LA FECCIA FUORI DA QUI

Johannes Jansen





-Cosa faresti nel primo giorno della tua vita in cui sapessi di poter fare quello che desideri?

-Oh, io andrei in un’agenzia di viaggi e prenoterei un viaggio da sogno. E tu?

-Mi sparerei.



Premessa

L’isolamento è una pregorativa dell’attuale società. Non esiste pubblico nel malstrom della pubblicità. In termini opposti, è una situazione analoga a quella della DDR negli anni Ottanta. Il pubblico occorre farselo da sé. Reti clandestine formate da ristretti circoli di persone. Carenza e varietà, la stessa dose di esclusione che si cerca testardamente di elaborare. Ecco i motivi di questo testo.

Berlino-Est, 1987. Lasciatomi l’esercito alle spalle, mi addentravo in un terreno brullo, ovvero in un campo di macerie. La maggior parte dei miei amici era già all’ovest, e io non avevo molte possibilità di entrare in comunicazione con qualsivoglia pubblico. Ma dalla prospettiva di oggi si mostra una traiettoria che avverto il bisogno di documentare. Espressione di una biografia tedesca che è ben più di un fronzolo individualista.


Sogno

Sono andato ad abitare con mia madre. Io ho lasciato il mio appartamento, lei il suo. Abbiamo impacchettato in fretta le cose essenziali. Il perché in quel momento non era importante. Aveva il sapore di una fuga.

Percorriamo in tutta fretta viuzze strette, fiancheggiate da orti e case basse di periferia, i nostri bagagli stivati su una piccola carriola. Fa un freddo umido (novembre?), nessuno in vista; mia madre sa la strada.

Ci fermiamo davanti a una baracca d’assi; “siamo arrivati” dice mia madre. La baracca si trova su un campo arato che si perde nella nebbia. Distinguo alcuni arbusti monchi e in lontananza la sagoma indistinta di una torretta di osservazione. Se invece mi volto, vedo la periferia debordante, la fine delle strade.

“Non c’è molto tempo, dobbiamo sistemarci.” Mia madre estrae con furia le cose dalla carriola e le distribuisce senza criterio per la stanza. La baracca vista da dentro sembra più grande che da fuori. C’è la corrente e su una cassa da frutta un bollitore collegato a una bombola rossa di gas propano. Io tiro fuori la macchina per scrivere e la poggio su un tavolino in un angolo. Voglio continuare questo testo.

A un tratto entrano due giovani di circa sedici anni, seguiti da tre ragazzine dai visi impauriti e umidi di pianto. I ragazzi si scusano per il loro arrivo non annunciato, e indicando le tre ragazzine dichiarano cerimoniosamente di portare dall’altra parte persone costrette ad andarsene. Penso a una scena di un film di Chabrol (“Non c’è fuori”). I ragazzi chiedono a me e a mia madre di mostrar loro la strada, dato che non conoscono bene la zona. Mia madre afferma che io potrei accompagnare i cinque, e se una guardia mi avesse chiesto dove eravamo diretti, avrei dovuto rispondere “al quartier generale”; nel frattempo lei avrebbe finito di preparare la casa.

Io mi metto una vecchia uniforme e poi andiamo. Più ci addentriamo nella nebbia, più chiaro diventa il paesaggio; i contorni della torretta di guardia, dietro la torretta un acquitrino, ancora oltre il muro, e dietro al muro alcuni palazzoni, simili a quelli del Märkisches Viertel, i quali tuttavia per la nebbia e l’illuminazione assomigliano a rovine.

Cerchiamo di camminare un po’ curvi per non farci riconoscere dalle guardie. Dobbiamo passare molto vicini alla torretta, quando ce la siamo quasi lasciata alle spalle, una voce: “Venite un po’ qui!” Non ha alcun senso mettersi a correre. Torniamo indietro. Delusione. Paura. La stessa sensazione di un bambino che ha saltato il muro di cinta di un cimitero, dietro il quale lo attende un vecchio con un bastone e la bocca piena di denti d’oro: “Dove volete andare?” chiede una delle guardie dall’alto della torretta. “Al quartier generale”, dico io. La guardia osserva la mia uniforme: “Fammi vedere il tuo documento”. Ho solo una carta di identità, siamo perduti, un soldato con una carta di identità. Malgrado ciò gliela mostro, qualcosa dovrò pur fare. La guardia sembra non riconoscere precisamente il documento. Mi crede, crede che sia un soldato. Sollievo (mai prima di allora ero stato felice di essere identificato come soldato). “E loro?” La guardia indica i miei accompagnatori. “Devono venire anche loro. Hanno informazioni!”

“Bene, se dovete andare al comando, allora potete consegnare qualcosa da parte nostra.” Ci butta un retino per la spesa, con dentro un elmo imbrattato di rosso: “Tanti saluti dalla torretta 3.” Io gli vorrei spiegare la differenza (che non conosco) tra quartier generale e comando, per poter rifiutare la commissione, ma la guardia chiude subito la finestra. I due ragazzi ammiccano in mia direzione: “Andata! Ben fatto, soldato.” Raccolgo il retino e andiamo.

Li accompagno fino al pantano. Da lì devono continuare da soli. Ci congediamo. Dò loro l’elmo rosso: “Per ricordo”, senza evitare di sentirmi in colpa (la guardia si fidava di me e io…).

I ragazzi prendono le ragazze per mano, saltano su una zattera pronta per l’uso e si allontanano. Io saluto le ragazze con la mano e poi torno indietro, facendo un largo giro intorno alla torretta.

Grit è nuovamente tornata. L’Olanda era fredda e umida. Io entro nella baracca. Grit è a letto. Mia madre è sparita. Grit si alza, mi viene incontro. Le chiedo dov’è finita mia madre. “Quando sono arrivata non c’era nessuno” dice. Ci abbracciamo. È tutto perfettamente normale. Lei è cambiata, i suoi capelli sono lisci e più lunghi. “Voglio andare a letto con te” dice. Ci stendiamo, giaciamo uno accanto all’altra, ci osserviamo…

(silenzio)

Vuole tornare da suo marito all’Aja, fa i bagagli, se ne va. Non so se esserne dispiaciuto. Poi vengono alcune tetre vie del quartiere Prenzlauer Berg, illuminate trasversalmente dal sole come le piazze nei quadri di De Chirico.

Siedo da solo a letto, davanti a me la macchina per scrivere. Voglio finire questo testo. Schiaccio a caso i tasti. L’ultima parola dovrebbe essere “verloren” (perso), invece sulla carta resta “verlogen” (bugiardo).

A mano a mano mi avvicino alla cosa. A mano a mano la cosa si dissolve, come nei giorni torridi sull’autostrada, quando pare che in lontananza l’asfalto sia bagnato e quando sembra di aver raggiunto le pozzanghere, esse non ci sono affatto. Un riflesso dell’aria, nient’altro, provocato da forti radiazioni solari. A mano a mano mi avvicino alla cosa. Un’impresa probabilmente senza senso, prigioniera nel paese, in questa lingua, in me.

 



(Dal manoscritto inedito “A mano a mano un film”, del 1987. Traduzione di Antonello Piana.)





Johannes Jansen č nato nel 1966 a Berlino-Est. Dopo una formazione di incisore, negli anni Ottanta si fa notare tra gli autori del samisdat' berlinese del Prenzlauer Berg. Č stato finalista del premio Bachmann (1996) e ha pubblicato numerosi volumi di prosa e poesia, tra gli altri per il prestigioso editore Suhrkamp.          Precedente   Successivo  GEGNER - L'AVVERSARIO     Copertina