LA NOIA DEL '937

Vitaliano Brancati



Chi non conosce la noia, che si stabilì in Italia nel 1937, manca di una grave esperienza che forse non potrà avere più mai, nemmeno nei suoi discendenti, perché è difficile che si ripetano nel mondo quelle singolari condizioni.
Non che tutti in Italia si annoiassero, o almeno credessero di annoiarsi. La maggior parte anzi credeva il contrario, di star bene o addirittura di essere felice. I giovani, nati dopo il '15, non ricordavano una società diversa dalla propria; i vecchi, avviliti perché vinti , erano creduti soltanto quando non credevano più ai loro ideali, sicchè essi dovevano mentire per acquistarsi la reputazione di veritieri. Le donne poi, casalinghe contente che i loro mariti non fossero distratti dalla politica, le corrotte che i loro amanti non fossero indeboliti dal pensiero o resi freddi dagli ideali, aiutavano in tutti i modi a tenere in piedi l'inganno. Sì, erano felici! Come, non erano felici? Chi è quel pazzo che sostiene che non siamo felici? Perdio, che bei tempi! Tempi meravigliosi!...I giornali, approfittando di tanta ingenuità si buttavano a domandare: "perché siete contenti di vivere nella vostra epoca?". E i lettori su a rispondere con un sacco di ragioni.
Eppure sarebbe bastato che, dal mezzo di un giardino popolato di persone che si ritenevano felici, erompesse una risata dei vecchi tempi, una di quelle risate squillanti, energiche, di autentica e personale gioia, perchè tutti trasalissero di stupore, d'invidia e infine di vergogna, come un'accolta di suonatori stonati alla pura arcata di un Paganini.
La noia era grande. Non si poteva sfuggire alla brutalità senz'annoiarsi mortalmente. La vita dell'uomo onesto e, naturalmente, appartato e solitario, mandava di notte e di giorno il sottile stridio di un vecchio legno intarlato.
Proprio in quel periodo, capitò a Caltanissetta, e alloggiò nell'unico albergo riscaldato della cittadina, un uomo di appena trent'anni, chiamato Domenico Vannantò. Era alto, magro, il viso affilato e pallido sarebbe stato perfino tagliente se una luce ancora più pallida , piovendogli dagli occhi, non ne avesse estenuato gli zigomi e il mento, e sostituito la durezza con la stanchezza; quando camminava, teneva sempre una mano sul dorso, una mano che si serrava e si apriva di continuo, ciascun dito lottando con gli altri, specie il pollice che, dopo essersi cacciato fra l'indice e il medio, fra il medio e l'anulare, fra questo e il mignolo, soccombeva nella stretta dei suoi vicini e nemici.
Solo chi gli andava dietro, e osservava attentamente quella mano, poteva vantarsi di conoscere la qualità più delicata e repressa di Vannantò: i nervi e l'inquietudine, perché nel resto della persona egli era ineccepibile. Chi gli sedeva accanto o di fronte, s'ingannava profondamente sull'indole di lui, al punto che persone colleriche, smaniose o irruenti, ma in sostanza poco sensibili, si riconobbero spesso il diritto d'invidiarlo: "Beato Lei, beato Lei che non ha nervi!".
Nel'37, come abbiamo detto, Vannantò, tornando da Roma, ove aveva perduto la prova scritta di un concorso, per esservi arrivato con un giorno di ritardo, si fermò a Caltanissetta, all'albergo Mazzoni. Vi si fermò col proposito di passarvi una giornata, ma sulla fine di febbraio erano già venti giorni ch'egli appariva, al tocco in punto, nella sala da pranzo dell'albergo, facendo tacere la vasta tavola a cui sedevano i giudici del Tribunale, il Presidente e il Pubblico Ministero, questi due ultimi con la zucchetto in testa e lo scialle addosso, la cui frangia andava continuamente a pescare nel fondo dei piatti e dei bicchieri. Tacevano, ma per un minuto, e subito riprendevano a tuonare, come se gettassero tutta l'eloquenza avvocatesca ch'erano stati costretti a ingoiare la mattina. Assordati dalle proprie parole, accecati dai propri argomenti, essi non prestavano più attenzione ad alcuno, e Domenico Vannantò, che, poco prima, sentendosi guardato da tanti occhi, aveva stabilito di lasciare subito Caltanissetta, tornava sulla sua risoluzione e stabiliva di rimanere ancora un giorno.
Vannantò, se fosse vissuto nel'700, sarebbe stato un pensatore, e avremmo letto di lui un qualche articolo nella vecchia Enciclopedia; se fosse vissuto nell'800, sarebbe stato un poeta, e avrebbe combattuto per l'indipendenza greca; vivendo in Italia nell'epoca in cui gli era toccato di vivere, e avendo trent'anni nel '37, faceva l'unica cosa nobile che potesse fare un uomo come lui: si annoiava.
Ma come? Si dirà, un rimedio alla noia si trova sempre! Perché non lavorava?
Il lavoro, a quei tempi, si riduceva a un compito da eseguire: Vannantò ne aveva ripugnanza.
Perché non meditava?
Nella fanciullezza e nell'adolescenza, aveva molto meditato,e l'aria del suo viso era stata quella di un ragazzo a cui dolesse fortemente il capo: il pensiero della morte lo aveva estasiato a tal punto da togliergli il respiro, come un vento piacevole, ma che troppo crescesse di rapidità e violenza; i suoi mattini più felici erano stati quando si svegliava dall'aver sognato che uno sforzo fortissimo, quasi sanguinoso, della memoria gli aveva riportato un ricordo dell'aldilà, di prima della nascita, ricordo che di nuovo s'era perduto, ma della cui dolcezza gli rimaneva una lacrima fredda all'orlo dell'occhio; una testa di lupo, premendo dall'esterno il vetro della finestra, non gli avrebbe dato il batticuore che gli dava, in quello stesso vetro, un cielo stellato; rimasto solo in un giardino, dopo essersi guardato attorno come chi si accinge a rovistare i cassetti in casa d'altri, s'inginocchiava davanti ad un cespuglio, v'immergeva la mano, li braccio, e si dava a frugare e tastare in tutta fretta, sperando di premere per caso, in qualche ramo o sassolino, il tasto segreto dell'universo, per il quale si spalancasse la porta del mistero e gli angeli vi apparissero gloriosamente; poi a scuola, le prime notizie scientifiche sul moto di rotazione terrestre, le aveva prese tanto sul tragico da guastarsi il piacere di veder sorgere e tramontare il sole come gli altri uomini sogliono vederlo comunemente; e di un tramonto egli vide, non più l'apparenza, ma la realtà vertiginosa: il lato occidentale della terra si avventava sul sole, lo copriva, lo nascondeva, il lato orientale, invece, precipitava lasciando scoperto un cielo bruno, poi nero, e tutto l'orizzonte si rovesciava come un gran piatto dalla parte della tenebra…ma alla fine questi pensieri e sogni e sensazioni gli si aggrovigliarono in tal modo ch' egli disse: "Basta! Non sono un bambino! Sono un uomo!", e pagò caramente l'aver meditato sul mistero dell'universo da bambino perché gli rimase il sospetto che il meditare su quell'argomento fosse proprio cosa da bambini, per nulla degna di un adulto. La lettura di alcuni filosofi del suo tempo lo confermò in questa supposizione. Egli andò oltre, naturalmente, e smise la meditazione non solo di quell'argomento, ma di qualunque altro di filosofia e scienza; e se talvolta ne era riassalito, il suo cervello ormai l'accoglieva come un principio di stanchezza o di sonno, al quale seguiva o un vago immaginare o il sonno vero e proprio.
E le donne? Perché non si dava alle donne, diamine? Donne ce n'erano, donne non ne mancavano!
S'era dato alle donne…come no?…E con grande piacere le prime volte. Quando "riuscì nel suo intento " con la signora Gallerati, gettò un urlo che fu sentito in tutto il caseggiato. Ma se il piacere gli piacque moltissimo, le donne finirono ad irritarlo. Le ragazze riflettevano, più di ogni altra creatura al mondo, la sinistra luce dei tempi. Frasi sportive o sciocche, modi barbari o indifferenti, s'erano impadroniti di quei corpi delicati. Vannantò perdette le staffe: egli non riusciva a sopportare uno sguardo maschile o stupido in due occhi di fattura quasi divina, né una manata cameratesca da una mano perfetta. La Bellezza, carica com'era di stupidità, gli divenne odiosa: egli prese una cattiva strada, cominciando a trovare voluttuoso il dare sfogo ad uno strano sentimento di vendetta e abiezione; e fuggendo il più possibile dalla Gioventù e dalla Bellezza, andò a nascondere il suo piccolo urlo supplichevole in seno ad alcune donne di cui ci risparmieremo di ritrarre le sembianze e in ogni caso di rivelare l'età. Ma questo non durò che tre anni: la castità più gelida venne a coprirlo dalla testa ai piedi come un sudario. Le donne del resto non lo degnavano di alcuna attenzione: alla sua persona alta e magra, il suo sguardo lento e chiuso, che nell'800, col solo apparire in una sala, avrebbero fatto steccare una fanciulla che cantasse, non piacevano nel'937, bastava che gli sedesse accanto un giovane dalla testa rapata, le spalle quadre, macinando un bocchino fra i denti scoperti dalle labbra sprezzanti, perché una ragazza non rispondesse più ai suoi molti saluti, talmente le diventava invisibile.
Se odiava la tirannide, perché non sparava?
Contro chi, avrebbe dovuto sparare? Giudicava che la tirannide avesse tante teste quante la servitù; che caduta la prima, tutte le altre, che le sonnecchiavano dietro, si sarebbero svegliate e rizzate più cupe che mai. "La tirannide non si uccide!", soleva dire. "Si uccide la servitù! Ma io incontro, in ogni passeggiata, non meno di mille facce servili: non posso uccidere mille persone alla volta!".
Avrebbe potuto fare un bel gesto, ne conveniamo. Ma le parole "bel gesto" con quell'aggettivo tronco bel le reputava adatte piuttosto ad una donna che a lui: un bel gesto era una vanità di cui soltanto una persona vanitosa avrebbe trovato gusto ad ornarsi. Se egli lo avesse compiuto, la moltitudine lo avrebbe biasimato, questo non gli importava gran che; ma ne avrebbe anche riso, e questo gli importava molto, perché quell'infinito riso di sciocchi e di servi gli pareva il meno atto, tra i rumori del mondo, a lasciarlo dormire quietamente nel fondo della tomba, in cui di sicuro il bel gesto lo avrebbe gettato.
Insomma non gli restava che annoiarsi, annoiarsi nei modi più strani e diversi, ma unicamente annoiarsi. E questo egli faceva, passando da una noia avida e feroce, che divorasse quanto c'era all'intorno di odioso, a una noia sorda e plumbea, in cui si spegnesse, come grido nella nebbia, quanto c'era di vanitoso e petulante, a una noia lugubre e nera che avvolgesse, nel pensiero castigatore della morte, quanto c'era di stupidamente giulivo. Gli altri credevano di agire, ed egli si annoiava; gli altri credevano di godere, ed egli si annoiava. Gli si annoiava quasi in faccia, con la cattiveria di chi sbadiglia sul muso dell'oratore per fargli intendere chi dice balordaggini. Ma anche quand'era solo, il che gli accadeva spesso, e nessuno lo vedeva, quel suo annoiarsi tenace, occulto, profondo gli pareva che lentamente, ma sicuramente andasse consumando tutto e tutti, specie la persona (e in questo non s'ingannava) che più di ogni altra col tempo gli era venuta in fastidio: se stesso.
S'era fermato a Caltanisetta perché aveva subito intuito che qui la noia toccherebbe un punto che altrove non aveva mai sfiorato. La cittadina di Pietragialla, sospesa su una squallida pianura; l'albergo affacciato sulla piccola stazione da cui trenini affaticati gettavano ogni tanto uno stridulo grido; i portoni chiusi di prima sera, ai piedi dei quali i cani roteavano su se stessi cercando di mordersi la coda; le nuvole che passavano di gran corsa, cacciate da un vento che non aveva tregua; la statua del Redentore in cima ad un colle su cui piovevano gli sguardi dei carcerati dalle finestrine di un casamento livido; le fabbriche di chitarre ai piedi di vecchie chiese, il mantello del federale zoppo nella nebbia del tramonto, gli avvocati che gesticolavano davanti al portone di casa, mentre sul loro capo, stesa a un filo tra balcone e balcone, la loro camicia gesticolava anch'essa; le conferenze sull'impero, le paoline… cosa gli mancava per portare la noia al grado dell'esultanza?
Come un gobbo, a cui venga presentato il più perfetto ed elegante degli abiti da gobbo, Vannantò, nel vedere quella città, ebbe un piccolo sorriso amaro. "Questa va bene!", si disse, e annunziò al portiere dell'albergo che si sarebbe fermato un poco… Che poco! Gennaio passò via, febbraio volò, era già la metà di Marzo e Vannantò non si risolveva ancora a partire. Passava le giornate solo, perché l'unica persona che avesse conosciuto, il Pubblico Ministero, s'era molto scandalizzato nel sentirlo parlare: "Ma perché vi annoiate? Si può sapere per quale ragione vi annoiate? Che vuol dire, scusatemi, che vi annoiate?… La sera, venite a giocare a dama con me!".
Quel buon vecchio del Pubblico Ministero s'era anche provato ad accompagnarlo in una passeggiata serale sul colle del Redentore. Il vento fischiava dentro i loro baveri, e Vannantò pareva ascoltarlo con tanto interesse, ora aggrottando le ciglia, ora storcendo la bocca chiusa, che il compagno non osò disturbarlo con una sola parola. "Siete poco loquace!", gli disse per giunta Vannantò, alla fine della passeggiata, "Il diavolo che ti porti!", pensò il giudice. "Io parlo dalla mattina alla sera! Sei tu che fai cascare la parola di bocca!".
Vannantò era tornato a passeggiare solo. Leggeva poco, non scriveva nulla, osservava con attenzione cupida e vuota l'ultima mosca letargica che gli volava a mezz'aria nella camera, passeggiava… Chi sa quale poeta o eroe o filosofo moriva in lui piano piano, durante quelle passeggiate che lo riportavano diecine di volte davanti al medesimo specchio lesionato del corso, ove sempre, malgrado i giuramenti di non farlo più, apriva le labbra e si guardava i denti?
Una mattina, la noia gli parve così insopportabile che ne parlò in un telegramma scherzoso ad un amico.
Due giorni dopo, fu bussato alla sua camera.
Vannantò, in quel momento, sedeva accavalcioni su una sedia, poggiando le braccia su una spalliera, sulle braccia il mento, e guardando torpidamente la porta e il muro bianco.
"Chi sarà mai?", si domandò, e non aveva ancora terminato di domandarselo che uno sconosciuto entrò lesto lesto e rinchiuse la porta dietro di sé.
"Siete voi Vannantò Domenico di Pietro?".
Vannantò era così annoiato che la novità, invece di scuoterlo, parve addormentarlo maggiormente come un fastidio che gli portasse al culmine la stanchezza. "Sono io!", mormorò.
L'altro, con un fare sfacciato e confidenziale, si era seduto sul letto, e alzando un ginocchio per appoggiarvi un quaderno sul quale era pronto a scrivere, e scuotendo in aria la matita, domandò: "Posso darvi un consiglio?".
Vannantò non rispose nulla, ma il suo occhio, risalita lentamente la persona dello sconosciuto, gli arrivò in faccia così pieno di disgusto, che l'altro cambiò tono.
"Dunque", disse, "perciò…". Tossì due o tre volte, cavando dalla raucedine una voce sempre più severa. "Dunque, egregio camerata, è vostro il seguente telegramma? Spero rivederti Roma… eccetera… partenza rimandata… eccetera… questi tempi noiosi… ecco, ci siamo! Chi vi ci porta a dire baggianate? Spiegatemi che cosa avete voluto dire con tempi noiosi?"
Vannantò gli tenne a lungo gli occhi addosso, sbattendo ogni tanto le palpebre, come un cane più attento alla faccia di una persona che alle sue ingiunzioni. Finalmente parve svegliarsi. "Chi siete, per favore?", domandò. "Io? Come? Io?". Lo sconosciuto si mise a ridere, poi rovesciò il bavero della giacca e mostrò un dischetto di metallo: "Questura!". Aspettò che il suo gesto avesse un effetto notabile nel viso di Vannantò, ma poiché in quel viso non si disegnava nulla, fece una smorfia e riprese: "Dunque, abbiate la compiacenza di spiegarmi questi tempi noiosi! Cosa c'è, sotto? Chi si annoierebbe? Non vorrete mica dire che si annoiano tutti?". Ci fu una nuova pausa. Poi Vannantò disse: "Come piace a voi!".
"Come mi piace, a me? Come vi piace a voi! E state attento a quello che rispondete perché potrebbero aversi, ehm, mi capite? spiacevoli conseguenze! Dunque", aggiunse, scrivendo a matita con difficoltà, "dunque si annoiano tutti!" Alzò il viso accigliato: "Si annoia anche il popolo?…Certo, anche il popolo… e perché si annoia il popolo?".
"Che ne so io?".
"Andiamo al sodo: non avete voluto per caso fare lo spiritoso, e dare a intendere che il popolo è scontento, il popolo se la passa male, il popolo si annoia perché ha come Capo?...". Il poliziotto si alzò, buttandosi energicamente dietro le spalle la falda della sciarpa che gli pendeva sul petto, "perché ha come Capo Colui che sapete".
Vannantò lo seguì con gli occhi amareggiati senza staccare il mento dalle braccia.
"Ehi, dico a voi! Devo scrivere la vostra risposta!". Il poliziotto tornò a sedere sul letto. "E badate che dipendono da questa risposta le spiacevoli conseguenze a cui mi sono riferito…Dunque, perciò, poche chiacchiere! Perché si annoia il popolo?".
"Vi ripeto: non lo so !".
"Ma siete pronto a dichiarare che esso non è annoiato perché ha come Capo Colui che sapete, e che anzi è felice di averlo, ed è invidiato dagli altri popoli!...Ehi, dico a voi!".
"Ma che ne so io?", ripetè Vannantò, con lo stento di chi è costretto a parlare in mezzo al sonno. "Che ne so io , se è invidiato dagli altri popoli?".
"Qui non si tratta di saperlo o di non saperlo: si tratta di dichiararlo, scrivendo a matita le parole che vi ho detto io e firmandole!".
"Scrivendo a matita…", mormorò pesantemente Vannantò.
"Scrivendo, per esempio, questo: io sottoscritto, ovvero meglio: il sottoscritto Vannantò Domenico Di Pietro dichiara sul suo onore, e conferma… ci mettiamo anche conferma, e conferma che nel suo telegramma mandato all'amico, eccetera, non vuole dire che il popolo si annoia perché ha come Capo eccetera ma per altre ragioni… si annoia perché… anzi: non si annoia…". Il poliziotto era diventato rosso fin dentro gli occhi, una vena scura gli si era gonfiata nel mezzo della fronte e pareva divorargliela piuttosto che alimentarla di sangue. "La frase non va…no, non va ! Rifacciamola da capo: il sottoscritto Vannantò eccetera dichiara che il popolo è felice di avere come Capo Colui che ha è contentissimo dei tempi presenti… Però resta il fatto che voi (vi fosse cascata la mano, quando l'avete scritto!) che voi nel telegramma ci avete messo: Tempi noiosi… dunque perciò bisogna ritrarre questo noiosi e dichiarare che le parole del telegramma vi sono scappate".
Vannantò, che aveva infilato le mani nelle tasche , le tirò fuori indolentemente sollevando un arnese che si appoggiò fra il collo e il mento, e poi d'un tratto fece esplodere con un fracasso che mandò a pezzi il vetro della finestra.
"Ehi, dico a voi: che avete fatto?", urlò il questurino, stravolto dalla paura.
"Credo di essermi ucciso!", rispose Vannantò, col consueto tono di noia, reso leggermente più roco dalla gola sfracellata.



L'autore, Vitaliano Brancati


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