EGREGIO SIGNOR CAPODIVISIONE


Franz Werfel


– Brano tratto dal romanzo Una scrittura femminile azzurro pallido

 


(…) Leonida non uscì di casa subito dopo essersi congedato da Amelie. Troppo gli bruciava nella tasca quella lettera che una donna aveva scritto a mano con inchiostro azzurro pallido. Non era sua abi­tudine leggere per la strada lettere o giornali. Per un uomo del suo rango e così ben visto (nel senso letterale del termine) sarebbe stato davvero sconve­niente. D'altra parte, non avendo la pazienza di chi è immune da ogni colpa, non se la sentiva di aspet­tare il momento in cui, finalmente solo e indistur­bato, avrebbe potuto leggere la lettera nel grande ufficio che occupava al Ministero. Fece allora ciò che spesso aveva fatto da ragazzo quando voleva nascondere un segreto, guardare un'immagine la­sciva, per esempio, o leggere un libro proibito. Il cinquantenne Leonida, che in verità nessuno stava spiando, guardò timoroso a destra e a sinistra e poi, non diversamente dal quindicenne di un tem­po, s'infilò furtivo nel luogo più segreto e appartato della casa.

Lì guardò a lungo con occhi atterriti la ripida e severa calligrafia femminile e, seguitando a soppe­sare la lettera, peraltro leggerissima, non si arri­schiava ad aprirla. Con una forza espressiva che di­ventava sempre più peculiare, quei caratteri scarni lo guardavano fisso e a poco a poco riempivano tutto il suo essere come di un veleno che gli para­lizzava il battito del cuore. Neanche nell'incubo più angoscioso, egli avrebbe mai immaginato di poter rivedere la scrittura di Vera. Quale indegno, incon­cepibile spavento lo aveva assalito qualche momen­to fa, quando in mezzo a quel mucchio di posta insignificante si era sentito tutt'a un tratto fissato dalla lettera di lei? Era certo uno spavento che risaliva ai primordi dell'esistere umano. Non può, non deve spaventarsi così un uomo che ha raggiunto la vetta e che è quasi arrivato al termine del proprio cammino. Per fortuna Amelie non si era accorta di niente. Perché quello spavento che egli sentiva an­cora in tutte le membra? In fondo, quella con Vera, non è altro che una vecchia e stupida storia, una sciocca ragazzata che risale a vent'anni fa. Ne ha ben altre, Leonida, di cose sulla coscienza. Nella sua qualità di alto funzionario statale è costretto ogni giorno a prendere decisioni su uomini e donne e sui loro destini, e non di rado si tratta di deci­sioni assai penose e imbarazzanti. Nella sua posi­zione, uno è un po' come Dio. E artefice degli altrui destini. Li mette agli atti. Dalla scrivania delle cose vive li passa all'archivio delle cose liquidate. Col tempo, grazie al cielo, tutto si dissolve perfettamen­te nel nulla. E anche Vera sembrava in effetti essersi dissolta perfettamente nel nulla...

Dovevano essere passati almeno quindici anni da quando lui aveva tenuto in mano per l'ultima volta una lettera di Vera, esattamente come adesso, tra l'altro, e in un posticino non meno angusto. A quell'epoca Amelie era ovviamente dominata da una gelosia senza limiti e nella sua diffidenza subo­dorava ovunque i segni del tradimento. Lui non aveva dunque altra scelta, quella lettera doveva distruggerla. A quell'epoca, s'intende! Altro era il fatto che l'avesse distrutta senza neanche aprirla. Quella era stata da parte sua una miserabile vigliac­cheria, una porcata senza pari. Insomma, in quel momento, il pupillo degli dèi Leonida non volle nascondersi nulla. Quella volta aveva strappato la lettera senza leggerla per il semplice motivo che non voleva saperne di quel che c'era scritto, e anche oggi avrebbe fatto lo stesso, l'avrebbe strappata senza leggerla. Se uno non sa nulla, non può essere chiamato a rispondere di nulla. Ciò che quindici anni fa non ho voluto che penetrasse nella mia coscienza, a maggior ragione non dovrò volere che vi penetri adesso. E una faccenda liquidata, ormai, messa agli atti, una cosa che non c'è più. E mio inalienabile diritto acquisito che essa non ci sia più. E inaudito da parte di questa donna che ancora una volta mi metta sotto il naso il fatto di esistere. Come sarà adesso, che aspetto avrà?

Leonida non aveva la minima idea di come po­tesse essere, adesso, l'aspetto di Vera. E, peggio an­cora, non sapeva neppure come fosse il suo aspetto di allora, quando aveva conosciuto con lei l'unica autentica ebbrezza amorosa della sua vita. Nulla riusciva a rammentare di Vera, non la particolarità dello sguardo, non il riflesso dei capelli, non il vol­to, non la figura. Quanto più si concentrava per evocare in sé quella immagine che così stranamente era andata perduta, tanto più irrimediabile si faceva il vuoto che, quasi a volerlo deridere, lei aveva lasciato dentro di lui. Vera era insomma una specie di fastidiosa e vistosa eccezione nella memoria di Leonida, altrimenti così piatta, ordinata e calligra­fica. Al diavolo, perché tutt'a un tratto lei si rifiu­tava di essere ciò che era stata per quindici anni, una tomba interrata che nessuno riesce più a loca­lizzare?

Con perfida, inequivocabile astuzia la donna che aveva sottratto la propria immagine all'amante infedele materializzava ora la propria personalità nelle poche parole di quell'indirizzo. Erano colmi di una presenza terrificante, quei sottili tratti di penna. Il capodivisione incominciò a sudare. Tene­va in mano la lettera come se si trattasse del mandato di comparizione di un tribunale, o meglio, della sentenza definitiva di questo tribunale. E ad un tratto ebbe davanti agli occhi quel giorno di lu­glio di quindici anni prima, limpido e chiaro in ogni minimo, fuggevole dettaglio.

Vacanze! Estate meravigliosa fra le Alpi a Sankt Gilgen. Leonida e Amelie sono sposati da non mol­to. Alloggiano nel delizioso alberghetto in riva al lago. Oggi hanno deciso di fare con alcuni amici una comoda escursione in montagna. Il vaporino che bisogna prendere per raggiungere il punto di partenza della passeggiata a cui si è pensato, attrac­cherà fra pochi minuti davanti all'albergo. La hall assomiglia al grande soggiorno di una locanda con­tadina. Attraverso le grate delle finestre ombreggiate dalla vite selvatica il sole penetra a stento, goccia a goccia, come miele denso. La stanza è buia. E un buio compatto, che rende gli occhi stranamente ciechi. Leonida si avvicina al banco del portiere e chiede la posta. Ci sono tre lettere, una delle quali scritta da una donna con inchiostro azzurro pallido, i caratteri grandi, ripidi e severi. Ma ecco, Leo­nida sente che Amelie, in piedi dietro di lui, gli po­sa fiduciosa una mano sulla spalla. Domanda se c'è qualcosa per lei. Lui stesso non sa come riesce a oc­cultare la lettera di Vera e a infilarsela in tasca. Quel buio del colore dell'ambra gli viene in aiuto. Per fortuna proprio adesso sono arrivati gli amici che stavano aspettando. Leonida saluta allegramen­te e poi scompare senza dare nell'occhio. Ha anco­ra cinque minuti per leggere la lettera. Ma non la legge, continua a rigirarsela tra le mani senza aprirla. Vera gli scrive dopo tre anni di un silenzio di tomba. Gli scrive dopo che lui si è comportato in un modo talmente volgare e spaventoso che nulla si può immaginare di peggio da parte di un uomo nei riguardi di una donna che ha amato. Prima la più infame, la più vile delle menzogne, perché lui era sposato ormai da tre anni e non gliel'ha mai detto. Poi il lurido inganno del congedo al finestrino del treno: «Addio, vita mia! Due settimane ancora e poi sarai con me!». Dette queste parole, Leonida è scomparso nel nulla e non ha più voluto saperne dell'esistenza della signorina Vera Worm­ser. Se lei oggi gli scrive, lei, una donna come Vera, ha certo dovuto fare su se stessa uno sforzo tremen­do. Questa non può essere altro, perciò, che una ri­chiesta d'aiuto in una situazione di gravissima am­bascia. E non è tutto, il peggio deve ancora venire. Vera la sua lettera l'ha scritta qui. E anche lei a Sankt Gilgen. Sul retro della busta è detto nero su bianco. Alloggia in una pensione sull'altra riva del lago. Leonida estrae un temperino per tagliare la busta, pedanteria ridicola e al tempo stesso rivelatrice. Ma non apre neppure il temperino. Se legges­se la lettera, se diventasse oggetto di conoscenza certa ciò che a lui non è permesso neppure di sospettare vagamente, allora, allora diventerebbe im­possibile fare marcia indietro. Per qualche secondo riflette sulla possibilità e sulla prospettiva di una confessione. Ma no, quale Dio potrebbe pretendere che alla sua bella, giovanissima moglie, una Amelie Paradini, una donna che lo ama fanaticamente, che ha lasciato tutto il mondo a bocca aperta quando ha voluto a tutti i costi sposarlo, chi potrebbe pretendere che a una simile specialissima creatura lui confessi di punto in bianco che già dopo un anno di matrimonio l'ha tradita nella maniera più igno­bile? Non farebbe altro, con ciò, che distruggere la propria esistenza e la vita di Amelie, senza peraltro aiutare Vera in alcun modo. E lì, Leonida, perples­so in quell'angusto stanzino mentre i secondi volano. La sua stessa paura, la sua stessa infamia gli fan venire il voltastomaco. La lettera, leggera, gli pesa tra le mani. La carta della busta è sottilissima, non imbottita. Le righe si intravedono indistinte. Qua e là, invano, prova a decifrarle. Un bombo entra ron­zando dalla piccola finestra e ora è anch'esso pri­gioniero. Leonida si sente invaso da un senso di de­solazione, di dolore, di colpa e, tutt'a un tratto, da un'ira violenta contro Vera. Eppure sembrava che ormai avesse capito. Una breve, pazza felicità, per grazia del caso e delle menzogne che lui le ha detto. Leonida si è comportato come un dio antico che si china sulle umane creature assumendo volta a volta forme diverse. C'è una certa nobiltà in questo, una certa bellezza. Vera sembrava averlo capito, superato, ormai, lui ne era certissimo. Infatti, a prescindere da ciò che poteva esserle accaduto, durante i tre anni che erano passati da quando Leonida era scompar­so, lei non si era più fatta viva né con parole, né con scritti, né con messaggi personali. Tutto era ormai superato, tutto sistemato nel migliore dei mo­di. Lui l'aveva apprezzata moltissimo per la sua comprensione, per essersi così bene adattata all'i­nevitabile. E ora questa lettera! È stato un puro col­po di fortuna che non sia capitata nelle mani di Amelie. E non soltanto la lettera. Lei stessa è lì, lo perseguita, si presenta di punto in bianco in riva al laghetto di montagna dove tutti si ritrovano, adesso in particolare, in questo luglio detestabile che è il mese delle famiglie in vacanza. Leonida pensa sec­cato: Vera in definitiva non è altro che «un'intellet­tuale israelita». Questa gente, certo, può anche raggiungere grandi traguardi, ma alla fine inevitabil­mente si incaglia. Il loro problema è quasi sempre il tatto, l'arte sottile di non infastidire psicologicamente il prossimo. Perché per esempio il suo amico e compagno di baldoria, quello che gli aveva lasciato in eredità il frac dei suoi trionfi mondani, perché quel ragazzo si era sparato un colpo alle otto di sera, che è un'ora così conviviale, e per di più nella stanza accanto alla sua? Non avrebbe potuto farlo altrove, o in un momento in cui Leonida non era in circolazione? No, neanche per sogno! Quelli, ogni azione, foss'anche la più disperata, la devono sottolineare, rimarcare, mettere tra virgolette. Sempre sopra le righe, o sotto, magari. Prova lampante della loro tipica mancanza di tatto. E indicibilmente privo di tatto è stato da parte di Vera arrivare in luglio proprio a Sankt Gilgen, dove Leonida inten­de trascorrere, ciò di cui lei è certamente a cono­scenza, due settimane di meritato riposo in compa­gnia di Amelie. Ammesso che lui la incontri adesso sul vaporino, che cosa dovrà fare? Lo sa benissimo, Leonida, è chiaro: dovrà non riconoscere Vera, non salutarla, con serena noncuranza dovrà guardare attraverso la sua persona come se fosse trasparente, continuare imperterrito a conversare e a ridere con Amelie e con la piccola comitiva dei loro amici. Ma certo gli costerà carissimo prodursi fino alla fine in un numero così rivoltante! l suoi nervi e l'idea che egli ha di se stesso saranno messi a dura prova per un'intera settimana di quella vacanza che è già troppo breve. Addio appetito. I prossimi giorni saranno amari. E senza por tempo in mezzo, dovrà pensare a un motivo che appaia convincente ad Amelie per interrompere, domani a mezzogiorno al più tardi, la loro vacanza in questo posto incante­vole che è Sankt Gilgen. Ma ovunque decidano di andare, in Tirolo, al Lido o al Mare del Nord, saranno in ogni caso perseguitati dalla possibilità che lui neanche in cuor suo osa rendere esplicita. L'a­bisso in cui è gettato da queste considerazioni gli ha fatto scordare la lettera che ha in mano. Ma ora di colpo lo assale una grande curiosità. Vorrebbe sapere di che si tratta. Forse i suoi foschi pensieri e timori sono soltanto il parto della sua ipersensibi­lità a sfondo ipocondriaco. Forse trarrà un sospiro di sollievo quando avrà letto la lettera. Il grosso

bombo, suo compagno di prigionia, ha finalmente trovato il pertugio della finestra dalla quale rom­bando esce all'aria aperta. A un tratto in quel mise­ro stanzino il silenzio è diventato terrificante. Leo­nida sistema il temperino in modo da poter aprire la lettera. In quel momento suona la sirena del pic­colo e sconquassato vaporino, un vecchio, antidilu­viano giocattolo dei tempi andati. Si sente il rumo­re dell'elica che solleva l'acqua e la fa schiumare. Poi, dopo un attimo di assoluta immobilità, ripren­de sulla parete il gioco di ombre della vite selvatica. Non c'è più tempo, ormai! Fra poco si sentirà la vo­ce di Amelie che chiamerà nervosamente: Leon! Il cuore gli batte forte mentre tagliuzza la lettera in minuti frammenti e la fa sparire...

Eterno ritorno dell'uguale! E proprio vero, dun­que, che una cosa simile può succedere, pensò stupito Leonida. L'odierna lettera di Vera lo aveva messo nella stessa ignominiosa situazione in cui s'e­ra trovato quindici anni prima. La situazione origi­naria della sua colpa nei confronti di Vera e nei confronti di Amelie. Tutto combaciava al millime­tro. La lettera, allora come oggi, l'aveva ricevuta in presenza di sua moglie. Solo adesso lesse sul retro della busta l'indicazione del mittente: «Dottoressa Vera Wormser, in loco». Seguiva l'indicazione di un albergo, il Parkhotel, che si trovava a poche strade di distanza da lì. Vera era dunque venuta, oggi come allora, per cercarlo, per stanarlo. Solo che oggi, anziché un bombo estivo, gli facevano compagnia in quella prigione alcune decrepite e asmatiche mosche autunnali. Leonida, non senza meraviglia, sentì che scoppiava in una sommessa ri­sata. Lo spavento di poco prima, il cuore che sem­brava di colpo essersi fermato, tutto ciò non solo era indegno, era anche idiota. Non avrebbe potuto, letta o non letta la lettera, strapparla tranquillamente davanti ad Amelie? La solita seccatura, la petizione di un privato cittadino come ne arrivavanoa centinaia ogni giorno. Quindici anni erano passati, anzi, quindici più tre. A dirlo così sembra niente. Ma in diciotto anni tutto cambia, cambia inesauri­bilmente. Sono più di mezza generazione, diciotto anni, il che vuol dire che ogni essere vivente si trasforma quasi per intero, è un tempo oceanico che annacqua e rende nulli crimini ben più gravi di una deplorevole vigliaccheria in amore. Che cosa gli era successo, s'era davvero rammollito a tal punto da non riuscire a liberarsi di quella storia ormai ammuffita, tanto che a causa sua aveva perso la bella serenità mattutina, lui, un uomo di cinquant'an­ni al culmine della carriera? Tutta questa maledetta faccenda, pensò con convinzione, era dovuta all'ambiguità del suo cuore, troppo tenero ma, nello stesso tempo, troppo incostante. Tutta la vita aveva sofferto per quello che chiamava il suo «cuore gua­sto». L'espressione non era elegante, lui stesso se ne rendeva conto, ma esprimeva in maniera appro­priata il suo disagio psichico. Del resto, la tremen­da suscettibilità nei confronti della scrittura femmi­nile azzurro pallido non era forse testimonianza di un'indole scrupolosa, delicata, cavalleresca, di un carattere che neanche a distanza di un tempo infi­nito riesce a rassegnarsi e a perdonarsi una man­canza sul piano morale? A questa domanda Leonida non esitò a dare in cuor suo una risposta affer­mativa. E, con una certa melanconia, rivolse a se stesso grandi elogi perché, pur essendo da tutti ri­conosciuto come un uomo bello e seducente, a prescindere dall'episodio passionale con Vera, non aveva da rimproverarsi, nel corso del suo matrimo­nio, che una decina di avventure amorose senza importanza.

Trasse un respiro profondo e sorrise. Adesso vo­leva chiudere con Vera una volta per tutte. La signorina, la dottoressa Vera Wormser, specializzata in filosofia. Già nella scelta di questo mestiere si notava una inclinazione provocatoria alla superiorità. (Signorina? No, signora. Sposata e non vedova, si spera). Nella piccola finestra aperta incombeva il cielo gonfio di nuvole. Leonida squarciò la lettera con risolutezza. Ma lo strappo non era ancora profondo due centimetri e già le sue mani si fermaro­no. Accadde ora il contrario di ciò che era accadu­to quindici anni prima a Sankt Gilgen. Allora, vo­lendo aprire la lettera, l'aveva strappata. Ora, volendola strappare, la aprì. Dal foglio ferito, l'intera personalità della scrittura femminile azzurro pallido, che si poteva espandere in diverse righe, lo guardava sarcastica.

Sopra, in testa alla lettera, con tratti rapidi e pre­cisi, era scritta la data: «7 ottobre 1936». Ecco l'e­sattezza della donna matematica, fu il giudizio di Leonida, Amelie non ha mai datato una lettera in tutta la sua vita. Poi lesse: «Egregio signor capodivi­sione!». Bene! L'apostrofe è secca, non c'è niente da eccepire. E pensata con tatto, anche se con ogni probabilità nasconde una lieve ma invincibile iro­nia. In ogni modo questo «Egregio signor capodivi­sione» non fa temere un tono troppo intimo. Andiamo avanti nella lettura!

«Oggi sono costretta a rivolgermi a Lei con una preghiera. Non si tratta di me, ma di un giovane di talento al quale, per i motivi ben noti a tutti, non è più consentito frequentare il liceo in Germania; per questo egli desidera portare a termine i suoi studi a Vienna. Mi si dice che fa parte delle speci­fiche competenze del Suo ufficio, egregio signore, rendere possibile e facilitare tali passaggi. Poiché qui non conosco più nessuno, sebbene Vienna sia stata la mia città natale, ritengo mio dovere ricorrere a Lei in questo caso che è per me di estrema im­portanza. Se fosse disposto a venire incontro alla mia preghiera, basta che me lo faccia sapere tramite la Sua segreteria. Poi, quando Lei vorrà, il giovane Le farà una visita di cortesia e Le darà le neces­sane informazioni. Con sentiti ringraziamenti, Ve­ra W.».

Due volte Leonida aveva letto la lettera da capo a fondo senza interrompersi mai. Quindi se la rimise in tasca con cautela come qualcosa di assai pre­zioso. Si sentiva così stanco e molle che non trovò neanche la forza di aprire la porta e di uscire dalla sua prigione. Come gli apparve comica e inutile, adesso, la sua fuga infantile in quell'opprimente stanzino. Non occorreva affatto che lui, mortalmen­te atterrito, nascondesse quella lettera ad Amelie. Avrebbe potuto benissimo lasciarla aperta dov'era, o addirittura passarla alla moglie ch'era seduta di fronte a lui. Quella lettera, la più perfida al mondo, era anche la più innocua. Di simili richieste scritte di raccomandazione e protezione ne riceveva ogni mese a centinaia. Eppure, da quelle poche righe diritte spirava una lontananza, un gelo, una cerebra­lità e una ponderazione di fronte alle quali Leonida si sentì moralmente schiacciato. Forse il giorno del Giudizio Universale, pensò, non si può esclu­derlo, forse quel giorno ci troveremo davanti a un simile scritto biecamente calibrato, e lo scritto sarà comprensibile soltanto ai debitori e ai creditori, agli assassini e alle loro vittime e, pur apparendo a tutti gli altri privo di qualsiasi importanza, proprio in virtù di questo camuffamento apparirà più che mai spaventoso per la persona interessata. Dio solo sa quali idee e pensate stravaganti potevano venire in mente a un posato funzionario statale nel bel mezzo di una luminosa giornata di ottobre! Donde spuntava l'idea del Giudizio Universale in una mente di solito così precisa e ordinata? Leonida ormai sapeva la lettera a memoria. «Fa parte delle specifiche competenze del Suo ufficio, egregio si­gnore». Questo è quanto, egregio signore! «Ritengo mio dovere ricorrere a Lei in questo caso che è per me di estrema importanza». Lo stile asciutto di un'istanza burocratica. Ma per colui che sa, per il colpevole, una frase che ha il peso di un macigno e, al tempo stesso, la finezza impalpabile di una ra­gnatela. «Poi, quando Lei vorrà, il giovane Le farà una visita di cortesia e Le darà le necessarie infor­mazioni». Necessarie informazioni! Queste due parole squarciavano l'abisso nel momento stesso in cui lo velavano. Non c'è pubblico legale né consi­gliere giuridico della Corona che avrebbe potuto far meglio, tanto era spietata la loro ambiguità.

Leonida era stordito. Dopo un'eternità, dopo di­ciotto lunghissimi anni, malgrado si fosse messo al riparo sotto ogni aspetto, la verità lo aveva raggiun­to. Ogni via d'uscita e ogni possibilità di ritirata gli erano precluse. Non poteva più sottrarsi, ormai, a quella verità che in un momento di debolezza aveva fatto entrare. Il mondo si era trasformato per lui da capo a fondo, e lui per il mondo. Le conseguenze di tale trasformazione erano imprescindibili, que­sto Leonida lo sapeva, pur non potendone ancora, nel suo spirito oppresso, misurare la portata. Altro che innocua istanza! In questa cosiddetta innocua istanza Vera gli aveva fatto sapere che aveva un fi­glio adulto e che questo figlio era suo.




(Brano tratto da Una scrittura femminile azzurro pallido, Adelphi editrice, Milano, 1991. Traduzione di Renata Colorni.)






Franz Werfel (1890-1948) nacque a Praga ebbe in gioventù intensi contatti con Kafka, con Brod e con l'editore tedesco Kurt Wolff Nel 1929 sposò Alma Mahler con cui visse a Berlino e a Vienna Nel 1938 fu costretto a emi­grare in Francia e nel 1940 raggIunse l'Ameri­ca dove rimase fino alla morte. Tra la sua ricca e varia produzione (liriche, saggi, romanzi, rac­conti) ricordiamo: L'amico del mondo (1911); Verdi (1924); I quaranta giorni del Mussa Dagh (1933); II pianeta dei nascituri (1946).

 


      
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