PIOVENDO


Carlos Emílio C. Lima



Quel giorno, durato il tempo giusto, accadde il fatto che uniformò la città con i suoi errori e i suoi abitanti alle misteriose città liquefatte dei cieli. Fu un'elevazione. Io e lui sentimmo il magnete amoroso e cantante salire dai capelli. Ronzare. Le città sante navigano disseminate come nuvole nei cieli. E noi due eravamo insieme, predeterminati e continuativi. Uno osservava e l'altro dormiva. Quattro occhi come un uccello bianco invisibile. Adesso uno narra e l'altro scrive. Cerchiamo un sorriso.

Cadeva acqua magica a non finire. Agli uomini e alle donne piaceva, soprattutto ai bambini. I matti, sempre in cerca di piacere, impazzivano per l'acqua. I bambini ciarlavano, sguazzavano, ma soprattutto si buttavano fieri nel fango, era divertente vederli spogliarsi velocemente. La città sempre più nuda.

Nostra madre decise di montare un vecchio cavallo ancestrale. Eravamo là vicino alle montagne. Lei chiamò un ragazzo perché le portasse il cavallo che sotto l'albero si riparava dalla pioggia. Quando il ragazzo le condusse il cavallo, ricevette sul suo viso bagnato il bacio della donna. Mamma cavalcò l'animale luccicante dietro alle nuvole del temporale, in cerca delle stelle. Il volto del ragazzo si fece cento volte più bello.

La pioggia sgorgava da ogni parte come luce, gocce su gocce tra il fogliame, le tegole, gli uccelli, gli animali. Bagnava uomini e donne. I bambini ricevevano gli spruzzi più intensi, la forza più allegra. Liquido era sentire. Galleggiare le spugne dei sensi nell'umidità. Aspettare le raffiche di vento seduto accanto alla finestra. Sentire il soffio nuovo che fuggiva dagli orizzonti dove si trova la città trasformata. Lieve mutamento che il battere segreto dei nostri occhi percepisce. La testa e il corpo avrebbero percepito il colore di questa elevazione della città verso un altro piano invisibile solo nel pomeriggio, dopo.

E quindi accadde. Sette giorni di pioggia. L'ottavo giorno ripercuoteva ed echeggiava il lento risalire della pioggia verso le nuvole. Ogni cordone d'acqua era un'ampollina di pioggia. Gli uccelli posati al riparo tra i rami degli alberi cominciavano ormai a voler volare. L'uovo d'aria si disfaceva. Sorgeva una nuova bolla con l'intromissione del sole. Risorgeva la terra secca. Le persone avrebbero ricominciato a essere formiche. La città simile a un circolo tornava a girare su se stessa. Era come se un cavallo a forma di sole s'intromettesse tra le nuvole. Città ondeggianti simili al mare che cola nel cielo intero, proteggeteci. Siamo noi legati al dilacerante filo del tempo. Siamo noi che proprio qui inizieremo a gridare.

Tutti nella città erano rimasti uniti anche con la pioggia che si spargeva sui dorsi, sui tetti. I nostri piedi si univano alla terra bagnata. Sembravano le prove di una nuova festa per chi l'avesse dimenticata. Il proseguimento di tutti gli entusiasmi trattenuti per la strada, un transorridersi nel vento e nel vapore. Avevamo voglia di lavare con la pioggia le strade della città. Eravamo tutti fratelli di un unico e immenso amore. Persino i marinai delle navi ancorate al largo del porto della città si erano mescolati per le viuzze dei quartieri del lungomare. Nessuno voleva che il sole tornasse così presto. Oppure la sua assenza. Né un altro. Desideravamo il tempo umido e un po' di freddo. Amavamo di più. La sincerità, le porte e le finestre sbattevano, gocce di pioggia che cadevano sul metallo dei barattoli, delle pentole e delle brocche. Eravamo elevati a uno splendore reale, luce propria della nostra contentezza, dell'umidità del nostro sangue; la pelle del nostro corpo era un'intromissione di tenerezza nell'imprevedibilità del mondo. Ci amavamo sotto le coperte che, insieme alle nuvole sovrastanti lo sgomento reale del cosmo, ci nascondevano.

Una mano era vasta, l'altra semplice. Il corpo era un animale felice che scrive un libro nel pieno azzurro della sua pace. Così mi sento nel raccontare la storia della città che saliva verso l'alto, verso l'abisso. Esattamente come mi sentivo quella sera in cui io-lui, insieme, già di ritorno allo straordinario calore della città, uscimmo in strada come se avessimo ritrovato un viaggio che ancora dovevamo percorrere. Il sole recuperava le sue percussioni, i suoi fini metalli. Ci dirigevamo verso la piazza centrale. C'era un motivo per cui andavamo. Tutti. Un solo clamore nella pianta dei piedi, un formicolio di odio. Era necessario. Cominciavamo le prove di una ribellione, non più di una festa. Per alcuni secondi fummo certi di quel che accadeva come una sorda lotta dietro alle costellazioni.

La città cospirava. L'irripetibile si ripeteva. I suoni del respiro scendevano come immagini elettrificate fino allo stomaco. Cadendo sincronicolletivamente in questo azzurro inebriante, proseguivamo fino alla piazza bagnata dalla lamina rotonda del sole-specchio. Spaventati. Pronti. Di fatto, la prima grande lotta cominciava.



(Traduzione Silvia Marianecci, silviamarianecci@virgilio.it)





Carlos Emilio C. Lima, cearense di Fortaleza dove vive e lavora, è scrittore, poeta, editore e saggista, Ha pubblicato i romanzi A cachoeira das eras; Além, Jericoacoara e pedaços da história mais longe; O romance inédito e esquecido de Jorge Amado e l'antologia di racconti Ofos. Questo racconto fa parte del suo ultimo libro O romance que explodiu.

 


     
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