UNA STORIA USA E GETTA

- Racconto tratto dall'antologia Italia underground -


Lisa Ginzburg

 



Nessuna vergogna. Solo quella lunga strada sterrata, macchie sulle scarpe e se non stava attenta pure sui vestiti. Alla fine, sulla destra, il capannone. La porta si apriva con una spinta forte. Passato il primo ambiente, i lembi di linoleum che si sollevavano dal pavimento a mostrare lo tracce dell'impianto elettrico ancora da terminare, il corridoio. Di fronte al cesso, un'altra stanza. Un materasso a una piazza e mezzo che B. si era procurato in tutta fretta, già la seconda volta. In alto un rettangolo di finestra, sottile come una feritoia. A terra kleenex, preservativi, bottiglie d'acqua. Appeso a un gancio un calendario cinese di falsa carta di riso, con una tigre che pareva sbucar fuori dall'immagine, trionfante di nulla.

Le piacevano i baci ancora sulla porta, brevi, già esigenti. E come si sentiva dopo, tornando indietro sulla stessa strada, attenta a non sporcarsi, il cuore tra le gambe che batteva ancora. Ma il resto: chiudere gli occhi, obbedire, e quel bene che arrivava comunque, ogni volta, una valanga.

Lavorava al bar da meno di un mese quando B. le aveva chiesto di aspettarlo al capannone. Sere prima aveva sentito i suoi occhi sulla schiena, i commenti scambiati con l'amico («È arrivata da poco, sì... perché, ti piace? Attento a te, eh...!»). Nei giorni successivi, al bancone quegli sguardi un po' appannati, che cercano, domandano. Occhi che era come la spogliassero. Lei lo sapeva cos'è, piacere a un uomo: solletico, ogni coincidenza un segnale, starsene in attesa di qualcosa che non sai e insieme sai benissimo cos'è. E una mattina che dalla finestra su in alto, dove dormiva, aveva guardato B. prendere dalle braccia della moglie il bambino, metterlo sul camioncino per portarlo all'asilo, si era convinta. Ma si, un uomo. Uno per sentire meno freddo in quella campagna che le avevano descritto bellissima e invece, per il momento almeno, pareva uno schifo.

Irina. «Un nome per poeti», aveva detto sprezzante la signora Pestrici, l'estetista presso cui aveva lavorato a Pontedera prima di trovare il lavoro al bar. Un nome di cui lei andava orgogliosa. Era minuto come lei. Quanto era magra, lei stessa negli specchi lo vedeva. E quella cicatrice sulla guancia che rovinava tutto (in macchina con suo fratello ubriaco schiantati contro un muro in piena notte, sei anni prima ma pareva ieri). Gli occhi però, verdi o grigi a seconda del tempo, erano belli tanto da compensare il resto. «Che occhi hai. Quasi fanno paura» le aveva detto B. nella semioscurità della stanza senza ancora il materasso. Le aveva tenuto la mano, e posatagliela sulla testa l'aveva accompagnata nella discesa sino a terra. E a terra era rimasta, a baciarlo, adorarlo, come voleva lui. E quel complimento era stato l'unico, dopo negli occhi praticamente non l'aveva guardata più, dopo tutto era solo mani, richieste sussurrate con voci sempre più roche e dure, vòltati, inginocchiati, muoviti, dài. Puttana che non sei altro. Ogni volta che doveva sbottonargli la camicia gli vedeva i pochi peli sul petto, e al collo la catena argentata con appesa la piccola croce. Sentiva il suo profumo, un misto di buono e di sudore, e giù, vicino al sesso, l'odore che ha la pelle di un bambino. Al bar lui fingeva di non conoscerla. Una volta che la moglie entrò a chiederle se aveva un succo di frutta per il bambino, lui restò fuori, a guardarle parlare da dietro la vetrata. Era muratore, il capannone dove si incontravano funzionava da magazzino per secchi e cementi. Perciò aveva le chiavi. Girava i dintorni sul camioncino con due aiutanti, uno di Lucca, e Matija. Matija era un ragazzo alto con i capelli rossicci, di un paese non lontano da quello di Irina. Ma a differenza di lei, Matija era in Italia già da un po', e non si capiva come, aveva pure il permesso di soggiorno.

La quarta o quinta volta B. le aveva dato uno schiaffo, senza motivo («Ché, non ti garbano un poco di busse?»). La volta dopo, con una voce sibilante, parole che strisciando si appiccicavano a quei muri umidi: «Mi piacerebbe smettere di vederti, ma proprio non riesco più. M'hai incatenato». Lei aveva sorriso nella penombra mentre si puliva con il kleenex. Un po' contenta.

A San Giovanni in Laterano, nella Basilica dov'era entrata il solo giorno che aveva passato a Roma con sua sorella prima che si separassero, s'era fermata a guardare una scultura. Due statue avvinghiate, strette l'una all'altra tanto da smettere di apparire umane. Piante sembravano, piuttosto. Anche lei e B. erano questo. Piante che nel secco del cemento invece crescono e intrecciano i loro arbusti: spontaneamente, perché così impone la natura.

La proprietaria del bar sospettava. «Attenta a te! Se scopro che vai a fare la troietta in giro, te ne vai il giorno stesso!»

Per parlare con sua sorella doveva arrivare in paese e comprare la tessera. Dieci euro, che regolarmente consumava tutti. Per raccontarsi l'un l'altra, com'era Forli e come Pontedera. «Papà sei riuscita a sentirlo? Io no» Era sempre Svetlana, mai lei a parlare col padre. Meglio così: Svetlana almeno lavorava in albergo. Lei in un bar dove entravano solo uomini, e nemmeno uno che avesse qualche soldo vero in tasca. Chiamava dalla cabina, e il tragitto di ritorno ultimamente pulsava sempre dello stesso pensiero: quando lo rivedo, quando mi fa inginocchiare di nuovo. Poi B. le regalò un cellulare. Era piccolo, rosa, da bambina. Lei per la felicità quasi aveva voglia di ringraziarlo baciandolo sulla bocca. Ma si trattenne: figurarsi se glielo avrebbe permesso, puttana che non era altro.

Matija, l'aiutante di B., la guardava male. Che cazzo ci faceva lì, quella ragazzina delle sue parti? Una magra che pareva un uccello stecchito, con gli occhi che cambiavano di colore. Una stronza. La incrociarono un pomeriggio mentre andava a prendere il pane in paese, e B. voleva fermare il camioncino per darle un passaggio. «Macché, lasciala sulla strada» ringhiò Matija. «Le conosco io, le ragazze del mio paese. Giusto la strada è casa loro» Togliendo per un momento la mano dal volante, B. se l'era dovuta posare sulla patta per calmarsi, perché a sentirlo parlare a quel modo s'era eccitato.

Facile da capire: Matija l'aveva presa di punta. «Ma che occhi hai?» la aggredì una sera che erano soli dentro il bar. Lei zitta gli servì la prima di tre birre. «Devi essere una strega, che ti cambiano di colore» E intanto la fulminava, lo sguardo duro, già ubriaco. Se non fosse entrata in quel momento la proprietaria, chissà, magari sarebbe anche partito con le minacce.

Pensa che è l'ultima volta perché B. la bacia in bocca, e quando viene geme forte, pare quasi che pianga. Pensa che è l'ultima volta perché mentre torna indietro, attenta a non sporcarsi con la terra che si solleva dalla strada, la luna piena si nasconde dietro brutte nuvole nere. Perché gli arbusti quando si intrecciano troppo diventano rovi, e a meno che non si è nel deserto di una qualche giungla, sempre arriva qualcuno a tagliarli.

La proprietaria ha capelli corti, come le sue parole. «Mi hanno chiamato dalla questura. Se non ti regolarizzo te ne devi andare». «E chi è stato a segnalarmi, signora?» «Non lo so, ma che ti importa? Entro domani devo decidere, e basta».

Chi l'ha denunciata? Matija, o B., o la ragazza che al bar del paese le vendeva le carte telefoniche, quella biondina idiota con la quale ha fatto l'errore di chiacchierare? Mi sa che dovrò andarmene da qui, digita rapida in un sms alla sorella. Lei è così. Prevede le cose prima che accadano. Come una strega. Basterebbe che quella donna con il collo grasso che pare un tacchino volesse il suo bene. Lei, o qualcun altro. Ma è sola, nemmeno sua sorella le risponde.

B. entra nel bar con i suoi due aiutanti. Non succede da tanto tempo, da quando lei aveva cominciato a sentire i suoi occhi sulla schiena. Ora li fa scivolare lungo la minigonna e più giù, sulle cosce di Irina. La vuole. Lei lo sa perché il cuore tra le gambe ha preso a batterle, puntuale. B. ordina da bere per sé e gli altri due. Si lasciano servire in silenzio. Non la guarda più. Sorride, ma non a lei: alla proprietaria del bar che affannata sta entrando, e come tenesse in mano una pietra posa sul bancone una busta imbottita. «Eccoli, i moduli da compilare. Ma io mica ancora ho deciso, è un bell'impegno..»

I tre al tavolino sentono tutto. Tacciono. B. ha uno strano mezzo ghigno, amaro, arreso, arrapato, lei non capisce. «M'hai incatenato»: paiono passati anni da quella sera, da quelle parole umide e calde che strisciavano lungo i muri prima dì conficcarsi nella testa. Adesso invece tace, concentrato sulla sua birra, ingessato in quell'indecifrabile ghigno.

Sarà stato il silenzio di quei tre a far decidere la proprietaria del bar. La corriera fino a Pisa la mattina dopo, il treno per Bologna e l'altro sino ad Ancona si assomigliano tutti: pieni di gente e di caldo. È scoppiata l'estate, e Irìna nemmeno se n'era accorta. Suo padre verrà a prenderla alla nave. «Svetlana sì, che s'è trovata un vero lavoro» le dirà, c'è da scommetterci. Le scarpe da ginnastica sono sporche di terra. Quelle almeno. Per ricordare. Nemmeno si sono salutati. Ma c'è il cellulare: rosa, da bambina. La sua bambina: era pronta a esserlo, sempre. A entrare nell'eco di ogni pianto, asciugarlo. La nave è piena di ragazzi delle sue parti, le viene in mente che potrebbero rubarle il telefono. Fulminea lo nasconde sotto la canottiera incastrandolo nella cintola della minigonna. Mentre il cuore batte forte, insieme alla voglia di chiudersi in un cesso per farlo battere tra le gambe, ricordando, precisa. Precisa come la notte, che intanto cala sul mare.


(Il racconto è stato pubblicato nell'antologia Italia underground , a cura di Angelo Mastrandrea, Sandro Teti editore, Roma, 2009.)








Lisa Ginzburg
vive e lavora a Roma. Ha tradotto Pene d'amor perdute di William Shakespeare (Einaudi, 2001). Orixás. Leggende afro-brasiliane narrate da Pierre Fatumbi Verger (Donzelli, 2006). Ha pubblicato nel 2001 il reportage Mercati Viaggio nell'Italia che vende (Editori Riuniti). Nel 2002 ha esordito con il romanzo Desiderava la bufera (Feltrinelli), vincitore del Premio Donna Argentario 2003. Autrice della biografia Anita. Racconto della storia di Anita Garibaldi (E/o, 2005), della raccolta di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli, 2006; Premio Teramo 2007) e del reportage Malìa Bahia (Laterza. 2007)



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