La Lavagna Del Sabato 11 Aprile 2009


IL MIO DIO SONO IO

– Brano tratto dal romanzo I fiumi profondi

José María Arguedas





(…) La campanella che suonava a lungo per annunciare l'o­ra d'andare a pranzo mi svegliò da quella specie di estasi. Quando entrai in sala da pranzo, gli interni erano in piedi accanto ai loro posti. Fratello Miguel pregò ad alta voce ed il coro degli alunni ripeté la preghiera. Io continuavo ad essere stordito; i miei compagni sembravano muo­versi in uno spazio torbido ed ondeggiante; li vedevo al­lungati e strani.

– Che ti succede? - mi chiese Palacitos. - Sembri come spaventato. Gli zumbayllus ti stanno dando alla testa.

– Legga Ernesto il Manual di Carreño1, - ordinò fratel­lo Miguel.

Un servitore mi porse il libro. Incominciai a leggere il capitolo indicato dal segnalibro. La correttezza che si esi­geva nella lettura di quel Manual risvegliò immediatamen­te tutti i miei pensieri. Furono quelle letture pubbliche a darmi prestigio. Io ero uno degli alunni più alti del mio anno; e quando entrai in collegio non sapevo leggere ad alta voce. La prima volta feci fiasco e mi sostituirono do­po pochi istanti. Cosi sembrò confermato che la causa del mio ritardo non era la vita errabonda che avevo fatto, ma qualche altra più grave. Però quindici giorni dopo chiesi di leggere di nuovo – avevo provato molte ore – e sorpre­si tutti. Lessi con voce alta, chiara e posata. Gli interni smisero di mangiare la minestra per qualche minuto e mi guardarono. Da allora fui uno dei lettori preferiti di tutti i padri che presiedevano la tavola, e di fratello Miguel. Stavolta, quando fui sostituito da Romero, mi ero già tranquillizzato. E dissi a Palacios:

– Era la fame, Palacitos. Io non sono amico della cuo­ca come te.

Palacitos si sporse e mi parlò all'orecchio:

– Sono stato in cucina. Stanotte la scema andrà in cor­tile. Lleras le ha chiesto. Deve succedere qualcosa, stanotte, fratellino! Lleras e l'Antico stavano parlando come due stregoni.

– Va bene. Noi non ci andremo.

– Suoneremo il rondín con Chauca nel cortile esterno. Lleras cominciò a guardarci. Palacitos si terrorizzò e non mi parlò più.

– Se ne é accorto. Ma non essere così; non spaventarti! – gli dissi.

Aveva una grande paura. Non alzò più la testa. Pranzò con umiltà. Io dovetti chiacchierare con Rondinel, che oc­cupava il posto di destra: dovetti parlargli nonostante mi guardasse sempre con orgoglio. Lleras e l'Añuco conti­nuavano ad osservarci.

– Tu credi di leggere già molto bene, - mi disse Rondi­nel. – Credi di essere anche un gran maestro dello zum­bayllu. Sei un indianucolo, anche se sembri bianco! Nient'altro che un indianucolo!

– Tu sei bianco, ma del tutto inutile. Una nullità senza scampo!

Quelli che mi ascoltarono risero a tutto spiano. Palaci­tos rimase raccolto in se stesso.

– Ti sfido per sabato! - esclamò Rondinel guardandomi infuriato.

Era magrissimo, tutto ossa. I suoi occhi infossati, come non ne ho visti altri, e piccolissimi, facevano pena; erano attorniati da ciglia spesse, nerissime, molto incurvate e così lunghe che sembravano artificiali. – Potrebbero essere bellissimi i suoi occhi, – diceva Valle, un alunno del quin­to anno, gran lettore ed elegante. – Potrebbero essere bellissimi se non sembrassero quelli d'un bimbo morto.

Facevano pena per questo. Davano l'impressione che solo le sue ciglia fossero cresciute, e verso l'interno le lo­ro occhiaie; ma gli occhi in sé continuavano ad essere come quelli di un bambino di pochi mesi.

– Povero lattante! Povero lattante! – gli dissi.

Impallidi dalla rabbia.

– Sabato t'ammazzerò a pedate, – mi disse.

Io non gli risposi; e durante il pasto non ci parlammo più. All'uscita dalla sala da pranzo, venne a prendermi Lleras.

– Come fingi bene, cholito! – mi disse ad alta voce, perché sentisse Palacios. – Ma io so che l'indio Palacios ti parlava in segreto di me:

– Io no, Lleras, – gli rispose Palacios, quasi gemendo. – Gli parlavo del mio rondín.

– Attento, attento! Rondinel gli farà di certo rientrare le costole al forestiero. Sono buoni arnesi le sue braccia e le sue gambe. Fanno male. Ah zumbayllito, zumbayllu!

Terminò con una risata guardandomi ironicamente. Si portò via Rondinel, sotto braccio.

– Ti allenerò, – gli disse. – Sta' tranquillo. Ti garanti­sco che ne farai una bella frittata del forestiero.

Nel sentirlo parlare mi venne paura.

– Ti sei spaventato, – mi disse Palacios, guardandomi. – Se te le dà, farà di te la sua pecora per tutto l'anno.

Fino a quel momento, io non avevo lottato con nessu­no in una sfida vera e propria. Doveva essere quella la prima volta, ed ebbi paura. Non potevo dominate il ver­gognoso, l'immondo timore.

– È del Lleras, non del Magro che ho paura, – dicevo. Eppure non era vero. Era dell'altro.

E il Markask'a quel pomeriggio non venne in collegio.

– Sta' attento, – mi disse Romero. – I magri sono peri­colosi. Se lo colpisci per primo Io disarmi; ma se arriva prima lui, ti spacca la faccia.

Gli interni non fecero molti commenti alla sfida. L'u­nico che le diede importanza fu Valle.

– Sarà uno scontro singolare, – disse. – È da vedere. Una zanzara di fil di ferro contro un forestiero malinco­nico. Dobbiamo fare in modo che non vada a vuoto. Sarà uno strano spettacolo.

Fino a quel giorno avevo sentito un gran rispetto per Valle. Era l'unico del collegio che leggeva. Nascondeva ro­manzi ed altri libri sotto il materasso. I padri lo sorvegliavano perché aveva dichiarato di essere ateo e imprestava i libri agli interni. – Dio non esiste, – diceva entrando nella cappella. – Il mio Dio sono io –. Il suo orgoglio era molto grande, ma sembrava avere un fondamento. M'imprestò un'antologia di Ruben Dario; e siccome avevo imparato a memoria le poesie più lunghe, me le faceva recitare. Poi, con un'espressione meditabonda, diceva: – Emotivo, sen­sibile: troppo, troppo –. E se ne andava.

Valle faceva innamorare le signorine più in vista del paese. E a buon diritto, dato che era all'ultimo anno, ed era elegante. Si stirava i vestiti con una cura ed una abi­lità che facevano invidia. Usava le cravatte con un nodo di sua invenzione che chiamava, incredibilmente, con una parola quechua: k'ompo. Il k'ompo divenne di moda ad Abancay. Era un nodo largo, voluminoso. Valle nel farlo usava quasi tutta la cravatta. Così richiamava l'attenzio­ne delle ragazze. Disprezzava le studentesse, il suo disprezzo era sincero. Diceva che il suo grande amore era la moglie del medico condotto, e lo faceva vedere. Di dome­nica, si metteva all'angolo della casa del medico. Profu­matissimo, col cappello calcato sulla fronte, col suo enor­me k'ompo ben in vista, perfetto, con le scarpe lucide, aspettava. Eretto, e con un atteggiamento molto distinto, Valle stava sull'angolo fischiando.

Malgrado sembrasse un giovanotto elegante, coi suoi diritti già acquisiti, non era ammesso nella buona società. La moglie del medico gli dedicava qualche sguardo com­piacente; le altre ragazze tolleravano le sue galanterie, ma non otteneva d'essere invitato alle feste di società. Lui si consolava, perché comunque aveva fra gli alunni una po­sizione privilegiata; sapeva che le studentesse sussurravano di lui, gli dedicavano la loro attenzione, lo contemplavano. Il suo ateismo era famoso, e così pure il suo "mate­rialismo», dato che lui diceva d'avere una cultura "enci­clopedica». Adorava soltanto la forma; disprezzava i ro­mantici e i "passionali». – II povero, il disgraziato Espronceda2; e quell'altro, il più sfortunato, il piagnone Becquer3, - diceva. I suoi idoli erano Schopenhauer e Chocano4. Non interveniva mai nelle lotte per la demen­te, e non aveva amici. Imprestava romanzi e libri di poe­sia con un atteggiamento gentile, anche se un po' sprez­zante; soltanto un libro di Schopenhauer che teneva sotto chiave, in una valigetta, non lo prestò mai a nessuno.– Questa è una lettura per i forti, per i giganti; soltanto l'oro subisce questo liquido senza sciogliersi. Voi vi dan­nereste se lo leggeste, o non lo capireste, – ci diceva.

Valle parlò a Rondinel; aspettò di vederci vicini e mentre io ascoltavo, dimostrò al mio rivale che, considerate le caratteristiche di entrambi, lui aveva tutte le probabilità di sconfiggermi, di darmi una buona pestata, una volta per tutte. Poi mi si avvicinò, e mi disse:

– La tua situazione è dunque onorevole. Se lo vinci sarà per il tuo coraggio, e solo per il tuo coraggio. Ti faccio i miei complimenti: come vorrei avere io una simile opportunità.

Il suo linguaggio era sempre così, ricercato. E siccome tutti credevamo che avesse il diritto di parlare in quel modo, date le sue letture, il suo stile non ci feriva né ci sorprendeva. Al contrario, molti ne erano influenzati, e tentavano di imitarlo.

Valle era l'unico studente che non parlava in quechua; lo capiva bene, ma non lo parlava. Non faceva finta di non saperlo; le poche volte che lo sentii tentare di pro­nunciare qualche parola, fece fiasco davvero; non glielo avevano insegnato da bambino.

– Non sono abituato a parlare in indio, – diceva. – Le parole mi suonano all'orecchio, ma la lingua si rifiuta di fabbricarmi quei suoni. Per fortuna non avrò bisogno degli indios, credo che andrò a vivere a Lima o all'estero.

La sfida di Rondinel fu per Valle un'occasione di di­vertimento.

– Solo il tuo coraggio può salvarti, – mi ripeteva. – Per fortuna i sentimentali sono dei gran coraggiosi o dei gran vigliacchi.

E mi guardava acutamente.

Cominciai a sentire una specie di rancore impotente contro di lui. Certamente indovinava o conosceva la pau­ra che mi opprimeva, che era sul punto di vincermi. Forse anche lui aveva provato qualche volta questo timore basso e vergognoso.

– Deve vincere il fuscello Rondinel, – profetizzava. – Un don Chisciotte di Abancay sconfiggerà un quechua, un cantore di jarahuis5. Che combattimento, ragazzi, che omerico e degno combattimento! Un nuovo scontro delle razze. Per Belzebù! Sarà uno spettacolo meritevole dell'attenzione dell'internato al gran completo. Perfino di un inno epico!

I pronostici di Valle infiammavano Rondinel. Passeg­giava agitato. Ormai rifiutava i consigli di Lleras. Stendeva il suo braccio magro – completamente influenzato dal linguaggio e dall'atteggiamento di Valle – e diceva a Lle­ras:

– Non darmi consigli. Questo cholito lo metto sotto da solo. Lo faccio a pezzi!

L'Añuco mi cercava, mi passava di fianco e mi gri­dava:

– Come sei triste, zumbayllero! Che lutto anticipato!

– È vero, - confermava Palacitos. - Sei diventato gial­lo. Fregati la faccia e le orecchie, fratello. È meglio che esca sangue.

Gli interni della mia età non mi rivolgevano la parola. Preferivano stare in attesa. Romero mi faceva coraggio, ma in tono compassionevole.

La sera, durante il rosario, volli raccomandarmi a Dio e non ci riuscii. La vergogna mi legò la lingua e la ragione.

Allora, mentre tremavo di vergogna, mi venne in mente, come in un lampo, l'immagine dell'Apu K'arwarasu. E gli parlai, come si raccomandavano gli scolari del mio villaggio natale, quando dovevano lottare o competere in corse o in prove di coraggio.

– Solo tu, Apu e il Matkask'a! - gli dissi. - Apu K'arwarasu, a te dedicherò la mia battaglia. Mandami il tuo killincho6 a proteggermi, a zufolarmi dall'alto. A pe­date, cazzo, nel culo, in quelle sue costole da cane affa­mato, in quel suo collo da violino! Ja caraya! Minatore sono io, minatore di Lucanas7! Nakak!8

Incominciai a farmi animo, ad aver coraggio, rivolgen­domi alla grande montagna, nello stesso modo in cui gli indios del mio villaggio le si raccomandavano, prima di lanciarsi in piazza contro i tori selvaggi, che avevano i condor piantati sulla schiena.

Il K'arwarasu è I'Apu, il dio regionale del mio villaggio natale. Ha tre cime innevate che s'alzano su una catena di montagne di roccia nera. Lo circondano vari laghi in cui vivono aironi dalle piume rosa. Il gheppio è il simbolo del K'arwarasu. Gli indios dicono che nei giorni di quaresima dalla cima più alta esce come un uccello di fuoco, che dà la caccia ai condor, rompe loro il dorso, li fa gemere e li umilia. Vola, brillando, lampeggiando sui seminati, per i campi di bestiame, e poi si sprofonda nella neve.

Gli indios invocano il K'arwarasu esclusivamente nei grandi pericoli. Non appena pronunciano il suo nome, scompare la paura della morte.

Uscii dalla cappella senza poter pio trattenere l'eccita­zione. Immediatamente dopo che il padre rettore e gli al­tri frati erano saliti al secondo piano, m'avvicinai a Ron­dinel e gli diedi un debole calcio, a mo' di preannuncio.

– Senti, fil di ferro, – gli dissi. – Adesso, adesso! Nel cortile!

In quel posto, davanti alla cappella, c'era poca luce. Valle saltò tra noi due.

– L'esplosione dei sentimentali! – disse tranquillamen­te, scostando il Magro. – Questa è una sfida legale, caval­leresca, per sabato e non per lottare a tentoni nel buio.

– Si, si! Adesso no! – gridarono alcuni.

– Lasciali che si concino per le feste, – disse Romero.

– La mia sfida è per sabato, nel campo dei ricini, – dis­se Rondinel, e saltò nel portico. Si fermò sotto un lampione. – Voglio vedere quello che faccio! Non sono un indio per fare a pugni al buio.

Compresi che aveva paura, che era lui, adesso, quello che era spaventato.

– Indio traditore, – disse Lleras.

Ma il Magro rettificò, credo per non farmi infuriare di più.

– Non mi ha dato un vero calcio, – disse. – È stato solo un avvertimento.

– Credo che il don Chisciotte sei tu. Sarai battuto, e a maggior ragione adesso! – mi disse Valle, posandomi la mano sulle spalle. – Quel calcio d'avviso ti dipinge. È stato un aperitivo, per te e per noi che assisteremo alla tua nobile sconfitta.

La sua ironia stavolta non mi toccò. Si perdeva nel vuoto. Il Magro fuggi nel dormitorio, silenziosamente, mentre Valle parlava; e gli altri interni si dispersero. Pa­lacitos si ritirò insieme a Rondinel. E Valle perse l'entu­siasmo. (…)


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Note:

1 – Manuale di buona educazione.

2 – José Espronceda y Delgado: poeta romantico e uomo politico spagnolo (1808-42).

3 – Gustavo Adolfo Becquer: poeta e narradore romantico spagnolo (1836-70).

4 – José Santos Chocano (1875-1934), poeta peruviano, il cui libro più noto è Alma América.

5 – Canzone andina le cui parole alludono in genere alla perdita della persona amata, alla lontananza, alla solitudine.

6 – Gheppio.

7 – Provincia del dipartimento di Ayacucho, ricca di miniere.

8 – Participio del verbo quechua nakai = “uccidere”. Oggi indica una creatura favolosa che aggredisce gli uomini e li uccide succhiando loro il grasso.




(Tratto dal romanzo I fiumi profondi, Einaudi editori, Torino, 1971. Traduzione di Umberto Bonetti.)



José María Arguedas (1911-1969) - Scrittore e antropologo peruviano. Il suo lavoro come romanziere, come traduttore e diffusore della letteratura quechua, e come antropologo e etnologo, fecero di lui una delle figure chiavi tra coloro che hanno cercato, nel secolo XX, di incorporare la cultura indigena alla grande corrente della letteratura peruviana scritta in spagnolo. In questo processo segue e supera il suo compatriota Ciro Alegría. La questione fondamentale che propongono le loro opere, ma in speciale quella di Arguedas, è quella di un paese diviso in due culture - la andina di origine quechua, la urbana di radici europee - che devono integrarsi in una relazione armonica di carattere meticcio. I grandi dilemmi, angosce ed speranze che questo progetto propone sono il nucleo della sua visione. Nato a Andahuaylas il 18 gennaio 1911, nel cuore della zona andina più povera e dimenticata dal paese, fu in contatto dalla infanzia con gli ambienti e personaggi che incorporerebbe nella sua opera. La morte di sua madre e le frequenti assenze di suo padre avvocato, gli obbligarono a cercare rifugio tra i servi contadini della zona, la cui lingua, credi e valori acquistò come suoi. Come studente universitario a San Marcos, iniziò il suo difficile compito di adattarsi alla vita di Lima senza rinunciare alla sua tradizione indigena, vivendo in carne propria l'esperienza di ogni trapiantato andino che deve acculturarsi e assimilare un'altro ritmo di vita. Nei primi tre racconti della prima edizione di "Acqua" (1935), nella sua prima novela "Yawar Fiesta" (1941) e nella raccolta di "Diamantes y Pedernales" (1954), si apprezza lo sforzo dell'autore per offrire una versione la più autentica possibile della vita andina da un angolo interiorizzato e senza i convenzionalismi di denuncia della anteriore letteratura indigena. In quelle opere Arguedas rivendicò la validità del essere indio, senza cadere in un razzismo alla rovescia. Relazionare questo sforzo con le proposte marxiste di José Carlos Mariátegui e con il romanzare politicamente impegnato di Ciro Alegrí offre interessanti paralleli e divergenze. L'opera matura di Arguedas comprende almeno tre romanzi: "I fiumi profondi" (1956), "Tutti i sangue" (1964) e " La volpe di sopra e la volpe di sotto" (1971); l'ultima è il romanzo-diario troncato dalla sua morte. Di tutte esse, l'opera che espressa con maggiore lirismo e profondità il mitico mondo degli indigeni, la loro unità cosmica con la natura e la persistenza delle loro magiche tradizioni è I fiumi profondi. Il suo merito è presentare tutte le sfumature di un Perú andino in intenso processo di meticciato. In "Tutti i sangue", presentando le principali forze che lottano tra di sé, lottando per sopravvivere o imporsi, raccoglie un racconto sulla distruzione dell'universo, e le prime avvisaglie della costruzione di uno nuovo. Altri racconti come " Il sesto" (1961), "L'agonia di Rasu Ñiti" (1962) e "Amore mondo" (1967) completano questa visione. Il processo di adattarsi alla vita di Lima mai fu completato da Arguedas, i cui traumi portati dalla infanzia lo debilitarono psichicamente per finire la lotta che si era proposto, non solo sul piano culturale ma anche su quello politico. Questo e l'acuta crisi nazionale che il paese cominciò a soffrire a partire del 1968 lo spinsero al suicidio, morto dopo lenta agonia il 2 dicembre 1969, atto che non fece altro che convertirlo in una figura mitica da molti intellettuali e da movimenti impegnati nello stesso compito politico.



 


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