo figlio! Se non fosse per quel bruto, non sarei incarcerata! Oh Libana, devi fare in modo che possiamo scappare da questo inferno! Guarda… la suora portinaia sta lì a sbirciare dall’angolo della recinzione!…

Libana girò dispettosamente le spalle alla suora portinaia e rispose in questi termini agli anelanti desideri della sua amica:

– Guarda, Lolò, non ti arrabbiare. Noi, alla fine, riusciremo ad andare via di qua in tempo per goderci la vita. Se non saremo sciocche, potremo godere più di quanto non abbiamo fatto sinora. Vuoi sapere quello che dice il mio Alfredo? Vuoi sapere quanto mi ama? Quale sacrificio vuol fare per amor mio? Guarda, non ho voluto dirti quello che mi chiedeva nella lettera di oggi, per paura che tu mi consigliassi di non cedere, ma presto, amica, presto, ché la passione non ha leggi. Mi chiede di venire a lavorare come mia domestica.

– Tua domestica! – esclamò Teodora.

– Mia domestica! Certo! – replicò Libana abbassando il tono della voce, soffocata dal riso trattenuto. Non c’è niente di più facile. Il mio Alfredo ha il viso di una donna e non ha ancora la barba. Lui dice che si vestirà come una ragazza della mia terra e si procurerà una falsa lettera di mia madre in cui lei mi chiede di prendere la messaggera come domestica; qui nel convento nessuno può impedirmi di accoglierla: staremo attente a non far scoprire l’imbroglio; e… che mi dici, Lolò?

Teodora rispose con il viso fiammeggiante di gioia:

– Guarda, Lili, anche il mio Afonso ha il viso da donna, non pensi?!… Se anche lui venisse come mia domestica, sarebbe l’ideale!

– Il guaio è che lui è conosciuto, è venuto qui molte volte – osservò Libana. – Il mio Alfredo è venuto soltanto all’inizio una volta e nessuno lo conosce… Non perdiamo tutto, Lolò!

– Che peccato! – esclamò la giovane nobildonna con gli occhi rivolti al cielo e la mano destra sul cuore palpitante. – Che peccato che il mio Afonso non venga anche lui!… Oh Libanina, cerca di inventare qualcosa, altrimenti la tua amica muore di tristezza!…

E, dicendo ciò, nascose il viso, rigato da quattro lacrime, sul petto dell’amica.

Che lacrime! Da dove è venuto o dove è andato l’angelo dell’innocenza, se un petto vergine ha tali lacrime, e occhi che ancora non hanno visto gli orrendi spettacoli della farsa del mondo possono piangerle!

Finì la notte. Già la campanella aveva chiamato le due ragazze ribelli al primo e secondo avviso. Si alzarono e sotto braccio andarono nella cella di Teodora, per continuare il colloquio ancora profumato di giardino.

Teodora, non potendo essere felice, esultava per le sorti della sua amica. L’ammonì sul pericolo di ricevere l’audace ragazzetto di Trás-os-Montes, idolatra di un personaggio di romanzo, l’unico che avesse letto nella vita, il Lovelace, di cui si proponeva di copiare il travestimento da donna. L’illuso! Meno male che di solito le idiozie copiate dai romanzi hanno, nella vita reale, esiti disgraziati o irrisori! Meno male, ad onta di libri immorali e a maggior splendore degli altri libri di sana morale che fanno male solo all’editore che non li vende.

Questo Alfredo che viveva nascosto nelle periferie di Braga, incoraggiato da Libana nel suo progetto, si recò nel paese di lei per preparare i vestiti e provare i gesti femminili.

Libana aveva dei fratelli, della stessa pasta del padre e della madre, i quali, a quanto pare, non trovavano nulla di cui meravigliarsi nel comportamento della figlia e sorella; quindi non era da sorprendersi che fossero dei gran vigliacchi, astuti e spie dei complotti di Alfredo.

Il villaggio era piccolo e soleggiato. La notizia era appena arrivata, di bocca in bocca, fino alle orecchie degli interessati, che già si cucivano vestiti e gonne e altri indumenti da donna, adatti al corpo di Alfredo. Subito uno dei fratelli di Libana andò a Braga; l’altro rimase di guardia ai movimenti dell’epigono di Lovelace. Quello che si nascondeva a Braga fu avvertito in tempo che Alfredo stava arrivando. In ingegnoso accordo con le autorità, lanciò una rete in modo che lo sventurato fu catturato sul portone delle Orsoline, vestito da contadina di Trás-os-Montes, e da lì, tra le baionette e scortato da giovani guardie, percorse tutte le stazioni giudiziarie dal prefetto fino alle carezze del carceriere.

Le religiose, consapevoli dello scandalo, richiesero al prelato di Braga l’espulsione della reclusa che disonorava il convento e contaminava con la sua immoralità le altre ragazze. Libana fu, perciò, consegnata a suo fratello che la riportò a casa. Di norma ci si sarebbe aspettato che questa fanciulla, predestinata ad estremi disastri, avesse una fine che fosse di esempio per le donne sviate dal sentiero della virtù. I pronostici dell’opinione pubblica sbagliarono, come si vedrà in un prossimo libro.

La gente ancora non sa bene come è fatto questo mondo.



(Brano tratto da Ballata Lusitana, Marlin editrice, Salerno, 2008, ed. orig. non indicata, traduzione dal portoghese di Regina Célia Pereira da Silva.)




Camilo Castelo Branco (Lisbona 1825- São Miguel de Famalicão 1890), poeta, narratore, drammaturgo, traduttore e molto altro, ebbe vita molto travagliata e morì suicida. Fu scrittore molto prolifico e raggiunse grande fama in patria.





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