GENOVA E VERNAZZA

– Brano tratto dal romanzo Tutto-mondo –


Ιdouard Glissant

 


«Su Genova si va aprendo il prato delle campane d'avventura...».

Mathieu Béluse raccordava il tempo con le parole del tempo andato, ma ecco, egli non era a Genova, non sognava nelle viuzze ombreggiate, non leggeva gli astrolabi di pietra incisi sui vecchi portoni, non ascoltava la terrificante marea oceanica salire come una chimera nei pomeriggi che sembravano barricare le piazzette tra le tende di paglia o di perline di vetro dei ristoranti così vecchi – egli era a Vernazza nelle Cinque Terre, a nord di La Spezia, in quel poco spazio dove, tra le rocce e lo strapiombo delle terre semivergini, si aggrappavano le vigne grigie che davano lo Sciacchetrà, un vino giallo che raspava dolcemente il fondo della gola.

In quel poco spazio, con qualche falcata in salita ripida o discesa incontrollata, tra le ante delle finestre e le cornici sporgenti dei portoni, ricomponeva la Genova pullulante di quella fine del Quindicesimo secolo, al cui proposito si era talvolta chiesto (non a proposito della città, ma della fine del Quindicesimo) cosa potesse rappresentare per lui. Il Quindicesimo di cosa nella sua vita? Fluttuava in una vertigine che mescolava gli spazi dei due luoghi, Genova Vernazza, e le brezze marine delle due epoche, la fine di quel che avevano chiamato Medioevo e l'insieme di ciò che chiamavano Tempi moderni... Ma era perché portava in sé un altro tempo. Perché vagava nei suoi tempi, piantati nel suo corpo. Ed era anche perché dilatava in sé altri spazi, sperduti nello spazio del momento presente, che lo immobilizzavano lì, tra lembi d'ombra. Emilio e Cesare, Sandro e gli altri gli gridavano che avrebbero attraversato a nuoto (guizzando tra le grosse meduse gialle e blu di cui non si sapeva mai in anticipo dove avrebbe palpitato il segreto venuto dal largo) verso la grotta aperta e gli scogli affioranti dell'altra riva.

Restava ancora un momento immobile tra le ante e le cornici che degradavano ai due lati della viuzza larga appena due metri, impregnandosi dell'asciutta umidità della loro penombra e indovinando nella lontananza di tutte quelle grida, lì così vicine, il fremito della luce di mare.

Ed era vero che il molo di vecchie pietre, l'ansa bordata di scogli che lo costeggiava, la Piazza con i portici e le sue persiane tutte in fila, lasciavano intuire un'altra città indaffarata nelle partenze, che nutre nel suo antro un Mare aperto e partorisce ricognitori, dominatori e massacratori. Mathieu immaginava, dietro la Piazza, un affastellarsi di vicoli e carrugi tremolanti nell'odore aspro delle focacce farinose spalmate di miele di campagna nero e amaro, un carosello di scalinate pavimentate in legno e di portoni dipinti di rosso e di blu maiolica, e poi forse una casa, di cui nessuno aveva indovinato che sarebbe diventata un ombelico del mondo, sì, uno di quei centri innominati del Creato, perché un bambino sognatore aveva incollato l'occhio ad apparecchi di cui non conosceva ancora l'uso, e forse aveva pensato tra sé: «O lira di bronzo e di vento, nell'aria lirica delle partenze...».

Ma dietro la Piazza di Vernazza non c'era che una strada dritta che saliva verso il sentiero di montagna e due viuzze che serpeggiavano di traverso fino alle alture da cui la Torre del Commendatore da un lato, e i bastioni verdeggianti dall'altro, guardavano senza slancio né desiderio verso il mare e il suo assalto di onde, con, a destra, il sogno fattosi palazzo di Monterosso e a sinistra l'invisibile attrazione principesca di Portovenere. Vernazza, come tutte le città d'Italia di cui era una riduzione così familiare, sposava miracolosamente il naturale e la pietra, la vigna o l'ulivo con i tremolanti boschi anneriti sotto volte inquietanti. Mettete in conto allora la difficoltà d'accesso, l'assenza di visitatori, le ronde sacre dell'aperitivo, le partite a scopa e tressette, la passeggiata del dopocena sul molo, le nottate in un angolo della Piazza. Come sperare di trovare lì «quella persona, forse una donna un uomo un vecchio un bambino», un tempo annunciata da Longoué il quimboiseur nella campagna della Martinica? Era follia.

Tuttavia, Vernazza, quarta delle Cinque Terre (venendo da sud, e seconda, scendendo da nord) era anche un recinto misericordioso e pagano, che la chiesa sul Iato destro della Piazza, dietro gli scogli, non segnava con nessuna unzione particolare.

Mathieu non si era quindi mai chiesto perché Vernazza. Dove aveva incontrato i suoi amici italiani? E perché l'Italia? Solo molto più tardi nella sua vita si sarebbe posto domande così fugaci (scoprendo per esempio che sembravano esistere due tipi di amanti di paesi, quelli che amavano l'Italia e quelli che amavano la Spagna, due categorie a prima vista inconciliabili; come pure d'altra parte gli italiani considerati francofili, di cui un numero crescente si sarebbe stabilito a Parigi, sarebbero rimasti sospetti agli occhi dei loro connazionali). Questo «gusto» per l'Italia era sorprendente in un «isolano» (ah! – la teoria così comoda delle «isole!» – Ma c'era poco da dire, Mathieu si sentiva a suo agio in quel cliché) – e d'altronde, chi se ne preoccupava all'epoca? Eravamo ben prima del movimento del mondo. Tutti quei paesi alla rinfusa sulla faccia nascosta non avevano ancora rivelato le loro miserie; né la radio prima né la televisione poi li avevano ancora catturati nelle loro onde sonore e visive; non c'era ancora quel tipo di logica (dell'emergere di una faccia nascosta della Terra) che, a Vernazza o altrove, facesse muovere cose e gente. In quel breve intervallo che aveva definitivamente confermato la fine della Guerra mondiale, era come se i reduci si fossero messi d'accordo, almeno in quei luoghi benedetti d'Europa, per un attimo di respiro o d'immobilità, prima di ingranare un'altra marcia. Eh sì. La velocità terribile non aveva accelerato la miseria e la dannazione del mondo, e le infelicità gemevano nell'ombra. Nel frattempo, c'era ancora spazio per l'antica logica e il vecchio sogno... Partoriti lì a Genova, città nutrice, conosciuta e sconosciuta. Conosciuta, grazie a quella casa che Mathieu non aveva ancora avuto occasione di vedere neanche da lontano, dove il pensiero della totalità del mondo era cresciuto nei sogni di un bambino. Sconosciuta, perché non era dalle sue banchine, dalle sue facciate, dalle sue grandi finestre ormai cieche, che era risuonata la partenza, che aveva fatto di quel sogno una conquista spietata.

Su Genova si va aprendo il prato delle campane d'avventura...

Suonava e risuonava quella logica dell'altro capo del mondo, quella continuità ancora in atto – dell'avventura e della scoperta– per cui, in quell'anno 1953, Vernazza era stata «scelta» – per un'esplorazione immobile, senza spostamento nell'ignoto né conquista di territorio – forse perché, per il suo isolamento, le difficoltà d'accesso, il ritmo così autonomo della sua esistenza, rappresentava veramente, senza che nessuno ne fosse consapevole, l'altro capo del mondo: un'isola risparmiata nel naufragio di ogni cosa, una punta isolata verso il largo.

Per Mathieu – che non aveva conosciuto gli astrolabi, né alcun altro strumento di navigazione, e per il quale ogni città italiana, grande o piccola, evocava per prima cosa non le pale d'altare né il Quattrocento, Raffaello o Michelangelo, ma Colombo e la Santa Maria (Spagna e Italia mescolate, prima che fossero separate così nettamente nella sensibilità di tutti tanto che sembrava non si potesse frequentare l'una senza essere insensibili all'altra) – Vernazza era quindi, fino alla vertigine, e in scala minore, la città all'altro capo del mondo, Genova, una città dell'inconscio, situata come un isolotto in quell'intervallo di immobilità dove il mondo tratteneva il respiro prima di ingranare ancora una volta la sua marcia ineluttabile.

Chi aveva «scelto» Vernazza?

L'immobilità stessa. L'assenza di ogni velocità, la calma piatta prima del ciclone – in cui un martinicano (come fosse uscito chino dalle Abitazioni e dai villaggi assolati dove la lamiera stava a poco a poco sostituendola paglia sui capanni e le vecchie tegole rotte sui tetti delle case) aveva potuto incontrare, senza che nessuno ci facesse caso, dei giovani che andavano matti perla pittura, si emozionavano per i propri quadri – che ovviamente sarebbero stati tutti capolavori –, e sognavano – se questo è sognare – non Colombo né la Santa Maria, ma Piero della Francesca o Botticelli, argomentando pure (per farsi coraggio) che si trattava di cose superate, che sarebbe stato il caso di andare oltre, e che l'Italia non era solo un museo.

Non c'era, per di più, che quell'Italia lì non aveva saputo avviare alcuna colonizzazione seria e, diremmo noi, approfondita, nel mondo e che il massacro dell'Etiopia da parte di Mussolini appariva ancora, non tanto l'impresa inarrestabile di una potenza sicura della propria forza e del proprio diritto, quanto la reazione crudele e sadica di un debole che cerca uno più debole di lui al solo fine di rassicurarsi? In verità, la miserabile conquista dell'Etiopia non aveva niente che potesse ricordare le marce ineguagliabili delle legioni romane del vecchio tempo andato. Le sofferenze degli etiopi avevano finito per aprirsi un varco nel fragore del mondo. Ma il loro peso non aveva gravato sugli italiani – sui giovani – che le dimenticavano, a quanto pare, a piacimento. Quello è un popolo che coltiva lo scarto e l'ironia – salvo quando si tratta di sport, ovviamente.

Ogni sera, dopo gli spaghetti ai frutti di mare serviti da Franzi, sistemavano al centro della Piazza tutto l'armamentario necessario a disputare il Giro d'Italia. Un tappeto di fogli attaccati l'uno all'altro, con decine e decine di caselle che si stagliavano su uno sfondo di laghi, spiagge montagne, disegnati da quegli amici che, chissà, erano tutti pittori. Sandro e suo fratello Guido, Emilio, anche poeta e romanziere, Cesare e Valerio, il più giovane. Adriana, Antonia, Monica, che non erano di certo le meno accanite al gioco. Mathieu, lui, garantiva le radiocronache, sempre partigiane e fantasiose, e capitanava nel contempo una delle squadre. Un privilegio che gli altri gli avevano concesso, perché era l'unico non italiano del gruppo e la sua parzialità non aveva alcuna conseguenza.

I piccoli ciclisti di zinco usati per il gioco erano dipinti coni vari colori delle squadre: dell'Italia, con Coppi e Bartali, – della Francia, con Bobet e Géminiani, – della Svizzera, con Kübler e Koblet, – della Spagna, con Jiménez e Bahamontes, e così via, in ragione di quattro corridori per squadra, – c'erano poi sempre anche uno o due gregario portatori d'acqua. Mathieu aveva scelto una squadra internazionale (con Charlie Gaul e Apo Lazaridès, due scalatori di classe) mentre Cesare, da sempre considerato francofilo, guidava proprio la squadra francese, fra gli schiamazzi dei suoi amici. Verso la metà delle vacanze, Mathieu creò una squadra della Martinica, con Pimbois e Caristan, che ovviamente gli altri non conoscevano, squadra nella quale inserì, con un artificio piuttosto singolare, Lapébie e Vietto, il campione patetico, suo preferito. Volle in seguito ingaggiare una squadra del Brasile, ma mentre conosceva i calciatori, non sapeva niente dei ciclisti brasiliani.

Un dado lanciato a turno decideva l'avanzata dei corridori. Un sei: foratura, e si restava sul posto, a meno che un gregario zelante non vi cedesse la sua ruota, cioè il suo turno. Si poteva andare in fuga, staccare, dandone l'annuncio prima di tirare, il che consentiva di avanzare di un numero doppio di caselle. C'erano zone dì montagna, di pianura, di discesa e di arrivo, con regole di conteggio: semplice per la montagna, dove tutti faticavano, doppio per la pianura dove si pedalava a tutto spiano, triplo per le discese e gli arrivi, dove si scendeva a folle velocità e si pedalava con rabbia.

Lungo il nastro di carta che correva sui cavalletti disposti in mezzo alla Piazza, il lago di Garda, il Duomo di Milano, il Foro o le gondole di Venezia esibivano i loro colori subito sbiaditi ma sempre stravaganti, tra cui dominava tuttavia l'ocra delicato degli antichi palazzi romani. Gli amici avevano dipinto tutti i possibili stereotipi in quei paesaggi. E li avevano popolati di animali fantasmagorici, anatre con una sola zampa, cavalli a geroglifici, giraffe attorcigliate.

Ogni corridore, figura ansiosa o esultante, paziente o irascibile, disponeva di tre sprint. Previo accordo preliminare si formavano dei gruppi compatti, e il concorrente meglio piazzato davanti, senza caselle tra sé e i compagni, poteva allora trascinarseli dietro, nella fortuna o nella caduta. Un Gran Premio della montagna consacrava il primo sui colli. L'intera Vernazza, città in miniatura, si appassionava ogni sera per il Giro, la Piazza era un paese, i movimenti di folla, i partiti presi, le opinioni, le intolleranze, e i clamori vibravano sotto i portici quando Cesare, quasi al traguardo, e dopo aver annunciato un trionfante «stacco!», tirava il sei della foratura.

Emilio aveva inventato il gioco, ma tutti, a mano a mano, avevano perfezionato il regolamento, a causa, occorre dirlo, delle tante contestazioni. Era un'opera collettiva basata su interessi privati, ognuno aveva suggerito la nuova regola che avrebbe potuto tirarlo fuori da una situazione difficile. Ma il risultato era li, un gioco completo che attraversava con l'immaginazione un paese ideale.

Una traversata d'altro genere portava a quegli scogli surriscaldati che sobbalzavano sotto i tunnel della ferrovia, unico accesso a Vernazza. Tagliare per la piccola baia significava dapprima sfidare le larghe meduse ovviamente gialle e blu, ma anche quelle rosse e viola, che a tratti, impossibile prevedere quando, galleggiavano in mezzo alla distesa d'acqua, a dieci o quindici centimetri dalla superficie: sembravano quelle mine che avevamo visto cercare sulla strada dei convogli nei film di guerra. Mine viventi, frementi sanguisughe, le cui lente pulsazioni attiravano come calamita. Mathieu e i suoi amici, muniti di maschera e pinne, precedevano nel campo di meduse i ragazzi di Vernazza, ottimi nuotatori ma che avanzavano alla cieca, e indicavano loro i punti dove le meduse si erano piazzate.

I giorni in cui non apparivano, Franco, Pino e gli altri andavano avanti, gridando sull'acqua: «Non ci sono, non ci sono!». Pino chiedeva serio a Mathieu, una volta sdraiati sugli scogli roventi, e ripeteva quasi ogni giorno la domanda: «Dimmi, Mathieu, per caso vengono dalle parti tue, le meduse?».

Mathieu capiva la domanda, e che non aveva niente a che fare con le meduse. Era solo un segnale per indicare un'altra cosa. Come il Giro d'Italia, che era innanzitutto il luogo dell'amicizia, anche se le passioni erano feroci. E in forza di quel pensiero dell'altro capo del mondo la cui logica, noi diremmo la poetica, guidava in quel momento non solo l'immaginazione di Pino ma anche l'immaginario di tutti quanti gli altri. Perché la vera domanda era questa: «Dimmi, Mathieu, qual è il mistero, o la felicità che viene da laggiù, e che tu sicuramente conosci poiché sei venuto qui?...».

E Mathieu che cominciava ad avvertire che quella logica sarebbe stata presto sostituita da un'altra, forse da quella di tutti quei paesi sollevati dalla fame e dall'oppressione e dallo sterminio – ma che non sarebbe stato in grado di comprovare quel presentimento – rispondeva a Pino: «Vedi, Pino, le meduse nuotano ovunque nel mondo, scelgono i posti dove i ragazzi girano intorno a loro, le meduse non hanno paese d'origine, non prediligono né i mari caldi né le acque grigie, né gli abissi profondi né le spume che volteggiano nell'aria». Volendo spiegare, forse a se stesso oltre che a quel ragazzo magro e spigoloso e quasi nero di pelle, che non c'era più l'altro capo del mondo e che presto non ci sarebbe stato più un centro da cui partire verso strane e fantomatiche periferie.

«Non è vero!» gridava Pino, e si tuffava nel mare ripulito dalle meduse.

Ma un giorno che Mathieu attraversava da solo, un'onda gli strappò la maschera mentre tre meduse convergevano su di lui, e una (in un lampo gli sembrò che fosse quella viola, uno degli estremi di quell'arcobaleno di colori che guizzavano nell'acqua) gli sferzò il petto e vi impresse un sigillo di dolore che conservò a lungo. Urlò nel suo italiano approssimativo – proclamava che era un piacere storpiare coraggiosamente la lingua italiana, mentre dover sillabare noiosamente l'anglo-americano lo impietriva – ma quel giorno ogni piacere era morto nel suo grido: «Sono battuto delle meduse!» – espressione che divenne rituale in quel gruppo di amici e che tutte le ragazze, Giovanna, Adriana, Monique, gli cantavano a volte stringendolo in un moltiplicarsi di braccia. «Non siete altro che donne-meduse», diceva loro dibattendosi. E le ragazze riprendevano in coro: «Sono battuto delle meduse!».

I modi più sereni regolavano i rapporti tra ragazzi e ragazze, coppie occasionali o fisse. Cesare faceva una corte che tutti ritenevano senza speranza (non consentendo un solo mese e mezzo di vacanza un futuro durevole) a una giovane della strada di sopra che la madre non lasciava mai sola. Ogni fine pomeriggio facevano la loro passeggiata sul molo, cinque volte andata e ritorno, Cesare e la sua compromessa, che non si toccavano né si guardavano, la madre dietro che sorvegliava. Quando incrociavano il gruppo, ognuno stava molto attento a salutare con aria seria, cercando di nascondere al meglio i sorrisi.

Il che ricordava a Mathieu gli instancabili «sali-scendi» sul viale centrale della Savane a Fort-de-France, i giovedì e le domeniche pomeriggio: le ondate assai burrascose dei ragazzi che incrociavano in un sapiente movimento le ondate fruscianti delle ragazze; e tutto quel linguaggio convenzionale degli occhi e delle movenze: e, per esempio, quell'amico che si ostinava a fare soste interminabili (le chiamavamo «plotoni») sotto le finestre della pensione dove alloggiava Thérèse – lei appariva di tanto in tanto a una delle finestre, ma sempre accompagnata da altre ospiti –, di cui era ostinatamente innamorato, ma di cui non seppe mai, perché non osò rivolgerle la parola, il cognome. Il molo di Vernazza era di quel genere, che non mescola volentieri i generi.

Una sera, una signora – gli sembrò che fosse una signora – si sedette vicino a Mathieu, sul parapetto del molo.

– Mi chiamo Amina, disse, vi ho osservato, siete piuttosto triste e solo, fra i vostri amici.

– Mi chiamo Mathieu Béluse, e vi sbagliate, non sono né triste né solo.

– Sono sicura di non sbagliarmi. Mi dicono che venite dalla Martinica e che vivete a Parigi. Siete doppiamente fortunato.

– Rho!» disse Mathieu.

Non gli piaceva che si frugasse nella sua vita, le sue origini, i suoi gusti o le sue infelicità. Apprezzava la compagnia della gente purché un margine d'ombra la separasse da lui. Non era curioso di sapere niente più di quanto la gente desiderasse dire, ed era a disagio che si sapesse – di lui – più di quanto apparisse sul momento. Forse gli dava anche fastidio che lo si potesse collegare, seppure alla lontana, con quel che sapeva della canzone di Joséphine Baker, ho due amori, il mio paese e Parigi, e tutto il resto. L'erranza è dura da vivere. (…)


(Brano tratto da Tutto-mondo , a cura di Marie-José Hoyet, edizioni Lavoro, Roma, 2009.)





Nato nel 1928, Ιdouard Glissant, è tuttora un attivissimo intellettuale e professore universitario. Romanziere, poeta, saggista, ha scritto anche pièce teatrali. La sua formazione di filosofo e la sua eccezionale cultura rendono ogni sua opera un complesso coacervo di elementi disparati che si inserisce in una fitta rete di riferimenti. Politica e letteratura entrano in relazione per Glissant, che dall'inizio della propria attività ha preso le distanze dalla negritudine teorizzata da Aimé Césaire (suo insegnante al liceo). Insignito di numerosi premi letterari, questo scrittore ha anche fondato l' Institut martiniquais d'études , e diretto il Corriere dell'Unesco.


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