MAIEUTICA


Bruno Tinti



Due o tre mesi fa ho ricevuto una mail da parte di un'associazione che mi invitava a presentare un libro che ho scritto recentemente sull'orga­nizzata distruzione del sistema giudiziario italiano; si chiamava Maieuti­ca e aveva sede in un paesino della Puglia che non avevo mai sentito nominare, Marcano.

Abbiamo concordato una data e sono partito.

Lì ho trovati ad aspettarmi all'aeroporto: Caterina, una ragazza di circa 20 anni, con un faccino tenero e i capelli lunghi, un paio di jeans e una maglietta; e Dario, di poco più grande, con il barbone e i capelli arruffati. Erano un po' timidi e molto gentili.

Mi hanno portato giù giù fino a Martano, vicino a Otranto; lì mi hanno condotto in un appartamento di proprietà della mamma di una loro amica: camera da letto, bagno, cucina, balcone, frigorifero, tutto per me. E poi mi hanno portato a mangiare la pizza.

A tavola ero vicino ad Alessandra, la più vecchia del gruppo: una giovane di 27 anni; poi c'erano Donatella, Marco, Dario e un'altra decina di ragazzi. Caterina e Alessandra avevano un anellino al naso, Marco una massa di capelli ricci tenuti insieme a coda di cavallo, Giorgio i rasta. Tutti erano vestiti in maniera disinvolta. E tutti erano maledetti fumato­ri e io gliene ho dette di tutti i colori. E poi ho cominciato a stare atten­to: erano tutti vivacissimi, intelligenti, appassionati.

Mi hanno parlato di quello che pensavano di fare insieme con me; si trattava di concludere un percorso formativo che avevano avviato qualche mese fa con le scuole della zona, più di duemila ragazzi. Io avrei incon­trato alcune classi il giorno dopo, nei giardini pubblici di un paese là vicino, Corigliano; e avremmo discusso del sistema giudiziario del nostro paese, di legalità, di etica, di uguaglianza. E poi il pomeriggio avrebbero presentato il mio libro (e me), sempre a Corigliano, in un posto bellissi­mo, mi hanno detto, sotto a una grandissima quercia.

Mi hanno raccontato che si finanziavano da soli; e ho scoperto, con im­barazzo, che l'autofinanziamento era servito per pagarmi il biglietto aereo che io avevo richiesto con una certa perentorietà (non voglio fare scalo a Roma, c'è un volo diretto, avevo detto). Mi hanno raccontato che per finanziarsi organizzavano feste dove suonavano e preparavano qualcosa da mangiare; e, a quelli che ci andavano, chiedevano offerte.

Mi hanno fatto vedere la loro sede, “la casetta” la chiamavano. Una stanza a pianterreno in uno stabile di Martano, arredata con un vecchio divano e due poltrone di vinile, con la fodera un po' strappata; i muri e il soffitto erano insonorizzati con grande cura, mi hanno fatto vedere con orgoglio: vecchi imballaggi per contenere le uova, quelli di cartapesta che ne tengono 36, mi pare, tutti attaccali al muro e al soffitto, uno vicino all'altro.

Parlavano in continuazione tra loro di quello che dovevano fare, distri­buendosi i compiti con eccitazione e senza polemiche: tu porti i volanti­ni, tu attacchi le fotografie. Caterina voleva le stampe originali, non quelle stampate su fogli A4, voleva attaccarle non ho capito dove. Tutti esperti di internet, di ricerche in rete, tutti informati. Le ragazze mi sem­bravano più concrete.

Io li guardavo e mi commuovevo: erano bellissimi, dolci, seri, allegri, in­tensi. Erano splendidi.

La mattina dopo sono venuti a prendermi e mi hanno portato a prendere il caffè, perché Donatella mi aveva portato nel mio appartamento i biscotti e il latte e non il caffè e io, come uno sciocco, ho detto che la mattina pren­devo solo una tazza di caffè e basta; e loro mi hanno potato al bar.

E poi siamo andati ai giardini pubblici e ho trovato una classe di studen­ti poco più giovani dei miei amici, facevano il 2° liceo classico, e due delle loro professoresse. E c'era un ragazzo che stava già discutendo con gli altri di diritto naturale e di diritto positivo e quando sono arrivato mi hanno chiesto come si fa a sapere se una legge è giusta o no e come si fa a obbedire a una legge ingiusta.

E io che sono andato a parlare in tanti posti e che faccio da più di qua­rant'anni il magistrato non sapevo bene cosa dire. Gli ho parlato dei ca­ni e dei loro freni inibitori che bloccano le dispute prima che diventino cruente. Gli ho parlato della legge come alternativa alla forza. Gli ho parlato di etica, di diritto naturale, di norme. Gli ho parlato di legalità, di convenzioni sociali, di ciò che serve per stare insieme.

Ho cercato di parlare in maniera semplice e di banalizzare i concetti e poi ho capito che ero presuntuoso e arrogante e che loro capivano tutto benissimo e che potevo parlare come volevo, spiegarmi al meglio delle mie conoscenze perché erano ragazzi straordinari.

E ho imparato da loro tantissimo; mi hanno detto che, sì certo, bisogna ob­bedire alla legge e che nessuno può arrogarsi il diritto di dire che la legge è ingiusta e che lui non obbedirà. Però, mi hanno detto, se a un certo punto tutto il popolo o una gran parte di esso capisce che la legge non è giusta cosa si deve fare? E mi hanno detto che secondo loro è ingiusto che la politica pretenda di controllare i giudici e che però bisogna essere sicuri che i giudici non agiscano per fare politica anche loro e che spesso non si riusciva a capire bene come stavano le cose perché la televisione e i giornali informavano poco oppure in maniera che si capiva subito che erano menzogne; però, quale fosse la verità nessuno lo diceva, quasi mai. E io non sapevo bene cosa rispondere sulla prima cosa che li appassionava tanto e ho detto solo che pensavo che, quando l'ingiustizia fosse diventata così evidente e così grave, le leggi e chi le aveva fatte sarebbero crollati da soli; mi è venuto in mente il Muro di Berlino, che un giorno ci siamo svegliati e non c'era più e tutti ridevano e ballavano; e ho detto che forse anche a noi sarebbe successo così, che tutto questo che ci cir­condava e ci avviliva, la mafia, la spazzatura, la corruzione, il privilegio dei potenti. tutto un giorno sarebbe scomparso perché tante classi come loro si sarebbero trovate tutte insieme in tanti giardini e all'improvviso politici, giudici, avvocati, imprenditori, tutta la classe dirigente del pae­se sarebbe cambiata e le leggi sarebbero diventate giuste. Perché con gente come loro, che avrebbe governato il paese, non avrebbero potuto esserci leggi ingiuste.

Gli ho detto che essere attenti e informati era la cosa più importante perché solo così potevano essere cittadini e non sudditi; e che dovevano ab­bandonare la televisione che era in mano alla stessa classe dirigente che stava distruggendo il nostro paese e cercare di leggere qualche quotidia­no e i giornali stranieri e raccogliere infornazioni su internet; che non dovevano farsi ingannare da quelli che strillavano in continuazione sulle violazioni delle privacy perché quelli che scelgono ruoli di responsabilità pubblica debbono vivere in una casa di vetro. Gli ho detto che in realtà loro tutto questo già lo sapevano e che perciò avevano messo in piedi il progetto di formazione con le scuole; e che avrebbero trovato tanti av­versari, meschini, ipocriti, asserviti ma che avrebbero vinto perché il mondo di questa gente è piccolo, confinato dall'egoismo; e il loro era grande, pieno di persone come loro e di tutta la gente con cui avrebbero parlato e che sarebbe diventata come loro.

Gli ho detto che i giudici avrebbero resistito: gli ho parlato di Borrelli, di Mani Pulite, della guerra alla magistratura come guerra alla legalità, del sistema giudiziario distrutto dalle leggi ad personam , nate per assicurare l'impunità ai politici e rimaste lì ancora oggi, nonostante i cambi di maggioranza, a dimostrazione che la classe dirigente del paese è corrot­ta; e, se non corrotta, egoista; e, se non egoista, incapace. Ma che loro avrebbero potuto prenderne il posto.

Mi hanno guardato bene e hanno cominciato a palare, tra loro e con me un po' tutti insieme; e io ho pensato oh Dio, mi credono; e se non è vero, se siamo condannati a vivere senza speranza in questo paese in decaden­za, senza etica, senza solidarietà, senza onore? E poi li ho guardati bene anch'io, ho guardato Caterina, e Alessandra, e Marco, e Donatella, e i ra­gazzi che mi avevano accompagnato fin lì e all'improvviso ci ho creduto anch'io.

Faceva caldo e siamo rimasti a lungo sotto gli alberi, in questa piazza di un paese piccolo piccolo, io e questi ragazzi così straordinari.

E poi, nel pomeriggio, sono tornati ragazzi tanto giovani, teneri, delusi e tristi; perché non avevano pensato che c'era la processione e che il paese era tutto dietro la processione: e sotto la grande quercia dove avevano preparato il microfono, le casse acustiche, il mio tavolo e le sedie di pla­stica per tutti quelli che avevano avvisato con e-mail e con il passaparo­la, e dove avevano messo un tavolino con le copie del mio libro e altri li­bri, e tutti erano libri di speranza, di denuncia, di rabbia perfino; in quel campo dove avevano falciato l'erba non è arrivato nessuno. Ed erano così mortificati. E io ho dovuto consolarli e dirgli che erano stati bravissi­mi e che con le processioni è da tanto che perdiamo, ma che non impor­tava perché non sarebbe andata sempre così e poi la cosa importante l'avevamo fatta la mattina, con i ragazzi delle scuole. E Caterina ha avu­to i lucciconi agli occhi e qualcuno si è arrabbiato. Ma poi siamo andati a mangiare tutti insieme, io gli ho rotto le scatole perché fumavano e fi­nalmente gliel'ho detto bene che erano ragazzi straordinari.



(Articolo tratto dalla rivista Micromega n° 5, del 2008.)




Bruno Tinti
è magistrato, già procuratore aggiunto presso il Tribunale di Torino. Ha pubblicato Toghe rotte (Chiarelettere, 2007).


 


        
  Precedente         Copertina