FUTURO CADAVERE

- Brano tratto dal romanzo Sangue -

Mercedes Abad

 



(...) Per ragioni che mi sfuggono, quelli della televisione mi avevano convocato tre ore prima che cominciasse il pro­gramma. Ne impiegai mezza per il trucco. Quanto alle altre due e mezza, venni condotta con molta deferenza da un'hostess vestita d'azzurro in una sala d'aspetto in cui, cosa strana, non c'era nessuno da osservare o con cui parlare per ingannare l'attesa. Dove diavolo erano gli altri invitati? In sala trucco avevo incontrato un cantante rock e uno di quegli esperti mediatici che sanno un poco di tutto. Ci facevano aspettare in sale rigorosamente separate? Prima di abbandonarmi alla mia solitudine, l'hostess azzurra ebbe la gentilezza di accendere l'enorme monitor che dominava la sala con le sue dimensioni imponenti. Appena mi lasciò sola, mi precipitai a spegnere l'apparec­chio. Guardare la televisione mentre aspettavo di apparire in televisione mi faceva sentire come una mucca in un recinto che guarda una mucca in un recinto che a sua volta...

Mi adagiai in una di quelle poltrone anatomiche e sprofondai fino al collo nella più confortevole delle attese. Effettivamente ero così sprofondata che mi domandai se sarei stata capace di alzarmi senza aiuto. I primi dieci minuti mi sembrarono eterni. Mi rammaricai di non aver preso l'elementare precauzione di mettere un libro in borsa. Frugai nelle tasche per vedere se avevo almeno un programma di sala da leggere e le mie dita incontrarono per caso un oggetto non identificato. Al tatto, avvertii che si trattava di un cartoncino, senza dubbio un biglietto da visita. Ma di chi? Solo dopo averci giocherellato per un po' tirai fuori il cartoncino. Era il biglietto da visita di tale Markus Barta. Sotto al nome, nel posto in cui alcuni spe­cificano la propria professione, si leggeva: "Futuro Cadavere". Così, con le maiuscole, come se si trattasse di una qualche carica pubblica retribuita con uno stipendio milionario e con quattro mensilità extra. Allora ricordai il singolare individuo dall'anatomia decisa come uno ziggu­rat mesopotamico ed esperto in letteratura funeraria, che avevo conosciuto al cimitero. Era un peccato, mi dissi, non rivedersi mai più. Mi sarebbe piaciuto uscire con lui una notte e concludere la serata fra le sue braccia, esplorando un corpo che, grande come era - pura architettura colos­sale -, più che un paese sembrava un continente. Quanto poteva essere alto? Un metro e novantanove? Due metri e tre centimetri? Che vicissitudini lo avevano portato a preferire la letteratura funeraria alla pallacanestro o al rugby?

Markus Barta. Ripetei varie volte il nome ad alta voce come se si trattasse di un mantra.

Non so se a tutti succede lo stesso, però spesso mi sor­prendo inventando la vita di persone con cui, come nel caso di Markus, ho a malapena scambiato qualche parola. O neppure questo. A volte sono persone che vedo nel metro o per la strada o al tavolino di un bar e che, per un qualche motivo, stuzzicano la mia curiosità al punto di costruirgli un universo su misura. L'idea di pensare a qual­cuno che forse non mi ha mai dedicato neppure un solo pensiero o che neppure sa della mia esistenza mi diverte: mi fa sentire una specie di ladra, di cleptomane che ruba anime per inserirle nel cast della sua vita in qualità di comparse con una biografia inventata. L'unica norma che mi impongo inventandomi le loro vite è di mantenere una certa coerenza con l'impressione che queste persone mi hanno lasciato. Ritengo che sia un eccellente esercizio di ginnastica cerebrale che mi aiuta a costruire il mondo dei miei personaggi ben aldilà di ciò che ne scrive l'autore.

Markus Barta, futuro cadavere. Ricordai la sua serietà forzata sotto la quale aleggiava la furbizia, come una mosca con la sordina. Ricordai anche la sua riluttanza a parlare di se stesso. Era sincero o si trattava di un atto di civetteria? Il nome e il cognome indicavano un'origine straniera, un paese dell'Est senza dubbio. Scelsi Budapest come luogo di nascita di Markus perché è l'unica città dell'Est che conosco e perché da non molto avevo letto Canto nazionale , il celebre e vibrante poema di Petöfi.

In tutto questo, quella di Budapest fu l'unica decisione che presi a freddo. A partire da li, la storia di Markus Barta acquistò una sorprendente autonomia e si srotolò davanti a me come se avesse aspettato tutta la vita che vi mettessi il naso. Effettivamente, era nato a Budapest due anni prima dell'invasione sovietica, da padre ungherese e madre aragonese. Entrambi morirono durante gli scontri con l'Armata Rossa e Markus fu affidato alla tutela della sua nonna materna, una donna magra e nodosa come un tralcio e con il cuore arido come la terra che l'aveva vista crescere. Quando, affacciatosi a una traballante adole­scenza, Markus iniziò ad aumentare di statura, la nonna cominciò a guardarlo con grande inquietudine e a martel­largli continuamente le orecchie con questo implicito rim­provero: «Se continui a crescere così non ci sarà una bara che ti vada bene. Dovremo pagare un supplemento o met­terti piegato.»

La nonna, che poco tempo dopo essersi sposata aveva perso suo marito in una guerra né grande né mondiale e la cui unica figlia non era arrivata a compiere i venticin­que anni per colpa di un'altra guerra né grande né mon­diale, non utilizzava mai la prima persona singolare, come se questo deciso atteggiamento grammaticale, questo ostinato trincerarsi nel plurale, fosse la sua peculiare arma per tenere a bada la solitudine. Un simile atteggiamento sintattico la faceva apparire agli occhi di suo nipote come la rappresentante terrena di un drappello di fantasmi stremati per il troppo parlare. La morte la colse da sola, un'estate in cui Markus lavorava in un ristorante del lito­rale. Un fulminante attacco di cuore la uccise mentre ascoltava la radio e ricamava una tovaglia nella sua poltro­na preferita. Le piaceva sedersi lì, vicino al balcone, per sorvegliare le sue piante di gerani, i più belli del quartie­re, da quello che diceva con sofferto orgoglio di contadi­na abituata a strappare frutti a una terra arida, tirchia e ingrata. Probabilmente, i gerani dell'anziana erano gli unici al mondo ai quali si parlasse al plurale. Non sarà stato proprio questo a indurli a esagerare in splendore, come se il semplice anche se reiterato uso del plurale li avesse convinti che non era un'anziana sola e triste a occu­parsi di loro, ma una moltitudine di focosi amanti dei fiori discretamente nascosta dietro quel noi?

Il caso volle che Markus non rientrasse a casa che due giorni dopo la morte della nonna. Il cadavere dell'anzia­na era così irrigidito che fu necessario romperle le ginoc­chia e i gomiti per poterla mettere nella bara.

Arrivando a questo punto del racconto, la bella e profonda voce da baritono di Markus fuoriuscì da qualche parte e riempì la stanza, così reale come se si trovasse vicino a me.

- Ricordai quanto preoccupava mia nonna la possibilità che io non entrassi nella mia bara e non potei trattenermi dal ridere. Fu un attacco di ilarità spaventoso; non potevo smettere. Quelli delle pompe funebri se ne andarono di corsa con la bara in spalla senza farmi firmare neanche un documento: erano assolutamente terrorizzati; pensavano fossi diventato matto e non sapevano che fare. Vedere le facce che facevano mi portava a ridere ancor di più. Fu orribile. Orribile. A un certo punto pensai che sarei asfis­siato dal ridere. Quando l'attacco passò, mi sentii profondamente mortificato e disgustato di me stesso. Mia nonna non era la più affettuosa e cordiale delle donne e, certamente, con me aveva adottato un sistema educativo anche troppo severo, però io le volevo bene, che diamine... Non risi più per molto tempo. Era come se la ghiandola delle risa fosse esaurita, prosciugata. Settimane dopo cominciai ad avere le maledette crisi. Non succedeva sempre, no. Mi coglievano all'improvviso. Di giorno, di notte, all'uscita del cinema, alla metà di un libro, in metropolitana... All'inizio era un'angoscia puramente fisica: una repentina sensazione di asfissia, come sei miei polmoni fossero diventati di piombo. Il polso accelerava fino a quando il cuore, completamente impazzito mi batteva nel petto come un batacchio folle. Sudavo moltissimo e sperimenta­vo dei vertiginosi sbalzi termici che mi facevano tremare di freddo per soffocarmi di caldo mezzo minuto dopo. Credevo che la mia morte fosse imminente e cominciai a visitare ossessivamente ogni tipo di specialista. Dopo avermi fatto un'infinità di prove, i medici mi suggerivano di andare da uno psichiatra, però io ero convinto di avere qualche strana malattia mortale che nessuno riusciva a diagnosticare. Gli attacchi si intensificarono: non soppor­tavo i luoghi angusti, chiusi o sotterranei. La sola idea di mettermi in un ascensore o in un tunnel mi riempiva di un assurdo panico. A eccezione dei medici, ai quali per forza dovevo raccontare quello che mi succedeva, il resto del tempo cercavo di dissimulare: passavo la vita scompa­rendo all'improvviso per occultare le mie crisi. Pensare che i miei amici potessero scoprire quello che mi succedeva era una fonte di costante mortificazione. Che un tipo di due metri come me, alto e forte come un carrarmato, venisse continuamente colto da attacchi di panico degni di un bebé, mi sembrava ridicolo e umiliante. Per un periodo mi rifugiai nel sesso, anche perché passare una notte da solo poteva essere un'esperienza terrificante. Fino a quando, una notte, guardando la donna che stava fra le mie braccia, la vidi trasformata in uno spaventoso cadavere. Non è che le vedessi i vermi uscire dal naso però, improvvisamente, mi apparve mortalmente pallida, con le labbra lattiginose, la pelle fredda ed esanime, le membra rigide e un ghigno orripilante sulle labbra... Si muoveva, cercò perfino di baciarmi, però era morta... Ululai di paura come un lupo demente. Senza nemmeno vestirmi, uscii per strada avanzando a balzi e gridando. Ci misero abbastanza per fermarmi: correvo troppo per loro, suppongo. E i miei due metri di nuda e scatenata umanità dovevano essere un discreto deterrente. È probabile che ci siano poche cose più terrificanti di un tipo impazzito di panico, che paradosso. E per la verità non so come diavo­lo riuscirono a trovare una camicia di forza della mia taglia...

In quel momento la voce gli si strozzò e, dopo una pausa molto breve, scoppiò in una stentorea risata da baritono. Era un riso di una sorprendente musicalità e pieno di strane sonorità che presto assunsero un lugubre accento. Mi si gelò il sangue nelle vene e indietreggiai istintivamente, spaventata dalla mia propria fantasia.

- Lo vedi? - disse Markus, di nuovo padrone di sé. - Non posso ridere. Spavento le persone. Per questo mi sforzo sempre di stare serio. (...)




(Brano tratto dal romanzo Sangue, Gran Via Editrice, Milano, 2006. Traduzione di Giusi Garigali.)







Mercedes Abad
è nata a Barcelona nel 1961, conclusi gli studi in giornalismo, ha pubblicato un volume di racconti Ligeros libertinajes sabáticos (bincitrice nel 1986 del prestigioso premio La sonrisa vertical ed edito in Italia da Guanda). Sangue è il suo primo romanzo.



     
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