DUE NOTE SULL'IDENTITÀ

Melita Richter


Nota prima.
"Si pensa all'identità ogniqualvolta non si ha certezza di una appartenenza, quando non si è sicuri su come collocarsi nella varietà apparente degli stili e di modelli di comportamento."1 Questo avviene più spesso laddove gli individui e interi gruppi di popolazioni sono indotti agli spostamenti, agli attraversamenti dei confini statali, geografici e culturali, dove con gli spostamenti fisici e la ricerca di condizioni di una vita migliore, anche le identità vengono sospinte al processo di trasformazione. Molteplici fattori influiscono sul fatto se questa trasformazione risulterà armoniosa oppure conflittuale; ad ogni modo, si tratterà di un certo "aggiustamento identitario" e della ricomposizione dell'identità del migrante che, almeno nella fase iniziale, si trova sospeso fra due diversi modelli di vita, fra quello del paese d'origine e quello del paese di accoglienza. Eppure, non è sempre necessario migrare, spostarsi nel mondo per subire trasformazioni e "aggiustamenti" del tipo identitario. Si può vivere nel proprio paese, non allontanarsi affatto dal luogo di nascita e trovarsi costretti a profonde trasformazioni del senso di appartenenza. La testimonianza che ci riporta il filosofo Ivan Ivekovic non è né rara né esclusiva: "Mio padre è nato in Austria-Ungheria, io nel Regno di Jugoslavia, i miei due figli nella Repubblica Federale Socialista Jugoslavia ed io sono un cittadino croato che vive temporaneamente in Egitto, ma non posso prevedere dove nasceranno i miei nipoti e come si identificheranno"2. Nei Balcani simili percorsi identitari hanno segnato la maggior parte dei nuclei familiari, ma lo stesso avviene anche altrove ove si disgregano i grandi imperi sovranazionali, multinazionali e multietnici. Nel caso della Jugoslavia, il crollo non è stato "fisiologico"; esso è risultato da contrapposti nazionalismi che hanno indotto a una guerra fratricida, cruenta e spietata proprio contro coloro che dimostravano una maggior resistenza alla riduzione delle identità plurime a un'unica dimensione, quella etnica. La grande omogeneizzazione nazionale guidata e diffusa dai centri di potere nazionali ha trovato il suo Altro in coloro che si sono trovati improvvisamente su una sponda diversa, stigmatizzati come indesiderati in base all'appartenenza etnica, ideologica, religiosa. L'affermazione delle nuove identità statali e la loro disperata ricerca di differenziazione e di separazione dall'Altro ha portato alla negazione delle identità meticce sedimentate, ibride, ha radicato la distanza dall'Altro anche nel proprio corpo nazionale. Una dilagante miopia politica che adotta come propria la filosofia del zero sum game, traducibile in "affermazione mia - negazione tua", o più esplicitamente e rudemente "vita mea, mors tua", non se ne accorge che la negazione dell'Altro spesso significa la mutilazione del proprio essere storico, del proprio vissuto, della complessità culturale insita nell'identità culturale europea.
La questione non solo dei Balcani, ma del futuro europeo non consiste nel radicamento e nella difesa delle identità particolari, esclusive, ma nella capacità di uno sviluppo armonioso di identità plurime o, per lo meno, nella promozione di quella preziosa arte del vivere con l'Altro, con il diverso. Nel saper con-vivere. Per stimolare e valorizzare quest'arte sono necessarie alcune pre-condizioni di cui elenchiamo:
- l'accesso al diritto alla cittadinanza,
- il rispetto dei diritti delle minoranze etniche, linguistiche, culturali, religiose e altre,
- il rispetto del diritto alla differenza,
- un sistema educativo e scolastico che promuova la conoscenza di culture altre e valorizzi il loro patrimonio
- i mass media privi di meccanismi di stereotipizzazione dell'Altro e della sua criminalizzazione e, allo stesso tempo, attenti alle storie di integrazione positiva degli immigrati,
- la valorizzazione dell'apporto della popolazione straniera allo sviluppo (non unicamente economico) della società autoctona,
- la promozione del dibattito sulle identità plurime,
- la promozione del dibattito sull'identità e sulla cittadinanza europea e sul suo futuro,
- l'articolazione delle politiche di accoglienza,
- l'individuazione e l'equipaggiamento dei luoghi e degli spazi dove promuovere l'incontro e lo scambio di esperienze tra autoctoni e gli immigrati,
- incoraggiamento dell'assunzione consapevole della propria diversità.

Nota seconda.
Durante la guerra nei Balcani e specialmente dopo la formazione dei nuovi Stati-nazione, spesso mi venivano rivolte le domande: "Ma tu, cosa sei? Sei croata o jugoslava?" Rispondevo invariabilmente: "L'una e l'altra. E più ancora". E mi rammentavo di Amin Maluf al quale venivano poste le domande simili sul suo "essere libanese, oppure francese" alle quali egli rispondeva alla stessa maniera, chiarendo che lo fa: "non per scrupolo dell'equilibrio e di equità, ma perché, rispondendo in maniera differente, mentirei. Ciò che mi rende come sono e non diverso è la mia esistenza fra due paesi, fra due o tre lingue, fra parecchie tradizioni culturali. E' proprio questo che definisce la mia identità. Sarei più autentico se mi privassi di una parte di me stesso?"3
La mia esistenza oltrepassa il mero fatto genetico secondo il quale la mia indiscussa identità croata viene data per sempre. L'esistenza è la vita stessa e questa consiste di esperienza, di convinzioni acquisite, di sensibilità personali, di affinità, di spazi nei quali uno si muove, di lingue in cui comunica, canta, prega, di alfabeti in cui scrive, di libri che si porta dentro, di cibi di cui si nutre, di acqua e di vino che beve, di celebrazioni che onora, di quel preciso odore della terra e del vento che allargano le sue narici e gonfiano il cuore, di musica che ascolta, suona, di persone che ama o non ama… Per cui, la mia identità non può essere ridotta ad una sola appartenenza definita dalla nascita. Essa corrisponde al personale appropriarsi delle vibrazioni dei molteplici cerchi di esperienze distinte, tra loro non escludenti, ma piuttosto confluenti. Corrisponde ai luoghi e agli spazi dove io mi sento a casa. A suo tempo, riflettendo sul concetto di essere stranieri e riferendomi alla mia attuale vita a Trieste, scrissi: "In questa città io continuerò a rivendicare tutte le mie identità. Tutte quante sono diventate parte di me, quelle ereditate e quelle acquisite: donna, zagabrese, croata, jugoslava, mitteleuropea, europea, mediterranea, continentale, forse ebrea, sicuramente nomade… e perché no, triestina e anche sciava! Spero soltanto che la capacità di acquisirne altre non si esaurisca qui"4.
Una progressiva acquisizione di identità nuove diventa il processo del tutto naturale per coloro che attraversano diversi contesti geografici e culturali. Ogni cultura viva cambia e l'artefice di questo cambiamento sono donne e uomini. Esprimendomi alla blochiana, direi che gli uomini sono più figli del loro tempo che dei loro padri. Per cui, riprendendo le parole di un altro grande errante nel mondo, Tzvetan Todorov: "condannare l'individuo a restare chiuso nella cultura dei suoi antenati presuppone che la cultura sia un codice immutabile, cosa empiricamente falsa"5, ci accostiamo al vissuto di molti viandanti sospesi tra essere "qui" e "la", tra il sentirsi "a casa" nel paese ospitante ed "essere stranieri a casa propria". Artefici di quel mondo ibrido dove l'appartenenza si colora di tinte miste e soffuse, essi non saranno mai più aderenti completamente alla società che si sono lasciati alle spalle, né parteggeranno completamente a quella di cui sono diventati figli adottivi. E' un tema a cui sono state dedicate tante pagine letterarie come pure quelle di cronaca, tema attorno a cui si sono consumate vite di generazioni intere. Difficile aggiungere qualcosa di nuovo anche se ogni soggetto migrante disegna la propria parabola intima in questa traiettoria universale, carica di promesse, speranze, coraggio, creatività e sofferenza. Tanta creatività e tanta sofferenza come ad ogni nuova nascita. Partire da zero, re-inventare un'esistenza nuova, darle il senso, è come una nuova nascita. Essa richiede grande coraggio, capacità creative e non di rado produce stati di sofferenza acuta. Per le relazioni umane lacerate, per tutte le privazioni affettive, culturali, geografiche. Ci vogliono tempo e perseveranza affinché questa nascita divenga consapevole e affinché, allo stesso modo del senso della non-appartenenza, ci troviamo depositari di una ricchezza aggiuntiva, quella dell'appartenenza alle due o più culture in un modo armonioso, naturale. Ancora una volta Todorov ci riporta la sua preziosa testimonianza, così vicina e veritiera a quella che abbiamo sperimentato:
"Un giorno ho dovuto ammettere che non ero più uno straniero, o almeno non lo ero più nel senso in cui lo ero stato in precedenza. La mia seconda lingua si era sostituita alla prima, senza strappi, senza violenza, nel corso degli anni.(…) Da un giorno all'altro scopro di avere una visione dall'interno di due culture e di due società diverse. Era bastato che mi trovassi di nuovo a Sofia perché tutto ritornasse immediatamente familiare; non avevo più bisogno di processi di adattamento preliminari. Non mi sentivo meno a mio agio come bulgaro che come francese e avevo l'impressione di appartenere al tempo stesso a tutte e due le culture"6.

1 Zygmund Bauman, La ricerca dell'identità, in Prometeo, Rivista trimestrale di scienza e storia, anno 13, n. 49, marzo 1995, p. 8
2 Ivan Ivekovic, Postille sull'identità, in Identità e genere nel conflitto jugoslavo (ed. Melita Richter). Libro in preparazione.
3 Amin Maluf, L'identità, I grandi passaggi Bompiani, Milano, 1999, p. 7
4 Melita Richter Malabotta, Essere stranieri in "Trieste vista con gli occhi dell'Altro", Quaderni interculturali n. 1, Trieste, giugno 1999
5 Tzvetan Todorov, L'uomo spaesato. I percorsi di appartenenza, Donzelli Editore Roma, 2000, p. 11
6 Tzvetan Todorov, ibid. p. 5


Melita Richter, nata a Zagabria, laureata in sociologia, master in urbanistica. Vive in Italia dal 1979. Ha collaborato a riviste specializzate e culturali in patria e all'estero. Ha curato i libri "L'Altra Serbia, gli intellettuali e la guerra", Selene ed. Milano 1996 e (assieme a Maria Bacchi) "Le guerre cominciano in primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo", Rubbettino, 2004. I suoi testi trattano argomenti legati ai Balcani, la critica dello Stato-Nazione, la condizione delle donne migranti, l'allargamento europeo. Scrive anche poesia. Vincitrice del premio nazionale di poesia 2003 "Belmoro", Reggio Calabria.



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