"For us, in South America, the author is society's critical conscience. I hope that in the future this will be the trend in the rest of the world, too." JMM


 

SCINTILLA

"Io sono la materia  della mia opera"
Montaigne

Misha, Svobodan, Pavel ed io. Tutti quanti disperati in attesa della risposta che il colonnello Tilinsky avrebbe dato alla nostra richiesta. Da tre giorni Natalia non usciva dalla propria camera, e ogni tanto dalla sala era possibile udirne i singhiozzi addolorati che tentava di soffocare con il cuscino. Mentre rimanevamo in silenzio, Pavel mormorava tra sé e sé frasi sconnesse di speranza, con una voce quasi impercettibile e lo sguardo fisso sul fondo della tazza di tè, come se il liquido castano nascondesse un’icona sacra.
La sera della sua scomparsa, nostro figlio Igor era stato avvicinato da due sconosciuti (probabilmente poliziotti in borghese) mentre prendeva appunti seduto da solo sulla riva destra della Neva, ed era stato spinto a forza sul sedile posteriore di un vecchio Giguli che fuggì in direzione nord a gran velocità. Da quel momento il nostro piccolo clan di scienziati e scrittori, tutti ex-dissidenti del passato regime (e quasi tutti oppositori di quello attuale), fu scosso dallo shock del sequestro di un giovane poeta venticinquenne, che fino allora aveva conosciuto l'incubo politico solo attraverso i nostri racconti, ma che adesso si trovava alla mercé di chissà quali sordide trame e pressioni.
Appena seppe del sequestro, Svobodan, che considerava Igor come un figlio (anche perché era il ragazzo di sua figlia, la piccola Tatiana), mise da parte il proprio orgoglio e i propri rancori e chiese alla moglie Galina di cercare suo zio, il colonnello Tilinsky, corrotto comandante della Sicurezza Interna della regione di San Pietroburgo, per affidargli la nostra richiesta e pregarlo di scoprire dove fosse Igor, di farlo liberare e riportarcelo.
Tilinsky ricevette la nipote con un’indifferenza calcolata, l’ascoltò in silenzio disegnando scarabocchi su un foglio di carta sopra la pesante scrivania di legno scuro, e alla fine assicurò che avrebbe cercato di fare il possibile per localizzare il ragazzo. Congedando la donna, con un’aria di scherno lascivo che contrastava con l’imponenza dell’uniforme, le chiese se Svobodan scrivesse ancora quei "racconti pornografici che piacevano agli stranieri" e scoppiò in una risata rumorosa che accompagnò Galina fino all’uscita del palazzo come un’ombra scomoda.
Il mio amico Svobodan, sebbene fosse nato all’estero, si era trasferito a San Pietroburgo quando era ancora un bambino, ed era diventato uno scrittore sensibile, dotato di una sottile padronanza della lingua russa. Nonostante ciò i suoi libri, benché fossero ora autorizzati dopo decenni di censura ufficiale e di precaria circolazione clandestina, non avevano ottenuto il successo sperato tra i nuovi lettori di qui, forse perché mostravano le profonde patologie del carattere del nostro popolo, piaghe che non dipendono dalle ideologie o dai regimi politici e che attraversano i secoli solide e imperturbabili come le rocce degli Urali. Nonostante ciò posso affermare che Svobodan capisce la logica e gli affetti della nostra razza con la lucidità che, per esempio, aiutava il lituano Czeslaw Milosz a svelare l’anima dei polacchi.
Nonostante la fredda accoglienza interna, varie edizioni della sua opera erano state tradotte e pubblicate in Europa Orientale negli ultimi anni e "Fiumi di latte e miele", il suo più grande successo letterario, era stato pubblicato in paesi lontani come Stati Uniti, Brasile, Egitto e Corea. Tuttavia, i diritti d’autore che riceveva in rubli marci servivano appena per comprare un berretto di pelle di cervo. Per mantenere la propria famiglia, Svobodan vendeva tappeti turchi e afgani nel suo piccolo e polveroso negozio di Via Ladoga. Ma quasi tutti gli affari andavano male. Non erano molti coloro che potevano comprare degli oggetti ornamentali come i tappeti in quei giorni penosi in cui un paio di stivaletti imbottiti era visto e desiderato come un oggetto inaccessibile.
Il colonnello Grigory Tilinsky, conosciuto come "Grisha il cannibale" dai tempi del KGB di Andropov, è un eterno sopravvissuto politico. La sua brutalità e la sua mancanza di scrupoli, che avevano suscitato l'orrore di Svobodan e di cui lo scrittore si era servito come modello per i personaggi più terribili, sono le stesse che gli hanno sempre consentito di essere utile a tutti i governi, con l’amoralità di un utensile o di un’arma da fuoco che spara nella mano di chi la possiede. Il paese cambia leader, partito, leggi, frontiere, bandiera e persino nome, ma i bruti, i corrotti e le prostitute non sono mai rimossi dalle loro cariche, ostacolati nelle loro faccende o contrastati nei loro interessi. Anzi, trovano il modo di guadagnare ancora di più con il caos delle trasformazioni e con la disperazione del popolo. Dalle steppe alle stive delle navi, dai fiumi gelati alle stazioni orbitali, com’è triste la nostra Russia!
Non mi sarei meravigliato dunque se proprio Tilinsky fosse stato dietro al sequestro di mio figlio, o se perlomeno avesse avuto informazioni su di lui, per tutto il tempo. La verità è che nessuno avrebbe potuto convincere lui e i suoi colleghi a smettere di farci soffrire. Infliggere sofferenze a persone come noi e come Galina, sua nipote, fa parte del suo carattere. Egli è un cane addestrato per perseguitarci e non saprebbe vivere senza mordere i nostri talloni. E poi, non è certo per niente che un uomo riceve il soprannome "Cannibale". Tilinsky è un assassino che ha deciso di dichiarare guerra alla propria gente, o meglio, ad un particolare tipo di persone: l’odiosa piaga dei pensatori. E fu subito a quest’uomo, al nostro boia di sempre, che ricorremmo per salvare nostro figlio, con il terribile sospetto che sarebbe stata un’umiliazione inutile.

II

Pavel, in un intervallo di lucidità tra i suoi mormorii oratori, richiamò la mia attenzione attribuendo la causa del rapimento di Igor a un vecchio incidente nel quale ci trovammo coinvolti durante un breve viaggio a Smolenks, nell’estate del 1980.
Pavel e io avevamo scritto un manifesto contro l’invasione dell’Afganistan da parte delle truppe sovietiche, paragonandola alla disavventura degli americani nel Vietnam e sottolineando, in modo alquanto premonitore, che una futura ritirata avrebbe fatto subire uno scacco al regime e alla sua "nomenklatura".
Avevamo bisogno di stampare quel testo su un migliaio di volantini da distribuire nelle scuole e nelle istituzioni in cui venivano reclutati i soldati. L’informazione sulla guerra era molto scarsa, inoltre le notizie che arrivavano dall’oriente erano filtrate dalla censura, dunque la mattanza che decimava la nostra gioventù era divulgata come se fosse una breve e ben riuscita incursione militare disciplinatrice. In realtà venivamo massacrati sulle montagne e nei sobborghi di Kabul, e il manifesto mostrava pubblicamente i numeri del massacro.
A quel tempo Pavel abitava ancora a Mosca, e divideva l’appartamento con un’artista di Smolensk, Dunyatka Lisenkova, che noi chiamavamo Dunya. Pavel era molto innamorato di lei, e credo che ancora oggi soffra, in segreto, per la sua scomparsa. Scommetto che quando ascolta ripetutamente, in emozionato silenzio, il "Dipso" di Vicente Asencio eseguito da Andres Segovia, rivive nello spirito la forte presenza di Dunya.
Era una donna esplosiva, dal carattere difficile, instabile e capriccioso, ma la sua pittura, un astrattismo di colori vivaci su sfondi scuri e notturni, come un Pollock indemoniato, possedeva un grande vigore, e chi la conosceva non la dimenticava facilmente. Oltre a questo, ella stessa, con la sua bellezza sconcertante, marcava in modo indelebile la retina degli uomini molto più di quanto facesse la sua arte e produceva un terremoto istantaneo nei loro cuori.
I suoi capelli fulvi erano una cornice perfetta per le sue labbra carnose dai lineamenti aggressivi e romantici allo stesso tempo. Le sue sopracciglia, lunghe e arcuate, erano come le ali di un uccello imponente che teneva il suo sguardo tra gli artigli e lo portava ad altezze infinite. Il suo corpo svelto e agile, l’insieme dei tratti del suo viso, facevano dell’artista di Smolensk una specie di demonio confuso che per sbaglio si era materializzato nel corpo di un angelo ed aveva finito per apprezzare il risultato, vedendo che intorno a sé tutto si trasformava in fascino e passione. Così, a quel tempo fu un bene per Pavel che ella lo avesse scelto, per quanto dolorosa e cara fosse diventata quella storia negli anni seguenti. Il fatto è che appena conobbi Dunya, un piccolo dettaglio stimolò la mia sensibilità: il modo in cui ella slacciava il foulard e scioglieva i capelli lentamente, guardando negli occhi un nuovo arrivato come se si spogliasse completamente davanti a lui, fu sufficiente a farmi capire che Pavel non era l’unico uomo della sua vita, e che la piaga aperta dai tradimenti dell’amata non sarebbe mai scomparsa, visto che la crosta veniva sempre tolta prima che la ferita riuscisse a cicatrizzarsi.
Ma tornando al nostro manifesto, Dunya sapeva esattamente di cosa avevamo bisogno: nella sua città c’era una tipografia clandestina che si trovava in un appartamento ufficialmente abitato da due infermiere zitelle, che in realtà dormivano nell’appartamento accanto. La tipografia era diretta da un certo Gavrila, un tipografo ubriacone che per due bottiglie di buon cognac della Georgia avrebbe stampato il proprio certificato di morte e forse avrebbe anche permesso che venisse confermato.
Tramite un amico pittore, Dunya si mise in contatto con Gavrila e fissò il giorno in cui noi tre saremmo andati a Smolensk per stampare. Ella e il suo amico si sarebbero incaricati anche del pagamento, non ricordo se in rubli o bottiglie, e il tipografo avrebbe fornito le risme di carta necessarie, probabilmente rubate o scambiate con vodka in qualche ufficio statale.
Il problema è che Gavrila, venale, con i suoi occhi di pesce, le sue scarpe di camoscio e i suoi braccialetti d’oro, lavorava sia per noi sia per il crimine organizzato, allora già fiorente nelle crepe di una società che andava in rovina, che affogava nel disordine e nell’alcol, che sembrava sempre più una biblioteca di solidi volumi rilegati in oro e ordinati in fila, in cui però nessuno di essi poteva essere prelevato, per il rischio di scoprire la colonia di termiti e di tarli che ferveva dietro i dorsi solenni.
Il mafioso che si trovava nella tipografia di Gavrila nell’istante in cui arrivammo era un tipo alto e magro dai lineamenti asiatici. Qualche mese dopo appresi dalla pagina economica dei giornali che si chiamava Ignat Kolesnikov: era la mente di un complesso intreccio di organizzazioni illegali, bande di strada e pistoleri sparsi, che controllava le rotte sovietiche dell’eroina proveniente dal sud dell’Asia, la prostituzione femminile e maschile, la tratta delle bianche verso la Cina e la distribuzione interna di droga e armi. Oltre ad alcuni affari molto più popolari in quegli anni di miseria: visti d’uscita dal paese e buoni alimentari falsificati che egli proprio in quel momento stava stampando nella tipografia clandestina. Erano buoni-carne, un traffico di proteine che gli scagnozzi di Kolesnikov ammucchiavano e pressavano in grosse valige di cuoio. Noi tre, i "politici", eravamo stati testimoni involontari di quella scena. Li avevamo visti, ci avevano visti. Quelli non dimenticano mai ciò che vedono e preferiscono credere che anche noi abbiamo un’eccellente memoria, la cui efficienza deve essere sotto il loro controllo.
In realtà c’era stato un malinteso e Dunya ci aveva portati ad una festa organizzata per qualcun altro. Finimmo per non stampare i volantini a Smolensk e secondo Pavel quel fatto di tanti anni prima poteva aver contagiato mio figlio Igor solo adesso, come una sifilide che rimane in incubazione per decenni, fino a che si manifesta con tutta la sua virulenza, quando ci si è già dimenticati di essa, facendo impazzire e uccidendo la vittima.
Per quale motivo Dunyatka Lisenkova si era lasciata confondere e aveva messo a rischio la sicurezza di tutti, compresa la sua? Per la sua bellezza, e anche perché fummo così imprudenti da fidarci di una donna così bella in quelle circostanze. Non ci sono preconcetti in quest’affermazione, ma solo la constatazione che una donna incantata dal proprio incanto, inebriata del proprio narcisismo, perde la nozione di limite e finisce per credere che la bellezza debba estendersi a tutto ciò che ella pensa e fa e infine alla totalità del mondo circostante. Era per questa ragione inconscia che la bella Dunya si dedicava all’arte e alle buone cause del momento: perché quell’opera d’arte che era ella stessa fosse incorniciata degnamente e appesa ad una parete non meno artistica e perfetta. Ma il mondo non imita la perfezione. La divora. E Dunya non considerava l’ipotesi che qualcosa andasse male, che il piano fallisse, che esistessero tradimenti, lapsus, intoppi e infine bruttezza e imperfezione. Ella non fece attenzione ai dettagli come avrebbe dovuto, fu negligente nei preparativi, fu scambiata per qualche rublo in più passato da un uomo viscido a un altro, e così causò il nostro disastro, e molto probabilmente la propria scomparsa pochi mesi dopo: Pavel le chiese di aspettare un attimo sulla porta di un club per uomini e quando si voltò ella non era più lì e non sapemmo più niente di lei. Come se fosse una bicicletta. Quindi non è difficile capire perché vengo preso dal panico quando penso a quello che possono aver fatto a mio figlio Igor.
E adesso la questione che quasi ci trasforma in ruminanti. Persone come noi, che vivevano ai margini del sistema, erano state testimoni di uno solo degli innumerevoli delitti del sindacato del crimine, di certo non uno dei più terribili e senza che ci fosse la minima intenzione di denunciarlo: perché tutto questo avrebbe dovuto motivare il sequestro di Igor, che al tempo dell’incidente era solo un bambino di dieci anni, non si era mai allontanato da San Pietroburgo e dalla madre e ancora oggi non sapeva niente di quel fatto? Pavel è convinto che Ignat Kolesnikov cerchi di approfittare della confusione politica della Russia, del labirinto di radicalismi e opportunismi che fiorisce sotto l’ombra barcollante di Boris Eltsin, per candidarsi alla Duma e legittimare nel sistema l’impero che ha creato nel sottobosco. Per questo deve mettere a tacere tutti coloro che giudica capaci di scatenare una campagna di denuncia contro di lui e l’organizzazione. "Mettere a tacere" può significare varie cose per quel tipo di persone: contrattare, comprare, corrompere, ricattare, minacciare, terrorizzare o uccidere. Con Igor nelle sue mani, Kolesnikov ricattava tutto il gruppo, compreso Pavel, che forse lo preoccupava di più per quello che egli stesso aveva fatto a Dunya. Ma sono tutte pure speculazioni. Persino su Dunya non c’è nessuna certezza. Quanto a Igor, fino a quel momento non erano arrivati messaggi o segni che potessero dimostrare il coinvolgimento di Kolesnikov nel caso. Ma una cosa è certa: se un mafioso aspira al potere, è di uomini come Tilinsky che ha bisogno per dare un’apparenza ufficiale alle azioni violente e alla corruzione che accompagneranno l’ascesa politica di tutta la banda. Da questo punto di vista Svobodan aveva trovato l’interlocutore più adatto.
C’è però un’altra cosa che mi spaventa: se i sospetti di Pavel sono esatti, devo temere per la vita di mio figlio. In una società che soltanto da pochi anni è uscita da un regime totalitario in cui lo stato esercitava l’assoluto controllo di tutto, la "malavita organizzata" non è così organizzata come nelle zone dove è più antica, tradizionale e retta da regole immutabili e conosciute da tutti, come nel caso della mafia siciliana, della yakuza giapponese o dei cartelli del narcotraffico in America del Sud. In Russia forse dovremmo parlare di "malavita disorganizzata", come tutto quanto del resto, fatto che lascia gli ostaggi in balia dell’inesperienza, della paura e dell’ansia dei rapitori, in altre parole li rende molto più vulnerabili. In realtà sono tutti dei dilettanti, senza il savoir faire dei veri professionisti del crimine che non sacrificano più vite del necessario. Qui essi sono solo parte di una scoria avida, mossa dallo spirito cinico e maligno che avvelena l’aria, come una malattia della cultura. Sono creature concepite nei periodi tristi della vita di una nazione, quando viene convocato ciò che di peggiore c’è in ogni uomo, e quando una mescolanza di odio per il diverso, invidia verso quasi tutti e paura della caduta finale produce un’eccitata legione di candidati a mostri.
L’ipotesi di Pavel, che finii per chiamare "la maledizione di Kolesnikov", le cui ramificazioni avrebbero potuto passare attraverso vecchi burocrati comunisti, attraverso i loro nemici di sempre o attraverso tutti quanti allo stesso tempo, sfociando in uomini come Tilinsky e in istituzioni come la nuova Duma, è in sintesi la "maledizione" della Russia stessa. I criminali come Kolesnikov, con i loro occhi di zibellino e la loro padronanza del lato asiatico del male (proprio quello che più ci spaventa e dal quale abbiamo sempre tentato di fuggire per vie occidentali), col tempo diventano veri tiranni. Capitalisti selvaggi ante litteram, che trasformano in proprietà loro ciò che era di tutti e che non è diventato di nessuno, essi possiedono il potere della vita e della morte su uomini pacifici come noi e persino sui violenti senza ispirazione, e soffiano sul paese un alito di oppio, una nebbiolina densa che non ci permette neppure di vedere se l’impasto scuro che risucchia i nostri piedi è fango, sangue o vomito di Dio.

III

Noi, le nostre mogli, i nostri figli e figlie che già si innamoravano tra loro, dagli anni sessanta formavamo un gruppo particolarmente affiatato, con una chimica interna inspiegabile. Facevamo parte di una numerosa comunità pensante che si era rifugiata sulla cresta dell’arte, della letteratura e della filosofia, per assistere da lassù all’uscita delle acque, e che intanto distillava l’umore amaro diventato ormai la nostra caratteristica più evidente.
I cinesi, con la loro saggezza ancestrale sul bene e sul male, durante i secoli hanno coniato l’espressione più azzeccata per maledire un nemico: una piaga irrimediabile riassunta nella frase "che tu possa reincarnarti in un’epoca molto interessante". Ecco ciò che era accaduto a noi. Siamo la realizzazione concreta del desiderio estremo della crudeltà asiatica. Ci siamo reincarnati (poveri noi!) in un’epoca interessantissima: il midollo del XX secolo. Il secolo dell’Unione Sovietica. Al tempo in cui ci siamo conosciuti, l’impero sovietico manteneva intatta la propria immagine di potere davanti al mondo. Sebbene dal ’68 fosse scarno di qualunque simpatia, esibiva uno scheletro di solido prestigio (forgiato con un materiale meno inossidabile di quanto si supponesse allora). Ci eravamo preparati ad invecchiare e morire circondati da una struttura che credevamo eterna e non avevamo mai pensato seriamente di vederla in frantumi. Sarebbe stato come aspettare seduti l’erosione dei Carpazi discutendo su cosa coltivare nella futura pianura. Non eravamo né sciocchi né visionari, e non perdevamo tempo neppure con le chimere. Solo molto più tardi i primi indizi innegabili dell’osteoporosi del sistema ci autorizzarono ad alimentare fantasie politiche di libertà (senza però conoscerne ancora il prezzo).
Non era solo il talento per l’umorismo nero a beneficiare del nostro smarrimento, c’era anche un certo fatalismo mascherato da scetticismo che però non era altro che la pigrizia razionalizzata che pensa: se tutto è inutile allora è meglio non fare niente, visto che oltre ad essere più facile, non si corre il rischio di sbagliare.
Michail Vlassov, il nostro caro Misha, era l’incarnazione perfetta di queste due nostre virtù individuali. Adorava passare intere giornate in pigiama, leggendo e prendendo appunti, e niente lo rendeva più felice dell’immobilità domestica. Gli piaceva citare un insolente aforisma di Kafka che diceva: "Non hai bisogno di uscire dalla tua stanza. Rimani seduto al tavolo e ascolta. No, non ascoltare, semplicemente aspetta. No, non aspettare neppure. Rimani immobile e da solo. Il mondo si offrirà a te per essere smascherato: non ha scelta e finirà per rotolarsi in estasi ai tuoi piedi". Misha ripeteva sorridente: "Il mondo non ha scelta…".
In quel quinto giorno di attesa di notizie di Igor, Misha era l’unico che manteneva i nervi saldi. Attaccava discorso con me e con Svobodan per non permettere che il silenzio prolungato degenerasse in isteria. Il monotono adagio formato dai singhiozzi di Natalia, dalle preghiere di Pavel e dai sospiri del vapore nei tubi del riscaldamento avrebbe finito per portarci via l’equilibrio che ci restava e per condurci verso il pericolo delle decisioni sbagliate, se non fosse stato per la presenza efficace e discreta di Misha che interveniva su ciascuno di noi appena si accorgeva che questo o quello strumento era male accordato. E se non era proprio possibile un andamento allegro, egli per lo meno manteneva intonato il nostro adagio.
Verso le due e mezza di mattina, dopo che Galina si unì a noi e preparò una zuppa di cipolle e fette di pane che divorammo con piacere, Misha chiese a Svobodan la poesia che mio figlio aveva scritto per Tatiana quando la vide danzare per la prima volta; la lesse a voce alta per dare una nota di lirismo all’ambiente nervoso, o chissà, forse per riportare Igor a casa attraverso l’emanazione dei suoi propri sentimenti nella notte fredda.
Era la poesia di un giovane sensibile e innamorato che paragonava la grazia dei movimenti dell’amata e l’esplosione nel proprio petto alla danza dei raggi del sole in primavera, delicati fasci di luce che provocavano il disgelo della Neva e rivelavano, sotto la gelida immobilità, il potenziale di furia e di passione delle sue acque.
Misha era particolarmente legato a quella poesia, essendo la persona più vicina a Igor nel periodo in cui era stata scritta: una specie di consigliere cinico e specialista in cattivi consigli, che fu il primo a leggerla. Essendo uno scienziato del comportamento, uno studioso di impulsi che l’uomo pensa di controllare e che a mala pena giustifica, Misha era diventato l’educatore della fase adulta di mio figlio. Un "anti-educatore", direbbe qualcuno, che controbilanciava il romanticismo, l’idealismo e la generosità illimitata del giovane con la propria visione nichilista e scettica, che additava con ironia gli interessi egoistici e la vanità nascosti sotto gesti disinteressati e sentimenti nobili, aspettando che il nostro piccolo Byron, imbrattandosi di un po’ di Machiavelli, arrivasse a possedere la mente più raffinata, sintonizzata con i tempi che corrono e capace di guidare il corpo che la contiene per i meandri della sopravvivenza.
Misha terminò la lettura della poesia e un pesante silenzio si abbatté su tutti noi che non osavamo guardarci l’un l’altro. Ma non era un vero silenzio di dolore, era piuttosto di sorda attesa. Qualcosa stava per accadere e tutti ne eravamo consapevoli. Prima che l’orologio a pendolo battesse le tre del mattino, sentimmo il rumore di un’automobile che si fermava davanti al palazzo. Nonostante l’intensa nevicata, attraverso la finestra vedemmo due uomini che facevano uscire qualcuno da una limousine Zil nera e lo scortavano fino all’entrata dell’edificio. Pochi secondi dopo stavano bussando alla nostra porta. Natalia volle alzarsi, ma io la trattenni e chiesi a Misha di aprire.
I due uomini avevano lineamenti duri e stanchi. Era impossibile indovinare da dove venissero. Non sembravano poliziotti. Forse erano militari in borghese. Il più alto disse il mio nome. Mi alzai. Mi guardò in viso in silenzio per qualche secondo e mi porse un biglietto dove c’era semplicemente scritto: "In risposta alla vostra richiesta, con i saluti del Colonnello Grigory A. Tilinsky". Poi mi consegnarono mio figlio Igor e se ne andarono.
Allora Igor rimase a lungo immobile, appoggiato allo stipite della porta, senza decidersi ad entrare, privo d’iniziativa, guardandoci sconcertato, confuso, apatico. Non era come se non ci riconoscesse, ma come se avesse perso l’intimità e la complicità naturale che aveva sempre avuto con noi.
Quel mattino cominciai a capire che ci sono cose peggiori della morte, e che la nostra Russia stava imparando rapidamente a produrle.

IV

A partire dal ritorno di Igor nel nostro gruppo (se possiamo affermare che era tornato) un grande e travolgente mistero s’impossessò di noi. Ciò che non è lo stesso ma che non è nemmeno altro. Ciò che non si osa pensare senza paura. Insomma, ciò che abbiamo finito per chiamare "lo sconosciuto perverso", o l’inconnu pervers, in francese, lingua che usavamo come codice quando parlavamo di alcuni fatti nei luoghi pubblici.
Quali erano questi fatti? Episodi del comportamento di Igor, della sua nuova quotidianità tra noi, assolutamente incomprensibili, come tessere sparse di un mosaico distrutto; solo pochi pezzi, e per quanto noi avessimo cercato di combinarli e giustapporli, non saremmo riusciti a visualizzare la figura che l’insieme avrebbe formato. Sapevamo soltanto che durante i giorni della sua scomparsa doveva essere successo qualcosa, qualcosa di terribile di cui Igor si rifiutava di parlare: abbassava la testa, diventava rosso in viso e stringeva i denti appena gli venivano fatte delle domande. Qualcosa che aveva trasformato la sua vecchia personalità, o meglio la sua antica essenza, la sua identità, e che ci aveva lasciati di fronte ad uno sconosciuto con la fisionomia di nostro figlio, qualche ricordo e poco più. Ci aveva lasciati davanti ad un estraneo. Peggio, ad un sospetto. O ancora peggio, ad una trasfigurazione assolutamente impenetrabile.
Attraverso quali segnali si manifestava l’inconnu pervers nel comportamento e nei gesti di mio figlio (o del simulacro che lo aveva rapito)? Senza pretendere di mettere ordine nel caos, elencherò i cocci del mosaico enigmatico in una successione aleatoria, simile a quella in cui si presentarono alla nostra perplessità. A connetterli, solo la sfida di un senso improbabile o al di là della nostra intelligenza, una logica strana che si articola davanti all’orizzonte della nostra immaginazione.
Ma prima del freddo elenco, devo aggiungere qualcosa sul comportamento generale di mio figlio. Dalla notte del suo ritorno non ebbe un attimo di pace. Una tensione brutale lo consumava continuamente. I nervi sempre a fior di pelle, i gesti bruschi, le pupille irrequiete erano diventati la sua impronta, in un modo così inquietante che nessuno, neppure la dolce Tatiana, riusciva a rimanergli accanto per molto tempo. Era come se nel suo petto ci fosse una caldaia che consumava tutta l’energia che poteva assorbire; una fornace insaziabile che lo manteneva in stato di guerra permanente contro tutto, principalmente contro sé stesso; una frenesia di uccello appena messo in gabbia; una voragine senza nome.
Passiamo alla lista degli spropositi:
Primo. Quando gli veniva chiesto dov’era stato durante tutti quei giorni, Igor rispondeva in modo vago: "Omsk, penso". Ma è poco probabile che Igor fosse stato portato in Siberia e ricondotto a San Pietroburgo in così pochi giorni. Forse "Omsk" non era il nome della città siberiana, ma quello di una prigione o di un nascondiglio isolato.
Secondo. Varie volte ci chiese di cambiare disco quando Pavel ascoltava il "Dipso" di Vicente Asencio. Appena la musica cominciava, egli sembrava irritato. Il "Dipso" era stato il pezzo musicale preferito di Dunyatka Lisenkova ai vecchi tempi. Ma Igor non poteva ricordarsi di lei.
Terzo. Tatiana una volta lo vide che camminava veloce per strada e decise di seguirlo. Si fermò davanti ad un hotel e per circa quindici minuti rimase a parlare con il portiere in uniforme, come se stesse aspettando qualcuno che però non arrivò. Quando la notte gli venne chiesto cosa avesse fatto durante il giorno, Igor mentì, dicendo di aver trascorso il pomeriggio seduto sulla riva destra della Neva, leggendo il giornale e osservando il fiume.
Quarto. Faceva incubi così terribili durante il sonno che si dibatteva e sudava. Durante quei sogni Igor balbettava parole incomprensibili in una strana lingua asiatica, qualcosa di simile al mongolo. Le parole uscivano a fiotti, con un’intensità crescente, fino a che si svegliava affannato e spaventato. La mattina Igor sembrava un morto vivente. I suoi tentativi di sorridere socialmente risultavano smorfie sgradevoli, con i lati della bocca tesi e lo sguardo fisso, duro, senza vivacità, incorniciato da occhiaie profonde e violacee. Sembrava che mio figlio fosse stato davanti alla morte, o molto vicina ad essa, e fosse tornato solo in parte. C’erano forti indizi di cadavere in tutta la persona. Era uno zombie che non si rassegnava.
Quinto. Un sabato sera Natalia trovò il figlio seduto da solo sulle scale del corridoio del palazzo; piangeva con la testa tra le mani mormorando: "Mi fa male, mi fa tanto male".
Sesto. Igor aveva improvvisamente perso ogni interesse per Tatiana, ma almeno in apparenza non sembrava che ci fosse un’altra donna nella sua vita. Ogni tanto usciva con la ragazza per andare a ballare prendendo parte alla febbre della disco-music che ultimamente si era impadronita del paese, ma cambiava discorso quando l’argomento era il loro rapporto, e non baciò più Tatiana con l’ardore di un tempo.
Settimo. Igor cominciò ad evitare la compagnia di Misha, come se temesse la sua conoscenza della psicologia e la sua capacità di percepire le sfumature del comportamento altrui. Davanti al compagno di lunghe chiacchierate, Igor adesso si sentiva imbarazzato, a disagio, impacciato nei movimenti e parsimonioso con le parole.
Ottavo. Natalia trovò nella sua rubrica una nota scritta da lui che diceva: "Una scintilla è fuggita dal fuoco. È entrata dentro di me e mi ha illuminato, e con una luce sempre più incandescente mi ha incendiato lo spirito e mi ha consumato nelle fiamme".
Vorrei che fosse chiaro che avere un figlio è un evento colossale. L’unione di te stesso con qualcosa di nuovo, diverso, autonomo, ti lascia con una specie di dolce perplessità che intenerisce il cuore. Avere un figlio è un esercizio di generosità il cui peso crescente ci stimola, invece di intimidirci. Non è solo un’alterazione chimica come la passione, ma un cambiamento negli elementi della materia che ci costituisce. Io so e penso che anche le altre persone sappiano tutto questo, coscientemente o intuitivamente. Per questo temo che ciò che sto per dichiarare possa scioccarle, ma ultimamente, terrorizzato dalle metamorfosi di mio figlio Igor, mi sto preparando ad ucciderlo, per distruggere quella specie di male incomprensibile che porta con sé ovunque egli vada. Bisogna che qualcuno spenga l'incendio provocato dalla "scintilla" a cui allude nell’annotazione, qualunque cosa sia. Si tratta di un incendio di così vaste proporzioni che in breve tempo, se Igor non venisse ucciso, carbonizzerebbe tutti noi.
Io non sono un assassino. Sono uno scienziato. Ma sono anche un uomo di clan, l’abitante di un villaggio che non può permettere che un cane rabbioso giri liberamente per le strade. Anche se si dovesse trattare di mio figlio, fedele compagno. E comunque ora non lo è più. È la morte che fuoriesce dal suo muso con una bava bianca e pastosa. L’abitante del villaggio, uomo forte di una popolazione fragile, conosce il dovere del sacrificio e non esita davanti ad esso.
Qualcuno potrebbe aggiungere: con la morte di Igor scomparirà la spiegazione del suo mistero, che non sarà mai risolto. Ma, rispondo io, scomparirà anche la sua sofferenza, visto che la nostra cambierà natura. E cosa mi importa della spiegazione dell’inconnu pervers? Una tempesta di neve tra poco lo seppellirà, e nessuno riuscirà mai a confermare la "maledizione di Kolesnikov", la risurrezione di Dunya o i sordidi stratagemmi di Tilinsky. È meglio così, per tutti.
Che io uccida mio figlio con un colpo di grazia è ciò che silenziosamente mi chiede il mio clan, le persone che amo e che mi amano, e si tratta di una richiesta che non si può rifiutare. Durante la Grande Guerra quanti padri hanno preferito uccidere i loro figli piuttosto che farli cadere nelle mani degli invasori nazisti? Diciamo che si va formando una nuova tradizione russa. E che io, senza volerlo, finirò per farne parte.
Come ciò accadrà è solo un dettaglio. L’importante è che accada. E nessuno ne saprà niente fino ad un istante dopo l’esecuzione. Può sembrare strano, ma io so che Igor non tenterà di difendersi, che si farà uccidere senza resistenza, perché l’incendio l’ha ormai consumato. Egli è già morto, e lo sa. È solo cenere da soffiare via. E sta soffrendo.
Misha, Svobodan, Pavel e io. E le nostre mogli. Tutti vorremmo indietro Igor. Ma se non è più possibile, vorremmo indietro almeno la nostra pace. E io otterrò questo con le mie stesse mani. Quanto al rimorso è un fantasma che non mi spaventa, perché io so soffrire. La mia gente sa soffrire come nessun altro al mondo. Non ci sono dubbi sul fatto che ci siamo specializzati. Abbiamo persino costruito una storia in stampi perfetti perché soffrissimo il più possibile.
Il dubbio ci perseguiterà, è chiaro. Ma forse non ci perseguita sempre? Tu che stai leggendo, danza con il mistero. Fai del dubbio la tua musica e lasciala suonare, con le sue variazioni su uno stesso tema, con i suoi contrappunti, con i suoi movimenti…Pensa a mio figlio Igor. Ho già detto tutto ciò che sapevo sulla sua terribile trasformazione. Pensa ad essa: rifletti sui fatti di cui disponiamo e trova il suo senso occulto. Io ho già raggiunto il limite. Ma per te non ci sono limiti, perché tu sei circondato da parole. E nelle parole c’è una trasparenza che addolcisce la muta opacità delle cose.

Traduzione di Elena Campani