STRANI GLI OGGETTI


Anna Vezzoni

 




Oggi gli occhi della mia bambina percorrono la casa, stanza dopo stanza, scrutando sopra i mobili, dentro gli sportelli, in cerca.

"La maestra ha detto che dobbiamo descrivere un oggetto."

"Che tipo di oggetto?"

"Ha detto solo che deve essere un oggetto strano" ed è partita in caccia.

Rumore di passi piccolini, sportelli aperti e chiusi, qualche uffa, poi arriva in cucina, con occhi ansiosi, e subito vedo il suo dito che si alza, che punta: "E quello cos'è?" "È un vecchio macinino da caffè", che oggi è nella vetrinetta della mia cucina, dopo essere rimasto a lungo nella soffitta dei miei genitori, che la svuotarono anni fa, quando rifecero il tetto della casa, e in quell'occasione gettarono via tanti oggetti della loro giovinezza. Ne salvai alcuni, pochi. Tra questi il macinino. "Oggi non si usa più, ma lo usavano ancora i nonni, perché una volta il caffè si comprava in chicchi e bisognava macinarlo con il macinino."

Lo prendo, lo metto sul tavolo e Silvietta lo afferra, lo rigira, lo guarda di sopra e di sotto. È un cubo di legno color miele, piccolo, circa quindici centimetri di lato, "nell'interno si muove il meccanismo che macina il caffè. Vedi, sulla sommità c'è questa cupoletta di metallo colorato di rosso, che si può aprire, (e Silvietta la apre, capisce subito anche il sistema di fermo, con un gancio minuscolo per mettere dentro i chicchi da macinare azionando la manovella, questa, che esce dalla cupoletta ed è anch'essa di metallo, verniciato di nero). All'estremità questo piccolo pomo di legno scuro serve ad impugnarla (e Silvietta la impugna, gira gira e si diverte, con le sue risatine). Girando la manovella si aziona il meccanismo per trasformare i chicchi in polvere di caffè, che si raccoglie in questo cassettino, vedi, qui sul davanti del cubo, anch'esso con un piccolo pomo di legno scuro per aprirlo (e anche questo viene aperto, estratto, guardato di sopra e di sotto, percosso con un cucchiaio per sentire se suona, ma non suona bene: il cassettino internamente è in metallo, dal colore e dal rumore sordo si direbbe alluminio). Sopra il cassettino è fissata questa etichetta, in metallo nero, ci sono due lettere, DP la marca. Aprendo la cupola rossa o il cassettino si sente ancora, dopo tanti anni, un odore di caffè, che ha impregnato il legno (e Silvietta avvicina il suo naso ed annusa, con gli occhi chiusi, l'espressione severa, da intenditrice)".

"Perché lo tieni, se non serve più?"

"È un oggetto che trovo bello, per i colori, per la pulita delle linee, per la forma."

Silvietta mi guarda scettica. Ha ragione, non è solo per questo che il macinino sta lì, nella vetrinetta. Questo macinino compare in una delle poche foto dei miei genitori nei primi anni del loro matrimonio. La cerco nell'album, e la trovo, per mostrarla a Silvietta. È una foto piccolina, ingiallita dal tempo: il bianco e nero è diventato un beige-seppia. Fu scattata da una vicina, una villeggiante milanese, nella prima estate vissuta dai miei come moglie e marito: era il 1953. "Vedi, ecco la nonna ed il nonno quando erano giovani."

Sono in cucina, una stanza molto piccola, di cui si vede una credenza bianca e, davanti, accostato alla parete, un piccolo tavolo. Mia madre è come incastrata tra i due mobili, in piedi, sta stirando; si vede poco di lei, è quasi di schiena, con un vestito a fiori, senza maniche, il viso nascosto. Mio padre è in primo piano, seduto su una sedia appoggiata alla parete ed accostata al tavolo, non è di profilo, perché per la foto si è girato un po' in avanti, sta macinando il caffè con il macinino della mia vetrinetta. Sorride, con il bellissimo sorriso che aveva mio padre nelle foto da giovane. Era bello, mio padre, da giovane, e del resto lui e mia madre sembravano tutti e due i personaggi di quei film in bianco e nero tipo Poveri ma belli . Saranno i vestiti, le pettinature, i gesti.

"Era il 1953. Cinquanta anni fa. In casa non c'era la televisione, il telefono, il computer, la lavatrice, il ferro da stiro a vapore."

Silvietta tiene la foto ben stretta tra le sue dita lunghe e forse non crede a quello che le dico. E invece mio padre andava a lavorare in bicicletta (dieci chilometri ad andare, dieci a tornare e in mezzo anche dodici ore da operaio marmista) tutto l'anno, anche in inverno. Lo pagavano a settimana. Mia madre faceva la spesa giorno per giorno nella bottega vicino casa: c'era ancora una decina d'anni dopo, quando la ricordo anch'io. Quasi tutti i prodotti erano conservati nei sacchi, per terra, o in grossi barattoli di vetro. Il bottegaio ne prendeva un po' con i misurini, più o meno grossi, di legno o di alluminio, e li pesava, su fogli di carta gialla che poi accartocciava ad arte. D'inverno l'olio diventava solido per il freddo e veniva impacchettato nella carta bianca traslucida. Anche il caffè si comprava così.

"La nonna comprava mezz'etto di caffè in chicchi: chi chi chi sulla bilancia, poi il cartoccio. Lo macinava poco alla volta, giorno per giorno, per fare il caffè nella napoletana d'alluminio, un caffè pieno di profumo che aleggia ancora nel legno del macinino. E raccontava la mia nonna, eccola qui, in questa foto, però qui era già vecchia, che ai suoi tempi, quando la mia mamma era bambina, il caffè non si trovava e si usavano i surrogati, ad esempio l'orzo. Lei lo comprava dal contadino, ancora da tostare. Allora, oltre al macinino, c'era anche un altro arnese che serviva per tostare, che è come cuocere." Lo chiamavano brillino ed era simile ad una grossa bottiglia in latta, con un gancio per appenderlo sul fuoco nel camino, una manovella per farlo girare e muovere i chicchi d'orzo ed uno sportellino per mettere e togliere i chicchi e anche per controllare che non bruciassero.

“Allora non c'era neanche la radio, almeno non nelle case della gente comune, si stirava con le piastre scaldate sul fuoco, non c'erano i fornelli a gas ma il fuoco a legna. Per preparare il caffè per la colazione la mia nonna doveva accendere il fuoco, attingere l'acqua, tostare l'orzo, macinarlo, mettere sul fuoco la napoletana, toglierla e rovesciarla al momento giusto... e la napoletana d'alluminio, almeno ogni tanto, andava lucidata. Erano gli anni Quaranta, in un borgo della Versilia storica. La mia nonna sapeva a malapena leggere e scrivere, ma, anche se avesse voluto, non avrebbe avuto il tempo per fare la scrittrice.”

La mia bambina ha ascoltato con gli occhi spalancati, non credo che abbia capito tutto, ma è pronta per scrivere il suo compito su questo macinino, un oggetto strano ed anche un po' magico, che le ha fatto ritrovare vecchie foto con volti che non riconosce, ma che sono impastati nel suo e prima ancora nel mio.


(Tratto dalla raccolta Figlie con e senza madri , Florence Art Editioni, Firenze, 2008.)





Anna Vezzoni è nata a Pietrasanta, in Versilia. Nel 1999 è uscita la sua raccolta di racconto Anime d'ali strappate. Figli con e senza madri riunisce i testi scritti dal 2000.


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