FUCINE


Giovanni Badino

Ora sai dove tante e tante parole sono svanite:
usciti siam dalla terra, e col vento ripartiti.
Omar Khayyam, Quartine



Passeggio spesso nel bosco, dove vivo. Purtroppo devo essere molto parco negli sforzi per la debolezza che mi induce la scarsità di nutrimento; ma è per scelta mia, per limitare il ricambio, e così non mi preoccupo.

A volte sfido l'oscurità profonda e gli inciampi nel bosco notturno e vago lento di radura in radura, di chiarore in chiarore. Quel che allora mi piace di più è percorrere gli ultimi metri di tenebre vegetali, rigonfie di antiche stelle, attratto dal chiarore dinanzi a me. Le percorro in un gioco sempre ripetuto ma che continua a non stancarmi. Le percorro quasi con ansia, incurante degli ultimi impedimenti del sottobosco, e sbuco in queste piccole radure piene di brezza e sovrastate dal cielo stellato.

Io vengo da laggiù, mi dico.

Stelle di ogni colore, di ogni distanza; mi premono soprattutto quelle rosse, più lontane e grandi. Dove esse sono in questo istante, mi dico, un tempo c'era un po' di me e del bosco, e non mi stanco di guardarle, in silenzio, nella brezza frusciante.

Altre volte, seduto di giorno all'ombra degli alberi, guardo me, cercando di pensarmi.

Le mani sono forse la parte più impressionante. Non per come sono fatte, naturalmente, ma perchè sono lì sempre davanti, incombenti; anche ora quello che scrivono me le fa muovere dinanzi e descrivere come nell'intimo mi siano estranee.

Ogni tanto le tocco, le pizzico, le osservo con attenzione. La struttura e la chimica di cui sono fatte sono però un grave impedimento al riuscire a percepire la loro composizione elementare: uno pizzica la pelle, vede venuzze e tendini, si devia nella percezione delle ossa interne e perde di vista le fucine dove la loro materia profonda è stata prodotta.

A volte, nella solitudine ronzante del bosco, penso che sia da invidiare chi non se ne è accorto, non si è immerso nella struttura, chi può evitare il pensiero di essere riciclato. Si crede unico, creato con la sua materia, confondendola con la forma che si sta dando, mutevole negli anni. A volte, mangiando lento una bacca, concentrandomi nella vertigine delle antiche stelle da cui proviene senza perdermi nella banalità dei cicli recenti, mi sembra impossibile che qualcuno possa limitarsi a sentirne il semplice sapore, possa pensare il cibo come piacere necessario, non come flusso di riciclo che lo attraversa.

Riciclato.

Ricordo che un tempo ormai lontano pensavo a mani, bocca, al piede come qualcosa fatto da mia madre pochi anni fa, e poi variamente curato da me.

Non era vero, naturalmente: lei li aveva formati, non fatti, la differenza non è poca; lei era stata il forno nel quale si assemblavano elementi, mi aveva estratto dal mare di elementi antichi, già infinite volte usati da altre mamme dimenticate, da altre piante. Gli elementi erano già presenti. Non li aveva fatti, aveva usato quelli che c'erano, che inghiottiva in alimenti variamente cotti ed accurati, alte e basse cucine, che spingeva nel sangue con l'aria, assorbiva dall'acqua.

Gli elementi c'erano già.

Nel gas polveroso del protosistema solare, vorticavano lenti proprio gli elementi che ora sono nelle mani che tessono lente queste righe, fastidiosamente innervate, venose; perfezionate in forme inimmaginabili per chi avesse visto quella lenta pioggia nella nube, perfezionate sino ad assumere una effimera forma che li ha riconosciuti.

C'erano prima. Avevano varcato lo spazio fra le stelle, un viaggio senza avventure sino al vortice dove erano stati intrappolati. Cadevano come un'immensa e sottile nevicata sul vortice quasi immobile.

Io so che provengo da tutte le direzioni stellari.

Ero neve.

Ora mi so fatto soprattutto d'acqua e idrocarburi, d'idrogeno legato ad ossigeno e carbonio; ma non bisogna confondere l'uno con gli altri, uno mattone di provenienza insondabile, gli altri piccole costruzioni preparate in storie quasi percettibili accadute poco tempo fa, uno, dieci miliardi di anni, forse meno. Ogni mio atomo complesso si è formato al centro di una gran stella che si contraeva lenta, vi è rimasto per molto tempo; ha visto temperature che non possiamo immaginare o percepire, è stato parte di un gas buio permeato di invisibile radiazione X, mentre i mattoni primordiali fondevano in composti più grandi, cui abbiamo attribuito i nomi di ossigeno, azoto, carbonio.

Le fucine che fanno ribollire il mare degli elementi sono in cielo. Di notte, caduto il velo azzurro solare, si possono vedere, rossastre, lontane ma luminosissime: tanto brillanti che ci sembrano vicine come le altre che si limitano ad assemblare elio, piccole, come il sole. Quelle rosse invece forgiano nuclei di atomi complessi che genereranno composti complessi come me che curo ora, per un attimo, queste righe.

Fucine esplose, sommerse dalla gravitazione, dalle instabilità, dal soffio della luce che ne scagliava i frammenti nel profondo vuoto.

La luce stellare che giorno e notte attraversa il fogliame sino ai miei vaghi sentieri è proprio un prodotto secondario di quelle lontane, assidue costruzioni di tutti gli elementi leggeri: i fiumi che alimentano il mare sono luminosi. La luce é continua e diffusa ovunque, come gli elementi che sgorgano insieme con essa.

So che in me ciò che non é idrocarburo ed acqua é composto di elementi più pesanti. Sono solo tracce, naturalmente, perché essi sono rari proprio come le immense luci che ne alimentano il mare, stelle che esplodendo li formano mentre li scagliano nello spazio.

In me c'è molto ferro, essenziale nell'emoglobina; questo da tempo mi avrebbe dovuto suggerire che sono in equilibrio non tanto con gli "altri" o con "l'ambiente", quanto con lo spazio interstellare, ove esso è cenere dispersa, scagliata da esplosioni fantastiche, ognuna in noi, in tracce.

Per qualche tempo.

Poco.

Ciò che mi rende così ricco di storia interstellare è proprio che la afferro per poco, solo per poco. Per questo ne sono pieno.

L'uranio in me non serve, nè il piombo, sono così rari da essere esclusi dai piani di utilizzo. Chissà se nei centri galattici, invece, dove le chimiche sono più pesanti, le stelle più massicce ed effimere, non vengano essi pure integrati in costruzioni organizzate, come sono io, dalle chimiche più complesse. Ma forse no, laggiù tutto è così intenso che non c'è tempo per le reazioni chimiche di divenire complesse, è tutto sommerso nella semplicità geometrica del totalmente effimero.

Qui no.

Quasi.

Esplosioni, miliardi di esplosioni. Enormi flussi di neutroni, prima, che creavano nuovi nuclei nel profondo di stelle remote, qualcuno ora lo uso io.

Passo la mano sul volto e tocco molti elementi, molti miliardi di miliardi di miliardi di atomi, è impossibile che almeno qualcuno di essi non provenga da ciascuna del miliardo di supernovae galattiche che esplosero, dai mille miliardi di stelle rossastre che brillavano in cieli dimenticati di pianeti perduti, ambienti dove esseri curiosi di cui s'è persa ogni traccia nascevano, accumulavano ricordi e sofferenza e morivano.

Ognuna di quelle esplosioni ha lanciato nel vuoto un qualcosa di queste mani, del volto, del vestito.

Non posso riconoscerlo ma c'è: mi sta attraversando.

Lo uso, per qualche tempo.

Poco.

Altri ordinamenti premono, sarò in ognuno di loro, infiniti come le stelle svanite da cui provengo io, o gli atomi di questa brezza che passa e respiro; inanimata, per ora.

Tanti anni fa, prima di ritrovarmi nel bosco, avevo letto di qualcuno che soffocava. Soffocava perchè si era accorto che ad ogni fiatata respirava un alito di qualunque altro respiro: ma questo mi sembrò banale. Qualunque altro respiro è umano, o almeno animale. Lo si può pensare: immaginarlo nella sua grettezza di alimento ossidante che dava energia a chi appiccava fuoco alla Biblioteca di Alessandria, ma anche alimento chimico di Dante che provava a recitare, per la prima, inaudita volta, "lo maggior corno della fiamma antica". Due estremi che hanno in comune una intima cosa essenziale: la pensabilità.

Respirare aria riciclata da altri è destino ovvio. Difficile è arrivare a pensare d'essere fatti di elementi provenienti da luoghi inconcepibili, che ci sovrastano in modo non pensabile. Vertiginoso, la notte, vedere dalle radure i luoghi dove si fabbricano gli elementi di respiri e mani future nel cielo stellato, degno solo delle rapide occhiate vuote di chi non sa.

Non è la prima volta che viene tracciato questo pensiero, anzi forse è uno dei pensieri dominanti attraverso il grande vuoto. Lo scrivo io ora per un attimo. Tu lo leggerai, per un attimo.

Siamo forme instabili. Riciclanti.

Onde.

Onde che sgorgano dal mare degli elementi, ne riproducono altre simili a sè stesse, avvizziscono e vi rientrano, mentre il ciclo continua.

Un'onda di un fiume, in quel punto vicino a riva, stabile sinchè la struttura instabile che la provoca continua ad esserci. Stabile, ma fatta di materia mutevole che quando entra nell'onda assume la forma dell'onda.

Un attimo.

Forme che si sostentano da sole. Organizziamo la materia che ci attraversa, per un attimo le diamo la nostra mutevole forma.

La rimetteremo in ciclo poi, la restituiremo nelle fogne, nelle grandi colonne di gas che giustificano i cimiteri sgorgandone; tornerà, ridiventerà aria, respiro, erba, carne. Un altro attimo.

Averlo pensato mi è sembrato un privilegio, e dunque una condanna, come il bosco, dove vivo. Diffondere questo pensiero rende l'intrico di sentieri meno impenetrabile, perchè lo estende altrove, altrove altri lo percorreranno pensandone la nostra e sua forma effimera e la sua struttura eterna. Lo penseranno frinire l'estate mentre la luce ne estrae rapida gli elementi, o nel buio di notti nuvolose, isolato e umido, o sotto stelle a cui ritornerà fra miliardi d'anni, atomo per atomo.

E loro stessi si penseranno forma di passaggio di durevoli elementi, con solo pochi istanti per sentirsi passeggiare, silenziosi, nel bosco stellato.




Giovanni Badino , nato a Savona, fisico, professore associato presso il Dipartimento di Fisica Generale dell'Università di Torino. Dal 1970 svolge attività speleologica esplorativa ai massimi livelli. Ha scritto libri su temi tecnici (Abissi italiani, Il fondo di Piaggia Bella), scientifici (Fisica del clima sotterraneo) divulgativi (Grotte e speleologia, Oltre l'orlo) oltre a innumerevoli contributi a riviste.

 


     
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