DIASPORE
- Un'intervista con Paul Gilroy -

 

Miguel Mellino

 

D - I tuoi primi lavori sono venuti fuori nell'ambito del "Centre for Contemporary Cultural Studies" di Birmingham. C'è qualcosa che rimane nel vasto panorama dei "cultural studies" contemporanei del progetto originario del centro? Ha senso parlare oggi di "Cultural Studies"? Mi riferisco al fatto che oggi la tensione politica, quasi militante, del primo periodo sembra essersi appannata. La sensibilità per gli oppressi, per le vittime del razzismo e del sessismo, dello sfruttamento economico, in testi come "Learning to Labour", "The Empire Strikes Back" o "There Ain't no Black in the Union Jack" sembra aver lasciato il posto a discorsi sul meticciato, sull'ibridazione e sulla differenza un po' vaghi o astratti o almeno scissi dai conflitti politico-economici contemporanei più pregnanti...

R - Penso che ciò che dici sia vero. Per me, molto di quanto viene oggi praticato o insegnato come cultural studies non è sufficientemente serio. Soprattutto in rapporto a questioni come l'analisi del potere, del sapere oppure in rapporto alla necessità di una pratica scientifica veramente multidisciplinare. Possiamo datare questa nuova fase in modo molto preciso: con il trionfo della cultura consumistica, il cui sviluppo dai primi anni Ottanta in poi ha veramente sedotto tanta gente. Da questo punto di vista, la natura della sconfitta che ha vissuto la sinistra fu una esperienza traumatica per molte persone. A quel punto è diventato molto difficile mantenere certe tradizioni di pensiero in diversi paesi e località, in luoghi con diverse risorse o tradizioni istituzionali. Si sono presentate nuove possibilità, per esempio negli Usa i cultural studies sono andati sempre di più verso gli studi letterari, mentre in Inghilterra lo spirito delle posizioni dei primi cultural studies è penetrato sempre di più nelle scuole e nei livelli più bassi dell'istruzione. Se studi al liceo materie come Comunicazione o Sociologia dovrai sicuramente leggere molti dei lavori della scuola di Birmingham, vale a dire le cose scritte in passato da Stuart Hall, Dick Hebdige, Angela McRobbie o anche da me. In un certo senso, lo spirito dell'impegno che ci ha contraddistinto a Birmingham non si ritrova oggi tanto nell'insegnamento universitario o superiore, quanto nei livelli più bassi dell'istruzione e del sistema educativo complessivo. In altri paesi europei, invece, c'è una battaglia contro quella che possiamo chiamare la prospettiva multidisciplinare dei cultural studies. (...)

D - Ti faccio una domanda un po' provocatoria: si può considerare il movimento di contestazione globale nato a Seattle come una delle varianti possibili di un nuovo "umanesimo planetario" di cui spesso scrivi?

R - Me lo domando anch'io. Può darsi che si tratti di un nuovo cosmopolitismo, non so se parlare in riferimento a questo movimento di nuovo umanesimo. Faccio un esempio: di quali diritti parliamo nel caso dell'acqua? Noi siamo acqua. Per questo motivo, penso che la lotta per l'acqua sia un caso interessante del modo in cui persone in luoghi diversi, di culture diverse, con ambienti diverse e a partire da circostanze politiche ed economiche diverse abbiano un interesse comune a garantirsi l'accesso ad un elemento essenziale per la vita umana. Se ci pensiamo fino in fondo, la questione della privatizzazione dell'acqua può avere risvolti esilaranti, ma ci dice anche come potrebbe essere questo nuovo umanesimo planetario. Ci sono modi simili per affrontare altri dei nodi più importanti della politica mondiale di oggi, come la questione della lotta all'Aids e la protesta contro i brevetti e contro le speculazioni portate avanti dalle grandi multinazionali farmaceutiche. Alcuni modi di affrontare tutti questi problemi possono cambiare il nostro senso dell'umanesimo. E soprattutto non lasciare che il significato dell'umanesimo si restringa alla sola questione dei diritti umani (...). Tuttavia, devo constatare che all'interno del movimento c'è poca gente che parla di temi come il razzismo o l'imperialismo. A volte penso che molti non li considerano temi all'ordine del giorno. Negli Stati uniti, non a tutti piace una situazione del genere. Dopo le manifestazioni di Seattle, ad esempio, ebbe grande diffusione un articolo scritto da una manifestante nera per la rivista Colour Lines, in cui denunciava: sono stata arrestata a Seattle e mi sono resa conto che in carcere non c'era nessuno come me, nessuno del mio colore. Molti dei miei studenti neri hanno gradito questo articolo, ma io mi sono molto arrabbiato con loro. Cercavo di farli ragionare: cosa vuol dire che non c'era nessuno come voi? Se avevano mani, due occhi, se avevano un corpo umano vuol dire che erano uguali a voi! In questo senso, credo che le questioni della somiglianza e della differenza e di come si debbano bilanciare questi equilibri nel nostro impegno politico aprano delle possibilità molto eccitanti rispetto al passato. C'è da essere comunque ottimisti, anche se al momento c'è tanto ancora da fare. Vorrei in ogni caso che il movimento no global pensasse di più alla storia di fenomeni come il razzismo e come l'impero. Per capire l'impero americano oggi bisogna riflettere necessariamente sul suo rapporto con i progetti coloniali europei precedenti, bisogna capire, ad esempio, perchè gli americani negli anni Cinquanta si sono sostituiti ai francesi in Indocina, perchè si sono posti come gli eredi del progetto del colonialismo britannico nel mondo. Penso che ci dobbiamo porre tali domande, per non soccombere alle categorie razziali così come oggi le troviamo nel mondo(...).

D - Alcuni critici hanno sostenuto che l'11 Settembre ha messo fine alle concezioni più semplicistiche di una parte della teoria postmoderna e anche della teoria postcoloniale sulle dinamiche e gli effetti della globalizzazione. E' come se il capitalismo stesso, mostrando il suo volto più terribile, le enormi contraddizioni su cui si regge, abbia messo in qualche modo fine all'entusiasmo postmoderno per la globalizzazione. In particolare, mi sembra che i discorsi più superficiali sul rapporto tra la globalizzazione e il meticciato o tra la globalizzazione e l'ibridazione o il multiculturalismo, quei discorsi sulla cultura "pronti per l'uso" di cui parlavi prima, abbiano bisogno di un serio ripensamento alla luce di quanto sta succedendo oggi. Pensi che gli attentati di New York, le guerre in Afghanistan e in Iraq e le terribili crisi economiche in cui sono precipitati molti paesi sud e centroamericani possano stimolare all'interno della teoria sociale una riflessione sulla globalizzazione decisamente più politica e meno "estetica" o "letteraria"?

R - Io mi aspetto che sia così. E ti spiego anche perché. La guerra in Iraq e il tentativo americano di dominare il mondo ha fatto sì che quasi tutto il mondo si rivoltasse contro. Non riesco a capire perché agli americani non importi nulla di questo fatto. Non si capisce quale interesse possano avere nel contribuire alla formazione di un'opinione pubblica globale decisamente anti-americana. Questa situazione è stata ben esemplificata dalle gigantesche manifestazioni pacifiste in tutto il mondo del 15 Febbraio del 2003. Queste mobilitazioni hanno fatto intravvedere lo sviluppo di una vera opinione pubblica mondiale, non erano una creatura mediatica come tanti altri fenomeni di massa. Per questo motivo, credo che sia un momento fantastico per aprire nuove possibilità. Ma è sempre complesso e difficile, perché, ovviamente, quando io valuto positivamente il fatto che quasi tutto il mondo si sia schierato contro gli Stati uniti in questa opportunità, non intendo presentarmi come sostenitore di Al Qaeda e non leggo le azioni del fondamentalismo islamico come una forma di critica al capitalismo o di anticapitalismo. Ovviamente, non auguro a nessuno di dover subire lo sviluppo di una teocrazia autoritaria, sono cose che mi fanno orrore. Ho ben chiaro che le persone che intendono favorire questo tipo di sviluppi sono anche loro i miei nemici. Ma per molte persone è in gioco un processo complesso di identificazione, soprattutto nel vedere che anche gli Stati uniti sono vulnerabili. E il mio desiderio, in quanto persona che vive in America, è che una parte della gente che fa politica si renda conto della propria vulnerabilità. E che usino questo senso di vulnerabilità come uno dei modi per connettersi con tutte le altre persone che vivono la propria vulnerabilità, che sentono la propria vulnerabilità, giorno dopo giorno. (...).

D - Ci puoi parlare del libro a cui stai lavorando adesso?

R - Si tratta di un saggio sul significato di ciò che chiamo "malinconia postcoloniale". Mi interessa mettere in luce i motivi che impediscono all'Inghilterra di rassegnarsi e trasformarsi in un piccolo paese del mondo, di rinunciare al desiderio di essere "grande" a tutti i costi. E' un problema associato alla figura di Churchill, per il quale c'era l'Europa da una parte, gli Stati Uniti dall'altra e l'impero britannico tra tutte e due. L'immaginario politico britannico si configura proprio nell'intersezione di questi tre elementi. E ciò che cerco di capire è perché sia così faticoso per gli inglesi rompere con quel modello o, meglio, che cosa lo rende così attraente per una parte degli inglesi. La mia nozione di "malinconia postcoloniale" in riferimento alla situazione della Gran Bretagna contemporanea è stata in qualche modo stimolata dalla lettura di "The inability to Mourn" di Alexander e Margarete Mitscherlich. Questo testo è comparso in Germania negli anni Cinquanta, ma è stato tradotto in inglese solo negli anni Settanta. Ha un impianto freudiano quasi classico e cerca di mettere in luce le patologie della società tedesca nell'immediato secondo dopoguerra derivate dall'incapacità di fare i conti con la figura di Hitler e con il nazismo, ma soprattutto con le proprie responsabilità nello sviluppo di questi fenomeni. Era precisamente l'incapacità dei tedeschi di affrontare le loro colpe a renderli più vulnerabili, a creare nel paese clima o stato d'animo di depressione collettiva. Mi sono chiesto se non si potesse utilizzare questa cornice interpretativa per leggere alcuni dei modi con cui l'Inghilterra, ma anche le altre nazioni europee, (re)agiscono nei confronti della figura dell'immigrato postcoloniale. Ad esempio, perché si parla dell'immigrazione nei termini di una guerra da combattere o di un'invasione da fermare? In che modo la memoria delle vere guerre combattute dagli europei si legano a questa metafora perversa dell'immigrazione come invasione? Il mio libro cerca di applicare questo schema all'interpretazione della cultura inglese degli ultimi anni, di estendere l'analisi iniziata in There Ain't No Black in the Union Jack a nuovi campi, vale a dire di leggere alcuni dei sintomi culturali di questa "malinconia postcoloniale" in fenomeni come il calcio, Harry Potter, Bridget Jones o i romanzi di autori come Nick Hornby, tutta cattiva letteratura ma che ha un seguito di massa in Inghilterra. Infine, mi è sembrato importante collegare questi fenomeni con lo sviluppo di un "fondamentalismo diasporico" nella stessa Inghilterra, che per alcune persone ha il valore che aveva la guerra civile in Spagna negli anni Trenta. Cerco di spiegare che presunti "terroristi integralisti" come Richard Reid, l'uomo che è salito su un aereo di linea con scarpe da ginnastica esplosive, sono persone nate e cresciute in Inghilterra e sono quindi a tutti gli effetti "inglesi". Il caso di Reid è molto interessante, dato che nemmeno i genitori erano immigrati. Per trovare il suo primo familiare immigrato bisogna risalire al nonno. Tuttavia, egli non fa parte a pieno titolo della comunità nazionale inglese. Le galere in Inghilterra sono piene di persone come lui. Mi interessa il modo in cui persone come Reid trasformano le ferite provocate dalla gerarchia razziale inglese nella fede e nell'impegno in favore di una rivoluzione islamica. E' una tragedia terribile. Episodi come questi confutano in modo chiaro la tesi dello "scontro tra civiltà", questo tipo di persone sono interne alla cosiddetta civiltà occidentale. Da questo punto di vista, gli scontri all'interno delle "civiltà", per così dire, mi sembrano più interessanti e più attuali di quelli tra le "civiltà".


(Tratto dal giornale Il Manifesto, del 15 Maggio 2004)


 

Paul Gilroy



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