L'AMORE BREVE


Consolata Lanza

 



Che cielo, gente, che cielo! Verde smeraldo e giallo limone, con sbuffi arancio e rosa fragola, quella solita stella in anticipo che sembra uno strappo nel sipario, e dall'altra parte, oh! blu petrolio e antracite. Una gioia degli occhi per chi riesce a vederlo. Mi dicono che in città è impossibile, tutto si annega nel viola dello smog, ma qui grazie a dio abbiamo uno spettacolo gratuito quasi ogni sera. Sempre nuovo, oltre tutto. Ogni stagione ha la sua specialità e ogni tramonto la sua piccola variazione. Adesso è fine novembre, fa un bel freddino secco, allegro, preciso. Io me la godo dalla mattina al momento di andare a dormire.

Anche in casa c'è un bell'odorino di umido, per non parlare del giardino con tutte quelle foglie marce e quelle mele tardive - da cuocere, crude allappano i denti -, le ultime rose, i calicantus, i crisantemi. Che stagione l'autunno. Il naso impazzisce. Quando vado a fare una passeggiata nei boschi, sui vecchi sentieri che nessuno pulisce più, tra i noccioli e i castagni trovo sempre qualche pianta di alchichinger a illuminare la penombra con le sue lanternine rosse. Mi pare che dovremmo essere tutti buoni e felici. Invece.

Invece sono qui a contarvi una storia triste, una storia tremenda. Volete sentirla?

Allora comincio dal principio. Nel nostro paesetto, per qualche fortunata combinazione, anche se non siamo tanto lontani dalla civiltà nessuno si sogna di venirci a abitare. Niente villette a schiera che si mangiano i prati e le vigne. Ci sono ancora i frutteti, nelle cascine continuano a allevare galline, sui poggioli cresce la vite americana e le canne della pampa non hanno sostituito le file di pomodori, cavoli e fagiolini. Non ci credete? Venite a vedere. Davanti alla finestra della mia cucina c'è un caco senza foglie che porta fieramente i suoi globi arancione sui rami neri, anche se nessuno li vuole mangiare. Io per primo. Detesto quelle linguette di moccio solidificato, melense e viscide. Ma mi esalta la sua bellezza fiammeggiante.

C'è un municipio, una chiesa e perfino un parroco. Ogni tanto minacciano di chiudere, di trasferire don Ignazio, siamo così pochi e sono così pochi i preti che veramente sembra uno spreco tenerlo qui. A me dispiacerebbe perché anche se non credo a una parola di quelle che sparge dal pulpito, amo le messe di suffragio. Qui ormai ci sono più vecchi che ghiaia nei giardini. La domenica non metto piede in chiesa, ma ogni giorno mi alzo alle sei per seguire le funzioni deserte - due o tre donnette, lo scaccino, un paio di chierichetti in penitenza e io -, "in ricordo del nostro fratello Giovanni Mosca, della nostra sorella Luigina Levis, Clotilde Coda, Eusebio Gariazzo" … Amo questi nomi dimenticati, mi inchino volentieri a un rito che coltiva il ricordo. Io non avrò messe di suffragio ma finché posso le frequento con convinzione. Sono la cosa migliore che possa fare don Ignazio. Purtroppo non si canta più, più niente Dies irae . Ma le candele e i drappi neri, quelli ci sono ancora.

I bambini che servono messa a quell'ora sembrano deportati. Recalcitrano e sbadigliano, è chiaro che si tratta di un incarico punitivo. Sono sempre due, spesso un maschio e una femmina. Mi stupisco ogni volta che i genitori gli permettano di uscire quando è ancora buio, infreddoliti e malmostosi. Evidentemente il prestigio di don Ignazio è grande. Comunque danno un tocco di vita e di calore al rito, di per sé suggestivo ma triste. E in certi momenti, quando cominciano a svegliarsi e si danno calci furtivi sotto alle cotte, mi viene da ridere. A don Ignazio gli scappa anche qualche scappellotto come ai vecchi tempi, ma leggero perché i genitori di oggi sono piantagrane.

C'è stato un tempo in cui un paio di questi bambini dovevano essere davvero discoli perché almeno una volta alla settimana erano costretti alla levataccia. Uno si chiama Secondo anche se è figlio unico, abita in una cascina ristrutturata giù per la discesa del cimitero, suo padre ha una piccola impresa edile e sua mamma un negozio di pettinatrice. Secondo ha un dente rotto e le efelidi su tutto il viso. Lo vedo ancora sovente nell'unica strada del paese correre come un pazzo in bicicletta, o tirare calci a una lattina. Non deve avere molti amici. Ma la più scalmanata era Paoletta. Otto o nove anni, tutta ricci neri e occhi marroni, le scappava sempre da ridere mentre portava il turibolo, sbatteva negli spigoli, inciampava, una volta ha rovesciato il leggio del Vangelo poi è rimasta lì sorridente e abbioccata mentre don Ignazio la fulminava in silenzio. Viveva con i genitori e due fratelli più piccoli vicino a casa mia. Il padre è operaio in una fabbrica tessile, la madre magliaia in casa. Il loro cortile dà sulla strada. Ogni volta che ci passo davanti mi fermo a dare un'occhiata. È ingombro di tricicli e altalene, ci sono sempre tre o quattro bambini che strillano giocando al pallone. Paoletta era la capobanda, si vedeva subito. Strillava più di tutti e distribuiva spintoni, più manesca di don Ignazio. Però le piaceva vestirsi da femmina con gonnelline corte e magliette aderenti, le gambe tutte piene di cicatrici e cerotti, le scarpe da ginnastica infangate ma di colori allegri.

La storia che voglio raccontarvi ha proprio lei come protagonista. Una bambina che odora di sudore, incenso, acqua santa e caffelatte. E cicles, naturalmente.

Forse il mio paese, da come ve l'ho descritto, sembra del tutto fuori dal mondo. In realtà non è proprio così. La televisione, completa di antenne satellitari e pay-tv, impera in ogni casa, molti tra i ragazzini hanno un computer e sanno usarlo, tutti tengono il loro cellulare in tasca, comprese le casalinghe e i vecchi che parlano solo dialetto. Don Ignazio ha persino messo su un sito, www.parrocchiasanbernardodellevalli.it, per svagarsi nelle lunghe serate solitarie. E c'è un gruppo di ragazzi sui vent'anni che la sera si raduna alla Bolumera, una cascina abbandonata, per fumare robe esotiche, speriamo che non facciano di peggio. Non c'è una ragazza vergine sopra i quattordici anni a cercarla. Se questa è la modernità, è arrivata anche da noi.

Abbiamo le montagne tutt'intorno che ci tengono caldi. Questo lo penso io, ma in realtà dalle cime scure, raramente innevate, scendono certi fiati di gelo che costringono i vecchi in casa e i giovani a uscire per trovare le luci rassicuranti di birrerie e discoteche in pianura o il buio dove stringersi a celebrare i loro riti di sesso e di sballo. Non che ci siano molti giovani. Le fabbriche chiudono, la terra chiede fatica e non rende niente, ci si annoia e ci si sente soli, quelli che hanno un minimo di iniziativa partono, gli altri ciondolano e si incattiviscono. I loro padri bevono, picchiano le mogli, che cosa possono fare i figli? O se ne vanno o si buttano via così, senza motivo.

Paoletta, come gli altri bambini, rappresentava la speranza. Finché è durata.

Io non c'entro in questa storia, ma devo confessare una mia debolezza. Mi piace disegnare dal vero. Qui nessuno ci fa più caso, sono abituati a vedermi fermo in qualche angolo con la mia tavoletta mentre faccio uno schizzo senza dare fastidio. Non si mettono neppure in posa. Mi lanciano un'occhiata, un saluto, e continuano le loro faccende. Nemmeno i bambini, così naturalmente curiosi, mi danno retta. Ogni tanto qualcuno mi dice “poi mi dai il mio ritratto?” , ma subito dopo se ne dimenticano. In casa ho una galleria completa dei miei compaesani, che nessun altro, oltre a me, ha mai visto.

Una sera, l'anno scorso, era settembre, tornavo da una passeggiata particolarmente lunga, stanco e carico delle mille piccole cose che raccolgo. Non ci crederete, ma nei boschi si trova di tutto. Ben, mi trascinavo un po', di ottimo umore per la prospettiva un bicchiere di vino rosso con qualche castagna bollita, le prime dell'anno. Il sole era appena tramontato, c'era una bella luce cristallina, tutto mi appariva verde e argento, l'erba già umida e i tetti delle case, l'asfalto della strada, le portine di legno nei lunghi muri di recinzione. Da sotto ai cespugli uscivano sbuffi di buio, presagi della notte vicina, e i tronchi dei meli si stagliavano neri sui prati. Passando accanto a uno stradino che scende verso il torrente sentii delle voci. Non ho problemi a ammettere che sono curioso, mi piace origliare. Mi fermai dietro all'angolo di una casa, mi appoggiai a un paracarro di pietra fingendo di legare i lacci di una scarpa.

- Vorrei tanto darti un bacio.

- Perché?

- Che domanda, perché mi piaci.

- Tu baci tutto quello che ti piace?

- Il cioccolato lo mangio, la televisione la guardo. Te ti vorrei baciare.

- Io no.

Un silenzio.

- Dai, lasciati baciare.

- No.

- Sì.

Un altro silenzio.

- Ti è piaciuto?

- Non lo so.

- Era la prima volta?

- Sì.

Ancora silenzio.

- Allora?

- Sì, mi piace.

- Baciamoci di nuovo.

- Devo andare a casa, mi aspettano per cena. Stasera c'è anche mia nonna.

Silenzio.

- Basta, devo andare.

- Domani ci rivediamo qui a quest'ora.

Uno scalpiccio veloce. Mi voltai, come se stessi arrivando in quel momento. Dall'angolo di mattoni sgretolati spuntarono Paoletta e un ragazzino che conoscevo solo di vista.

- Buonasera!

- Correte a casa, che è ora di cena.

Schizzarono via in direzioni opposte. Madonna come sono precoci i bambini di oggi, pensai improvvisamente depresso. La mia serata solitaria mi attraeva molto meno. Finì che presi la macchina e andai in città a vedere un film, una roba da ridere, tanto scema che uscii prima della fine. Erano tre anni che non mettevo piede in un cinema.

Mentre guidavo piano per le strade buie, al ritorno, mi tornò in mente il bisnonno di Paoletta, Italo detto 'l Biscutin. Ai suoi tempi era stato famoso come narratore. Se lo contendevano la sera a veglia, era il benvenuto in qualsiasi cucina o stalla dove la gente si riuniva per passare le lunghe ore fredde che separavano il tramonto dall'ora di andare a letto. Uno degli ultimi depositari di un patrimonio di storie svanito nelle tombe dei vecchi, defunto con le loro decrepite lingue e una vita lenta, chiusa, oggi inimmaginabile. Chissà se 'l Biscutin riuscirebbe a comunicare con la bisnipote. Me li vedo, lui appoggiato al bastone che si raschia la voce prima di cominciare una storia di masche e settimini, principesse e asini che cagano oro, mentre lei scivola via per attaccarsi alla playstation. Paoletta conosce il dialetto, a casa sua lo parlano, ma Italo non ha mai nemmeno sospettato la possibilità dell'esistenza futura di una playstation.

Domani, pensai, andrò a trovare Gino, il figlio del Biscutin. È vecchio ma verde e sveglio, forse ha imparato qualcosa dal padre. Forse non tutto è perso di quella ricchezza. Poi la prospettiva della fatica di ascoltare per ore storie insensate e ripetitive mi stomacò. Non sarò io a raccogliere un'eredità che non interessa più a nessuno.

Il giorno dopo, però, incontrando Paoletta che pedalava senza mani sulla sua bici rosa, la chiamai.

- Come sta tuo nonno Gino? È da un po' che non lo vedo.

- Ma, sta bene. Però dà un po' i numeri.

Questo mi giungeva nuovo e mi dispiacque.

- Dà i numeri, come?

- Certe mattine prepara il baracchino, si mette a cercare la tuta e strilla che è in ritardo per il primo turno. Mio papà dice che non ha superato il trauma della cassa integrazione. Pensare che è successo così tanti anni fa che non solo io non ero nata, ma erano Gli Anni Ottanta!

Proprio così, con le maiuscole.

- Lo dice mio papà. Dice che tutti questi anni è rimasto a ruminarci sopra e adesso che è rimbambito gli torna tutto fuori.

- Ma dopo la cassa integrazione non è tornato in fabbrica?

- No, gli è venuto l'esaurimento, è stato in ospedale e poi l'han licenziato. Mio papà dice che con la liquidazione si è comprato la casa, ma lui non se ne ricorda.

Neanch'io mi ricordavo. Va be' che negli Anni Ottanta ero sempre in giro per il mondo. Però mi sentii in colpa, avevo pensato a Gino solo per usarlo come serbatoio di memorie e di lui non sapevo niente. Solo la sua faccia tra le tante appese in casa mia.

- Allora è inutile che ti dica di salutarmelo.

Paoletta si strinse nelle spalle come a dire che poteva anche farlo, ma non si prendeva nessuna responsabilità. E anche, sospetto, che non sapeva chi ero e non le importava per niente. Voltò la bici con uno strattone e si precipitò giù per la discesa.

- Vai piano!

Mi rimasero negli occhi le sue spalle magre curve nello sforzo della pedalata, il lampo rosso della maglietta. Era in gamba, davvero, come ciclista da stradone.

Finì che le castagne le regalai a don Ignazio. Non so se le apprezzò, gliele regalavano tutti. I funghi, cucinati in umido, mi fecero passare una notte insonne. Niente da fare, gente. Noi possiamo credere di essere sempre giovani ma il fegato la sa lunga, non si sbaglia mai. I prossimi che raccolgo li darò al parroco, vediamo se cuocerli nell'acqua santa li rende più digeribili.

Secondo per un po' non comparve alle messe di suffragio, forse si era calmato o si era preso l'influenza, il morbillo, una di quelle malattie che rendono i bambini mogi e ubbidienti. Sentivo un po' la mancanza delle sue lentiggini. Ma nel complesso un ragazzino vale l'altro, c'era sempre qualche chierichetto mezzo addormentato a far andare il turibolo davanti al catafalco. Degli amori di Paoletta non sapevo più niente, anzi me li ero dimenticati nelle nebbie profumate di fumo di legna del primo autunno. La sera, prima di chiudere il portone di casa, me ne stavo un po' al buio a ascoltare i cani che latravano sulle colline e annusare il bosso del giardino. Facevo due passi smuovendo le foglie cadute per sollevare il buon odore di umido. C'era ancora qualche dalia, qualche zinnia, un folto di settembrine in fiore. Mi facevo delle gran quantità di mele cotte giusto perché la casa fosse riempita dell'aroma di chiodi di garofano, poi ne mangiavo due cucchiaiate e il resto, per lo più, lo buttavo via.

Non pretendo di farvi credere che la mia vita sia allegra né interessante. Ma questo non ha importanza, non c'entra con la storia che vi sto contando. Solo che io non sono bravo come Italo 'l Biscutin che come cucinava lui le storie non c'era nessuno. Almeno così ho sempre sentito dire. Certo lui andava subito al sodo se no l'uditorio protestava, nessuno gli riempiva il bicchiere, le donne attaccavano il rosario e via, la serata era bell'e rovinata. Io invece posso prendere tempo come voglio, tanto non c'è nessuno che mi ascolta.

Poi incontrai di nuovo Paoletta nella strada che scendeva al torrente. Era una bellissima mattina piena di sole, freschi profumi di mele e uva facevano venire voglia di pranzare in compagnia, c'era un'aria così leggera che mi sentivo un po' ubriaco. Avevo passeggiato nell'umido dei noccioli, rintracciando i luoghi dei miei giochi infantili. Il lavatoio dove l'acqua raggiungeva i polpacci, la piccola cascata scintillante di mica, la diga di massi lisci su cui si poteva saltare e scivolare, il guado del sentiero che, nei tempi favolosi in cui la gente andava a piedi, serviva a raggiungere altri paesi.

- Come mai non sei a scuola?

- È chiusa, c'è il morbillo.

- Dove te ne vai?

- A spasso. E tu?

Mi guardava negli occhi da sotto in su, ma sembrava alla mia altezza. Una faccetta da schiaffi, piena di riso e pensieri suoi. Non mi sfidava perché di me non le importava niente.

- I tuoi lo sanno che sei in giro da sola?

Alzò le spalle. Si stava annoiando. Tirò un calcio a un sasso, si grattò in testa, poi si voltò e riprese a camminare. Io rimasi a guardare la piccola schiena dritta e le braccia che ondeggiavano al ritmo del passo. Arrivata all'angolo dove terminava il muro di cinta e cominciava il bosco si mise a correre. Sull'erba il rumore della sua corsa si spense subito.

Non avevo più voglia di pensare a Paoletta. Non avevo più voglia di pensare a nessuno. Sentivo salire in me l'onda nera che conoscevo bene e che mi separava dal mondo, lasciandomi solo quel poco d'aria per respirare a stento. Tornai a casa, chiusi la porta a chiave e mi addormentai.

Gente, addormentarsi è una cosa e dormire un'altra. A volte, appena scivolo nel sonno, cominciano certe storie che la mattina non so più chi sono né che giorno è. Storie più concrete della vita che vivo di giorno, più interessanti, e molto più stancanti. Così successe quella notte. Quando mi svegliai verso le sei e mezza e scesi a farmi un caffè mi sentivo tutto ammaccato, mi facevano male le gambe e i polmoni da tanto che avevo galoppato su e giù per montagne boscose, sbranato agnelli e rincorso cani, scavato nella neve e nel ghiaccio alla ricerca di un po' d'acqua. Già, perché avevo trascorso lunghe ore da lupo. Solo dopo due caffettiere piene e un tuffo con la testa sotto la pompa del giardino - rinfrescante, vi assicuro - il mio cervello cominciò a snebbiarsi. Ma ci voleva altro per ritornare con i piedi sulla terra. Una bella messa di suffragio.

Arrivai che era già cominciata, anzi stava per finire. L'odore di incenso mi accolse familiare e violento. Qualche candela filava e fumava davanti all'altare della Madonna di Oropa, don Ignazio cantava senza convinzione, tre donne lo sostenevano emettendo fiati di caffelatte. Secondo agitava il turibolo in stato di sonnambulismo. Non c'erano altri chierichetti né fedeli. Mi inginocchiai in seconda fila e aggiunsi la mia voce rauca di sonno al coro. Le donne si voltarono un attimo poi ripresero l'inno con più forza. In dieci minuti fu tutto finito, mi ritrovai sul sagrato deserto proprio mentre i primi raggi di sole colpivano la scritta SANCTO BERNARDO DICATUM sul frontone della chiesa.

L'aria frizzava, negli angoli in ombra c'era un resto di gelo. Salii verso casa a lunghi passi memori delle imprese notturne. Mi sentivo ancora esausto e nello stesso tempo pieno di forza. A stento mi trattenevo dall'ululare alla falce di luna che stingeva pallida sulla montagna. Che cosa farò oggi? Come riuscirò a liberarmi da questa energia muta che mi preme da dentro? Non rientrai, proseguii verso l'alto e non mi fermai finché raggiunsi la vecchia chiesa abbandonata di San Grato, sul bordo dei boschi di castagni, spogli e neri, che coprivano tutto il pendio fin dove l'occhio poteva arrivare. Sedetti sulla panca di pietra sotto al portico senza pensare a niente, lasciando che il sole mi scaldasse man mano che saliva nel cielo. Fu la fame a spingermi a tornare. Mi preparai due uova al burro e una zuppa di pane e latte. I profumi elementari, accoglienti, del cibo mi riportarono alla realtà. Avevo di nuovo gambe e non zampe, denti invece di zanne. Passai la giornata a leggere davanti al camino. La sera ero così stanco che mi coricai prestissimo, sereno come un pollo.

Rividi qualche giorno dopo l'amichetto di Paoletta al negozio di alimentari, l'unico del paese. Quando entrai stava leggendo una lunga lista con la voce diligente dello scolaro punito.

- Tre scatole di pelati di quelli da 65 centesimi. Una confezione di burro Troppo Buono da 125 grammi . Caffè Aroma d'Arabia, pacco doppio. Mezzo chilo di zucchero. Due chili di patate e uno di cipolle, tre di mele carpendu, due teste d'aglio. Olio Prima Spremitura Deliziosa, una bottiglia. Splendidissimo, Pulitissimo e Lucidissimo. Due etti di prosciutto cotto di prima qualità. Tre confezioni di stracchino da 50 grammi . Dieci merendine Cioccolato Più. Passa papà a ritirare tutto e a pagare stasera mentre torna a casa. Io prendo adesso solo quattro merendine.

L'ultima ordinazione mi parve sospetta. Comunque tutta la spesa era strana, nessuno comprava roba tipo olio e detersivi al negozio, era molto più conveniente andare fino all'ipermercato giusto sotto al paese, all'incrocio con la provinciale. Ma diciamocelo, gente, non erano fatti miei. Comprai mezz'etto di mentine e sei uova, snocciolai le monete sul banco e me ne andai in fretta, prima di essere coinvolto in una discussione che la padrona, Giuliana, intratteneva con Biagino il sacrista: non c'è da stupirsi che c'è la crisi, è tutta colpa di 'sto maledetto euro. Secondo me Giuliana era la meno adatta a affrontare l'argomento. Subito dopo l'introduzione dell'euro i prezzi del suo esercizio erano aumentati del cinquanta per cento nel giro di sei mesi, me lo ricordo benissimo.

Uscendo feci in tempo a vedere il ragazzino seduto su un paracarro, di quelli di pietra che sopravvivono credo solo nel nostro paesino, intento a scartocciare una merendina. Passando gli feci un saluto.

- Niente scuola oggi?

- C'è il morbillo, vacanza!

Be', ormai avevo capito che la storia del morbillo serviva per tacitare gli adulti indiscreti. Ma ai genitori, che cosa raccontano questi sciagurati? O forse i maestri gli tengono bordone? Sono troppo vecchio, ho perso il contatto con le giovani generazioni, non so più niente di quello che combinano e i loro codici mi sfuggono. Aprii il pacchetto delle mentine e ne ingoiai una manciata. Erano certo molto più sane di quelle merendine al cioccolato che sparivano, una a una, nella bocca vorace del magro moroso di Paoletta.

Una delle cascine abbandonate giù in basso, vicino all'incrocio con la provinciale che porta in città, è occupata da un gruppo di poveracci, extracomunitari che non riescono a trovare una stanza in affitto nemmeno a pagarla con il sangue. Gente che lavora, tutta, nelle fabbriche e nelle grandi aziende agricole della piana, non so se clandestini o a posto con i permessi. Ci sono anche donne e bambini, sui sambuchi attorno si vedono volare palloni e nell'aia ci sono corde coperte di bucati stesi. I miei compaesani, passandoci davanti, storcono il naso.

- Che puzza! Come si lavano quelli lì, che non hanno neanche l'acqua?

Io però credo che l'acqua ce l'abbiano, se non come spiegare i bucati?

- Chissà che cosa succede lì di notte, senza luce.

La luce ce l'hanno, abusiva, si vedono benissimo gli allacciamenti ai lampioni della strada.

- E i bisogni dove li fanno?

Gli uomini magari li tengono fin sul posto di lavoro, donne e bambini si arrangiano. Direi, e non è che la trovi una gran soluzione, tra i cespugli come i nostri bisnonni. O si sono inventati qualche altro modo. Comunque mai nessun marocchino è venuto a chiedermi dove faccio i miei bisogni e io non lo chiedo a loro. Non mi interessano granché, le cascine abbandonate sono molte, c'è posto per tutti, secondo me.

Ma quando una sera Paoletta e il suo amichetto, che si chiamava Roberto come scoprii in quell'occasione, non tornarono a casa all'ora di cena, il primo posto dove i carabinieri andarono a cercarli fu proprio lì. Senza esito, e con molte urla femminili e pianti infantili. Non c'erano, niente da fare, anche se ogni mattone e ogni ragnatela furono perquisiti con l'accuratezza per cui vanno famose le nostre forze dell'ordine. I carabinieri dovettero andarsene dopo un paio d'ore, non so se con molte scuse o molte minacce. Una fila di ragazzini magri, con teste nere e tonde, rimase schierata sulla via d'accesso a guardare le camionette che se ne andavano. Sulle loro facce si leggeva la preoccupazione. Questa era una faccenda che li riguardava in quanto coetanei degli scomparsi. Non li conoscevano perché frequentavano una scuola della piana, ma certamente li avevano incontrati nei boschi e sulle rampe dove tutti caracollavano in bici, Paoletta e Roberto in discesa e i piccoli marocchini in salita.

Gente, lo so che cosa state pensando. Che adesso getterò la maschera e confesserò che sono io il lupo cattivo, mi sono mangiato i bambini e via. No, no, siete completamente fuori strada. So di avere qualche perversione (la prima e più clamorosa è la passione per le messe di suffragio), ma per il resto sono normalissimo. Mi diverte osservare i bambini perché sono strani e pieni di sorprese, ma è tutto lì. Figuriamoci, rapire dei piagnoni portati all'urlo e alla scena madre! E poi, a che scopo? Non mi attirano sessualmente neanche di lontano, sono un normale misantropo solitario, senza fantasie morbose. No, sono felice che ci sia ancora qualche coppia disposta a mettere al mondo dei piccini ma anche che se li tengano a casa loro, che si occupino di fargli fare i compiti e controllino che si lavino le orecchie e cambino le calze una volta alla settimana. Sono innocente e preoccupato per i due sciagurati esattamente come voi.

La ricerca ormai stava diventando isterica, Paoletta e Roberto mancavano da un giorno e mezzo. Don Ignazio disse una messa speciale per il loro ritrovamento ma io non vi assistetti. Senza catafalco e turibolo la chiesa non mi attraeva per niente. Quel giorno andai a bere un vino chinato all'osteria La bella Diana , con annesso gioco di bocce, una specie di reperto archeologico che sopravvive in paese grazie all'alta concentrazione di anziani. Volevo sentire se c'erano novità e quali erano le ipotesi in circolazione. Trovai solo teste canute che si scuotevano lente, voci roche che ripetevano “Che tempi” , quartini di rosso che si svuotavano un po' più veloci del solito. Neanche Diana, la padrona, che poi si chiama Carola e ha i baffi ma una lingua senza uguali e un cervello più lucido di uno specchio, aveva niente da dire. Se ne stava dietro al bancone di formica verdina a strofinare i bicchieri con uno straccio umido. Ogni tanto apriva la bocca come per parlare, poi scuoteva la testa e le spalle. Quando chiesi un secondo vino chinato mi guardò in faccia.

- Ti sei messo a bere?

- Da quando ci diamo del tu?

Lei sospirò, io andai a sedermi vicino a suo marito, Fredo, un tipetto tanto lento che gli crescono il muschio nella barba e i funghi nelle orecchie. Masticava forse da una settimana un panino al salame.

- Allora, che si dice da queste parti?

Fredo mi guardò come sua moglie, solo che i suoi occhi erano appannati, fissi.

- Aspettiamo notizie.

Un'ondata di acidità mi riempì lo stomaco. Tempo sprecato, e l'alcol mi fa male. Il fatto è che non avevo voglia di stare solo. Mangiai un panino di frittata e bevvi ancora. Di notte me ne pentii ma il male era fatto.

Ormai i bambini erano spariti da due giorni. Cominciavano a circolare storie senza senso, una macchina con targa straniera ferma davanti a casa di Paoletta, una zingara che ronzava da un po' in paese, cose così, stupide, cattive, assolutorie per tutti. Non mi sarei stupito se qualcuno avesse tirato fuori che i lupi erano scesi dalla montagna, lupi stranieri ovviamente, arrivati sornioni dalla Slovenia, dalla Croazia, dall'Albania addirittura, a passi felpati lungo l'arco delle Alpi per mangiarsi i nostri figli innocenti. Poi venni a sapere che i genitori di Roberto, proprietari di un bar-tabaccheria in un paese a tre chilometri verso valle, uno di quelli ormai tutti villette con i fuoristrada parcheggiati sotto le canne della pampa, avevano deciso di rivolgersi a Chi l'ha visto? '. La sera dopo ci fu un collegamento nella piazza della chiesa. Sotto potenti riflettori tutta la popolazione dei due paesi si radunò con facce compunte che nel corso della serata si sciolsero in sorrisi involontari al pensiero dei milioni che li vedevano, mentre i piccoli amici di Roberto e Paoletta si spintonavano per sgusciare tra le gambe degli adulti e emergere in prima fila. Secondo era il più eccitato. Alcuni furono intervistati in diretta e gridarono, allegrissimi, “ Tornate, tornate che qui tutti vi aspettano” mentre le due mamme piangevano e i padri guardavano smarriti il biondo conduttore che continuava a sbagliare il nome di tutti, sindaci compresi. Don Ignazio lanciò un toccante appello ai rapitori. Fu una gran serata, gente, un evento per il nostro angolino di mondo, ma a parte i ragazzini nessuno si divertì molto. Giunsero anche decine di telefonate alla trasmissione, con avvistamenti che andavano da Capo Passero allo Stelvio. Nessuna portò a niente.

Quarto giorno dalla sparizione. Ero diventato un cliente fisso di Carola, che mi guardava con disapprovazione a ogni vino chinato che ordinavo.

- Proprio te che eri una delle poche persone serie di questo paese!

Avevo rinunciato a tenere le distanze. Ormai le davo anch'io del tu, come a Fredo e ai vecchi sconsolati davanti al loro quartino. Finii per fare un giro di tarocchi con tre ometti dagli occhi lacrimosi. A ogni carta sbattuta sul tavolo unto era un sospiro, ogni punto uno sgocciolio dal naso. Persi tre partite di fila. Il mio compagno di gioco per fortuna era ciucco, non se ne accorse neppure. Pagai da bere e bevvi. La mia reputazione era perduta per sempre.

Io sto qui, gente, a contarvela con i miei tempi e i miei modi. Vi va bene? Volete che continui? Se ne avete abbastanza, amici come prima. Non lo faccio per me ma per voi. È una storia brutta ma anche un po' bella, a pensarci adesso. A parte il fatto che ho bevuto più vini chinati in quei giorni che in tutto il resto della mia vita. E come mi sentivo il mattino ve lo risparmio.

Insomma la giornata proseguì lenta e senza novità. Io non riuscivo a farmi un'idea di quello che poteva essere successo, ma più il tempo passava più mi facevo prendere anch'io dall'ansia. Pedofili, lupi mannari, trafficanti di organi, zingari rubabambini, orchi cannibali si aggiravano nelle menti fino a allora prive di immaginazione dei miei compaesani. Era difficile mantenersi equilibrati. Insomma, Paoletta e Roberto non erano fazzoletti e calzini che si possono smarrire in un bucato. Mi venne una voglia irrazionale di menare le mani, sfondare porte chiuse, come a tutti gli altri, compresi i vecchietti inchiodati al quarto di rosso e al mazzo di carte. Nei loro occhi arrossati brillavano lampi omicidi. Erano vecchi, mica indifferenti.

E intanto, fuori, il cielo era verde e scintillante delle prime stelle, pulito come un ghiacciolo, perfetto. La luna saliva sicura del fatto suo. C'era quel buon odore dell'autunno, le foglie marce nei giardini e il fumo di legna dei caminetti che ancora tutti usano da queste parti. I cani abbaiavano solitari, desolati, con il solo scopo, credo, di comunicare la loro esistenza. Tornare a casa in quel freddo sereno è un piacere che non mi stanca mai. L'aria, gente, qui da noi è proprio un'altra cosa.

Comunque, qualcosa di tremendo e inaspettato era successo proprio nel nostro paese. Gli abitanti erano storditi. Le donne si affollavano in chiesa, ma don Ignazio non sapeva più che cosa escogitare. Pregava e incitava tutti a pregare, ma era chiaro che nemmeno a lui le preghiere sembravano sufficienti. Due avemaria contro un lupo mannaro, che cosa possono fare? Un bel niente, ammettiamolo, non c'è bisogno di essere un senza dio come me per capirlo. Se nemmeno la televisione ha risolto il mistero! Chi ci resta per aiutarci, gente?

In quei giorni, chissà perché, saltarono fuori stranezze mai immaginate. Il figlio di Carola e Fredo, Ugo, un ragazzone che aveva preso più dal padre che dalla madre, operaio, sposato con una simpatica maestra, si ficcò in testa di fare un archivio degli abitanti del paese per aiutare la polizia e cominciò a andare in giro con la sua macchinetta digitale (alta gamma, professionale, sottolineava lui) poi pretendeva di farti guardare subito le immagini sul quadrante. Diabolico e stressante. Manco te ne accorgevi e lui ti aveva puntato, catturato, riprodotto nei momenti meno opportuni. Io gli avrei dato un fracco di botte se non avessi avuto paura delle sue mani a zappa. Certo è che dopo poco, appena Ugo appariva le persone rispettabili si infilavano in ogni pertugio come scarafaggi. La maestra si vergognava a morte ma per solidarietà fingeva di considerare meritevole l'attività del marito. Carola non diceva niente, stringeva solo le labbra e guardava dall'altra parte. Fredo rideva tra un bicchiere di rosso e l'altro. Quello che vorrei sapere è perché un operaio butta via i soldi per comprare un aggeggio del genere, che costa uno sproposito.

L'altro che perse la testa è don Ignazio. Cominciò a fare messe a tutte le ore. Forse non tutte erano messe, non me ne intendo a parte quelle da morto, fatto sta che le campane della parrocchia suonavano di continuo e c'era un correre di beghine e sacristi fuori e dentro dalla chiesa, anche loro veloci e neri come scarafaggi. E che cosa dire dei giornalisti, dei fotografi, che di colpo occuparono il sagrato come se fosse Baghdad o Kabul in tempo di guerra?

Be', il quinto giorno la situazione precipitò. Prima di tutto don Ignazio si accorse di una cosa che, se avesse avuto il cervello a posto, avrebbe dovuto notare il primo giorno. Erano spariti tutti i soldi raccolti per la costruzione di una scuola in Bolivia. Una sottoscrizione che andava avanti da due mesi. La somma, milledodici euro, stava in un cassetto chiuso a chiave della sacrestia. Quando don Ignazio lo aprì per mettervi i cinquanta euro di qualche devoto bisognoso di fare una buona azione per contrastare il dolore che ci aveva travolti, trovò la serratura scassinata e il cassetto vuoto.

La notizia si era appena sparsa in paese che i carabinieri di Milano comunicarono di avere trovato i due fuggiaschi in buona salute e piuttosto allegri in una sala giochi. Non si erano lavati tanto durante la fuga, ma avevano mangiato abbondantemente, pizza e hamburger, avevano comprato sacchi a pelo e borse per tenerceli, avevano dormito qua e là e dei milledodici euro ne rimanevano solo trecentosei. Il sollievo fu immenso. Il ritorno dei reprobi fu un tripudio di televisioni, clic clic, Ugo riuscì a immortalare il loro incontro con i genitori e vendette le foto a un settimanale per millecinquecento euro. Bisogna dire a suo onore che li regalò alla parrocchia per rifondere il furto. Andammo tutti a dormire più sereni, e pieni di interrogativi per il giorno dopo.

Grande delusione sotto il cielo, gente, quando si seppe che i bambini non potevano parlare con nessun estraneo. Erano ormai sotto la tutela del tribunale dei minori. Per un po' li sfinirono di colloqui, loro e i famigliari, poi il giudice decise di lasciarli in pace, sotto la sorveglianza di psicologi e assistenti sociali. Niente più corvée in chiesa per Paoletta, comunque. A Secondo si affiancò Teresina, diavolessa minore che non sarebbe mai assurta a tanta responsabilità se non fosse stato per lo sconquasso della fuga.

Anch'io, confesso, smisi di frequentare le messe di suffragio. Qualcosa mi teneva lontano. Presi l'abitudine di fare passeggiate al buio, su e giù per lo stradone. Quando cominciava a far chiaro andavo a bere un caffè alla Bella Diana . Il tempo dei vini chinati era finito. Spiavo in giro caso mai riuscissi a intravedere i riccioli neri di Paoletta, ma dicevano che non uscisse che per andare a scuola o a parlare con qualche psicologo. Aveva la proibizione di incontrare Roberto, ovvio. Mi parve una cosa terribile. Con chi poteva ricordare i giorni della fuga, con chi poteva sussurrare dietro agli angoli se era così crudelmente separata dal suo piccolo moroso?

C'era chi millantava fonti di informazione personali e raccontava particolari raccapriccianti. Avevano passato la notte con drogati, barboni e prostitute. Gli avevano fatto calare strane pastiglie, sniffare colla, spacciare eroina sotto la minaccia di una pistola, erano stati venduti a un medico pedofilo trafficante di organi, erano fuggiti fingendosi sieropositivi, e chi più ne ha più ne metta. Il nostro paese, oasi di tranquillità e serenità, si dimostrò aggiornatissimo in fatto di orrori, all'altezza dell'immaginazione di qualsiasi scrittore di noir. Ma nessuno aveva parlato direttamente con i due eroi negativi. Sapevamo che quelle che circolavano erano tutte balle, eravamo pronti, col tempo, a dimenticare tutto. Volevamo indietro Paoletta, i suoi ricci, gli sbadigli in chiesa. Anche Roberto, abitante marginale, era diventato nostra proprietà.

Comunque, cara gente, qui finisce la parte bella della storia. Il seguito, quando ci penso, ancora mi agghiaccia.

Era inverno ormai. Da noi l'inverno è una cosa abbastanza seria. Nevica quando in pianura piove, le vasche nei giardini gelano, certe volte abbiamo persino i ghiaccioli che pendono dalle grondaie, nei viottoli ombrosi si formano lastre su cui i ragazzini giocano a scivolare. La strada principale resta libera ma la mattina presto è pericolosa per le vecchiette che vanno a messa. La chiesa è riscaldata - don Ignazio non può permettersi di perdere i devoti anziani - ma alzarsi alle sei diventa un atto di eroismo. Stavamo rintanati in casa o all'osteria, i piedi vicini alla stufa, nel caminetto, incollati ai termosifoni. Il cielo era magnifico, stellato di notte, rosso al mattino, verde al tramonto, cobalto nella prima sera.

L'agitazione dovuta alla sbornia di notorietà stava sbollendo. Siamo ormai tutti talmente abituati alla raffica di notizie tremende che si gonfiano e sgonfiano nel giro di qualche giorno che eravamo pronti a appassionarci a qualche nuovo caso. Persino io, che non ho la televisione, certi giorni dimenticavo. Riprese le mie abitudini, camminavo nei boschi dove potevo, disegnavo a memoria le facce nuove che per poco si erano aggirate tra di noi, senza più collegarle ai motivi che le avevano fatte apparire. Aggiornai i ritratti di Carola, Fredo, degli avventori della Bella Diana . Mangiavo castagne bollite e bevevo vin brulé in solitudine. Con moderazione. Sereno.

Fino a quel tremendo lunedì. La sera prima stavo tornando a casa infreddolito dopo una passeggiata quando vidi una macchina della polizia ferma davanti alla casa di Paoletta. Ancora? pensai. Perché non li lasciano in pace? Mi incuriosì il fatto che fino allora avevo visto solo carabinieri. Che ci fa la polizia? Ma ero stanco, volevo togliermi gli scarponi e scaldarmi. Ascoltai un concerto alla radio e andai a dormire prestissimo, per potermi alzare in tempo per la prima messa. Messa di suffragio. Il tempo era passato, potevo riprendere le mie abitudini.

La porta della chiesa era sbarrata. Nella canonica, tutto buio. Ero un po' in ritardo, per cui non mi stupì non vedere nessuno sotto il porticato. Tornai sui miei passi chiedendomi che cosa poteva essere successo. Probabilmente don Ignazio era indisposto. Normale, con quel freddo. Io stesso mi ero svegliato con il naso chiuso e la gola irritata. La macchina della polizia era sparita, ma notai che in casa di Paoletta il pianterreno era tutto illuminato.

Presi un'aspirina e trascorsi la mattinata a rivedere dei conti, ben coperto accanto al fuoco. Verso mezzogiorno uscii per comprare il giornale, e fu allora che seppi.

Paoletta e Roberto erano di nuovo scomparsi. Dopo aver passato parte della domenica pomeriggio giocando con i fratelli, ciascuno a casa sua, avevano dichiarato, separatamente e in perfetto accordo, che andavano un momento a riposare in camera perché avevano mal di testa. Quando li avevano cercati, i letti erano vuoti, le finestre spalancate su una facile via di fuga. Dei due bambini nessuna traccia, neanche un biglietto. Come avessero potuto comunicare nessuno lo sapeva, ma insomma, tra telefono, telefonini, e-mail e amici compiacenti non dovevano esserci state difficoltà.

Questa volta la ricerca durò poco. Alle quattro del pomeriggio li avevano già ritrovati.

Stavano fianco a fianco nel settore 1, posto 42, del garage sotterraneo della Esselunga, tra una Audi e una Citroën. Quello a tre piani, supersicuro, telecamere a ogni angolo e Zona rosa per le gentili clienti. Piccoli com'erano, sembravano perfettamente a loro agio. Avevano messo giù una coperta messicana che Roberto aveva preso a casa sua. Poi avevano ingoiato una confezione a testa di sonniferi, sempre provenienti da casa di Roberto, aiutandosi con una bottiglia di cocacola da un litro e mezzo. Un pochino avevano vomitato, ma non abbastanza. Erano morti da almeno tre ore, disse il medico legale. Noi morimmo tutti nel momento che la notizia si sparse, a uno a uno, lentamente e senza parole.

Era un bel pomeriggio invernale, spazzato da uno scirocco matto che puliva il cielo e i giardini, le montagne splendevano gloriose nel tramonto, verde e viola e rosa come in un trionfo della natura contro lo smog. C'erano stelle puntute e pungenti, persino una luna nascente d'argento puro. Aria diversa da quella di un garage. C'era l'inquietudine, fastidiosa, della temperatura improvvisamente mite. Fruscii e strepiti tra gli alberi. C'erano un sacco di cose che non ho voglia di ricordare, e altre che ho dimenticate.

E poi son passati i giorni, è passato quasi un anno, ma che cosa posso aggiungere, gente?

Ditemi voi se ha senso la storia che vi ho raccontato. Io non ci riesco, ci ho pensato troppo. Ora ci sarà chi accusa la televisione, i videogiochi, le merendine, i genitori che lavorano, internet, il troppo benessere, la miseria culturale, la scuola a scatafascio, l'egoismo degli adulti e i calendari delle veline. Potrei continuare, ma lo lascio fare a voi. Mi ritiro davanti al caminetto con una bottiglia di barolo e tre etti di toma del Maccagno. Cercherò di inciuccarmi, di farmi salire il colesterolo, di dimenticare quel che posso. Cercherò di dormire, se ci riesco. Avevo ragione, secondo voi? È una storia tremenda, era giusto raccontarvela? Io ormai la trovo solo triste.

Ma fuori, gente, c'è un cielo, un cielo… Limpido come una pozzanghera d'acqua piovana, gelato come le guance dei morti. Pieno di strappi di luce che sono le stelle, puro cobalto, e la luna non lo disturba. Io non ho più voglia di guardarlo. Se a voi fa piacere, fate pure. Nel mio bicchiere di rosso si specchiano le fiamme, e tanto mi basta.








Consolata Lanza vive e lavora a Torino. Collabora alla rivista LN–LibriNuovi, a Fata Morgana e al progetto ALIA, L'arcipelago del fantastico, alla rivista on–line Sagarana. Ha pubblicato D'amore e no (Tracce, 1996), Il gioco della masca (Filema 1997), Est di Cipango (Filema 1998), Ragazza brutta, ragazza bella (Filema 2000), Irene a mosaico (Avagliano 2000), La lametta nel miele (Filema 2005), Lei coltiva fiori bianchi (CS_ libri 2008) , molti racconti su rivista e in antologia, tra cui parecchie edizioni di Fata Morgana, due di ALIA e La mia città senza grazia (Empirìa 2005).


        Precedente       Copertina